Michael Baxandall Forme delle intenzioni PDF

Title Michael Baxandall Forme delle intenzioni
Author LuScilla jommi
Course Storia della critica dell'arte
Institution Università di Bologna
Pages 15
File Size 240 KB
File Type PDF
Total Downloads 43
Total Views 129

Summary

Download Michael Baxandall Forme delle intenzioni PDF


Description

Concetta Liberato Matricola: 1523433

Michael Baxandall

Forme delle intenzioni: per una spiegazione storica delle opere d’arte

Laboratorio di storia della critica d’arte 07/04/2016

Michael Baxandall nacque a Cardiff, nel Galles, nel 1933, ed è morto a Londra nel 2008. Ha frequentato diverse università europee, tra cui quella di Pavia, Cambridge e Monaco. Negli anni ’80 continua la sua formazione al Warburg Institute di Londra, dove diventa docente di storia della tradizione classica fino al 1988. Successivamente si trasferisce negli USA, dove insegna storia dell’arte ad Oxford, alla Cornell e alla Barkley, dove acquista il titolo di professore emerito. Baxandall scrive Patterns of intention nel 1985, durante la sua esperienza al Warburg Institute, tradotto e pubblicato in Italia da Einaudi con il titolo Forme delle intenzioni, solo nel 1993. Si tratta della revisione di una serie di lezioni tenute nell’aprile del 1982 alla Berkeley University of California.

Porrei l’attenzione proprio sul titolo scelto per il libro: forme delle intenzioni. Il termine forme indica qualcosa di statico, di fermo, un disegno tracciato e immodificabile. L’ intenzione, invece, è qualcosa in continuo cambiamento, un processo individuale che cambia a seconda di ogni persona. Baxandall si occupa, infatti, proprio di rintracciare le intenzioni dell’autore e di come esse si siano evolute (o modificate o, addirittura, cancellate) nel corso dell’esecuzione di un’opera. Per analizzare questo processo, si deve partire dall’opera, nella sua specificità, cercando di eliminare tutti gli elementi che potrebbero interferire nella nostra descrizione dell’opera in questione. Qui entra in gioco il sottotitolo: “sulla spiegazione storica delle opere d’arte”. La spiegazione storica esatta può avvenire solo dopo aver abbandonato i preconcetti e le distinzioni che siamo propensi a fare, condizionati dalla nostra cultura e dalle nostre conoscenze pregresse. Attraverso le sue spiegazioni e le sue teorie, l’autore cerca di ricostruire e donare la veridicità storica ad un’opera d’arte. Baxandall specifica che non è nel suo interesse occuparsi della sociologia dell’arte: “Per forza di cose, il mio libro tralascia quindi una grande quantità di argomenti, e uno di questi è la sociologia dell’arte: mi occupo infatti di collocare socialmente i quadri solo nella misura in cui lo richiede l’ambizione critica.”1 L’operazione che egli è intenzionato a fare, infatti, è quello di sfruttare il contesto storico in cui viveva l’artista, solo per trarre aspetti utili alla comprensione dell’oggetto artistico. Il suo concetto della cultura è quello di un ambiente in cui si muove l’attore, quale persona socialmente attiva, ma che non ne subisce inevitabilmente l’influenza. Al contrario, vede la cultura come una sorta di background che l’artista utilizza come stimoli, che sono riflessi nel suo prodotto: questo non è il prodotto di un contesto sociale, bensì il risultato dell’azione di un uomo, che ha assimilato e rielaborato gli spunti ricevuti dal proprio contesto. D’altro canto, quando ci apprestiamo a commentare e descrivere un quadro, anche noi dovremmo spogliarci delle convenzioni dateci dalla nostra cultura: il linguaggio, il mezzo che l’uomo usa per comunicare, è 1 M. Baxandall, Forme delle intenzioni: sulla spiegazione storica delle opere d’arte, Einaudi, Torino 2000, p. 7

solo conseguenza di un’operazione del cervello. Pertanto, quando siamo intenti a descrivere un’opera, essa non sarà altro che il risultato di ciò che pensiamo, di ciò che ha suscitato in noi la visione dell’opera d’arte. Nell’introduzione del libro, Baxandall confronta due descrizioni completamente diverse: una fatta da Libanio, nel IV secolo dopo Cristo, di un quadro che si trovava nella Casa del Consiglio di Antiochia, e una di Clarck sul Battesimo di Cristo di Piero della Francesca. La prima risulta ecfrastica, quasi romanzata, e chi descrive riporta fedelmente ciò che vede; la seconda è più breve e scientifica: Clark utilizza il costrutto “saldo disegno”, che ha senso solo se messo in relazione con l’opera a cui si riferisce. In assenza del dipinto, esso perde di significato o, almeno, non è in grado di descrivere al meglio la pala. Il critico vuole sottolineare come entrambi gli esempi non arrivino ad una descrizione efficace e corrispondente all’opera a cui i due uomini si riferiscono: infatti, i due stanno descrivendo il loro pensiero, la loro opinione di ciò che hanno visto, pertanto la loro descrizione è contaminata dalle loro considerazioni: “Quello che una descrizione tenderà a rappresentare nel modo migliore è il pensiero che segue all’atto di vedere un quadro”2. Baxandall mette a fuoco un punto molto importante: il linguaggio, il mezzo che ogni uomo utilizza per esprimere il proprio pensiero, non è sufficiente, o almeno, non è adeguato alla critica artistica. Attraverso le parole, frutto di un lavoro del cervello, non si può descrivere in modo funzionale ed esatto ciò che si vede, a causa delle contaminazioni che il discorso subisce proprio dal cervello.

Baxandall crede che per descrivere al meglio un’opera bisogni rintracciare, dietro di essa, il progetto dell’artista, ovvero la sua intenzionalità. Per dimostrare la sua teoria, non si occupa di un’opera d’arte, ma crede sia più funzionale un ponte: questo, oggetto pratico e di pubblico utilizzo, si presta al meglio a questo esperimento, rappresentando la risoluzione di un problema. Il Forth Bridge venne progettato da Thomas Bouch agli inizi degli anni ’80 del ‘800, ma non andò oltre la base delle fondamenta per la caduta di un altro ponte progettato dallo stesso, il Tay Bridge. Dopo il disastro, il progetto passò nelle mani di John Fowler e Benjamin Baker, che costruirono il nuovo ponte (l’attuale) tra il 1883-1890. Il ponte è l’esempio perfetto per tentare di indagare l’attività intenzionale dell’attore che, in questo caso, è Baker. Al progettista vennero affidati una serie di incarichi, una lista di problemi che doveva affrontare affinché il ponte risultasse funzionale e, soprattutto, stabile. Per comodità, Baxandall chiama questa lista di incarichi con il nome di agenda. Tuttavia, per ricostruire al meglio l’opera, ovvero per essere certi di riuscire a descrivere il ponte e, di riflesso, l’intervento di Baker, dobbiamo capire il suo lavoro intenzionale all’interno della realizzazione. Risolvere i problemi era il suo compito, e per farlo avrebbe potuto scegliere tra una 2 Ibidem, p. 15

vasta gamma di soluzioni, ma Baker intervenne con la propria cultura, con la propria esperienza pregressa. Scelse, come soluzione, un ponte a mensole, sulla base delle sue conoscenze nella costruzione dei ponti, per la sua esperienza con la Siemens e i metalli, e anche perché aveva potuto studiare una soluzione analoga adottata nel contesto asiatico. Dobbiamo immaginare questi elementi come alle basi di un triangolo: l’agenda, la cultura, e la descrizione. Baxandall chiama questa forma concettuale come triangolo di riattivazione: si tratta di un meccanismo che ha il compito di riattivare nella nostra mente una conoscenza, un concetto relativo all’opera che stiamo esaminando. Solo unendo questi tre vertici possiamo arrivare alla ricostruzione del pensiero dell’attore, che ci permette di vedere l’opera per quella che è, nella sua interezza, e nel suo ruolo: essa rappresenta un anello, un tassello nel processo del pensiero di Baker, che si può ricostruire interamente solo facendo riferimento al prodotto di quel pensiero, ovvero il ponte. “Si parla di ricostruzione del processo del pensiero”3 Triangolo di ri-attivazione Termini del problema

Descrizione

Forth Bridge

Cultura

Arrivato a questo punto, Baxandall si domanda se il concetto di triangolo di riattivazione possa essere applicato ad un’opera d’arte, e ci prova con il Ritratto di Kahnweiler di Picasso. L’opera venne realizzata nel 1910, quando il pittore era nel pieno della sua attività, e dei suoi esperimenti “cubisti”. Ho messo intenzionalmente questa parola tra virgolette, perché io (come Baxandall) sono contraria alle etichette: questo nome venne affibbiato da Apollinaire ad un gruppo di pittori (tra cui anche Picasso e Braque) che stavano sperimentando nuove soluzioni spaziali, ovvero che tentavano di riportare sulla tela, superfice bidimensionale, attraverso una sovrapposizione di piani, la cosiddetta “terza dimensione”. Questo era un argomento caro a Picasso, che aveva cominciato le sue indagini dal 1906, quando era entrato in contatto con alcune opere di Cezanne, soprattutto della produzione tarda, come Le bagnanti (1900) e Le grandi bagnanti (1906), presenti nella collezione di Vollard. Possiamo dire che il problema spaziale, insieme al colore e alla percezione temporale, erano nell’agenda di Picasso. I suoi interessi erano sfociati in Les demoiselles d’Avignon, opera ritenuta cubista, ma che, secondo me, non lo è affatto. In questo dipinto sono ben chiare le nuove ricerche di Picasso, ma mi sembra riduttivo definirla semplicemente come “la prima opera cubista”. 3 Ibidem, p. 52

Così facendo, si eliminerebbero tutti gli esperimenti del pittore, che non riguardano solo lo spazio e il colore, ma anche il forte interesse per le maschere e la pittura africana (ben chiare nelle due teste di donna sulla destra). Se dicessimo che Les demoiselles d’Avignon e tutta l’opera di Picasso post 1906 fosse influenzata da Cezanne, commetteremmo un errore: il concetto di influenza è inesatto e scorretto nei confronti dei singoli artisti. Se pensassimo sempre e comunque in questi termini, si appiattirebbero le singole personalità. Non ci troviamo nell’ambito delle scuole del XV/XVI secolo, quando un allievo era inevitabilmente condizionato dal proprio maestro, da cui prendeva sicuramente delle caratteristiche peculiari. Piuttosto dobbiamo pensare come a Picasso che agisce su Cezanne: il primo sceglie degli elementi nella produzione pittorica del secondo, e li rielabora secondo le proprie necessità, li utilizza come spunti per una nuova riflessione. Sono dei punti di partenza per un nuovo percorso, sono dei problemi da risolvere. Così facendo, Picasso offre una rilettura dell’opera di Cezanne: sicuramente ci sono dei punti di contatto fra i due, ma Picasso fa suoi quegli elementi e li offre al pubblico secondo una nuova visione. Baxandall riflette molto su questo punto, rifacendosi anche a quelle tematiche messe a fuoco da Michael Podro, suo maestro. Nel suo libro The critical historians of art4 Podro si concentra molto sulle singole opere d’arte, cerca di capire quanto il nostro giudizio su un’opera venga condizionato dalla personale concezione dell’arte, ovvero su quel passaggio che avviene dall’oggetto (artistico) alla soggetto (lo spettatore). Attraverso un confronto fra Tiziano e Rembrandt, Podro rivela lo stesso atteggiamento del suo allievo, rifiutando completamente il concetto standard dell’influenza: “Pensare in termini di influenza è d’impaccio alla riflessione, limitando le possibilità di specificare gli strumenti atti ad individuare il carattere personale dell’artista.”5 Il suo non è un atteggiamento anacronistico, non rinnega il susseguirsi degli eventi: ciò che Baxandall cerca di dimostrare è la storia vista come un continuo flusso di eventi, dove le tracce di ogni singolo artista vengono raccolte e rielaborate dagli artisti successivi, secondo il loro linguaggio. Non credo sia errato rintracciare in questo pensiero un’analogia con il concetto warburghiano della sopravvivenza: gli impulsi lanciati da un artista vengono raccolti e riletti da coloro che gli seguono, e sopravvivono nel corso del tempo, sotto una veste diversa.6 Il rapido sviluppo delle opere di Picasso, visibile nella produzione 1906-10, è dovuto alla continua ricerca del pittore: l’opera d’arte non è il punto di arrivo di una ricerca, bensì è la partenza, è il luogo dove si risolvono i problemi, ma anche dove ne nascono di nuovi. E non per forza un’opera è terminata alla fine di questo flusso di problemi: spesso esso inizia in un’opera e finisce in un’altra. 4 M. Podro, The critical historians of art, Yale university press, New Haven 1982 5 Ibidem, pp. 88-9 6 Mi riferisco al concetto di Pathosformel , termine usato da Warburg per indicare immagini archetipiche che ritornano in contesti differenti attraverso i secoli della storia dell'arte, durante la conferenza Dürer und die italienische Antike (1905)

E’ il caso del Ritratto di Vollard, immediatamente precedente il Ritratto di Kahnweiler. Se riusciamo a vedere le opere secondo questa concezione, esse ci appariranno come delle performance, come facenti parte di un processo in continuo movimento. In relazione a questo le dichiarazioni di Picasso del 1923 mi sembrano emblematiche: “Non capisco molto l’importanza che si dà alla parola ricerca in relazione alla pittura contemporanea. Si tratta di trovare.” “Ma è invece proprio della critica d’arte il compito di lavorare su casi particolari: è dal diretto contatto con i dettagli, che la critica d’arte assume concretezza, nell’osservazione delle qualità peculiari di un quadro e nell’individuazione di una buona dose di circostanze casuali.” 7 Con questa citazione, tratta proprio da Forme delle intenzioni mi sento di iniziare il complesso discorso che Baxandall costruisce intorno al quadro La donna che prende il tè di Chardin. Il critico sceglie proprio un particolare di questo dipinto come copertina dell’edizione americana del libro, un dettaglio che mette a fuoco il centro dell’opera, punto di partenza per le sue riflessioni. Seguendo il ragionamento fatto da Baxandall fino a questo momento, per contestualizzare la produzione de La donna che prende il tè, dobbiamo cercare di ricreare la cultura in cui si muoveva Chardin, di addentrarci in quel substrato di conoscenze da cui l’artista ha tratto delle soluzioni tanto particolari e singolari per la propria opera. Se ci mettiamo di fronte al dipinto, notiamo immediatamente che non c’è un unico punto di fuga al centro del quadro e che attiri l’attenzione dello spettatore; al contrario, una continua scia luminosa pone l’accento su una linea orizzontale giusto al centro. Inoltre, è da notare come molti degli elementi costituenti la composizione non sono del tutto precisi, al contrario, sono piuttosto sfocati (il volto della donna, di profilo, il bordo della teiera, ecc.). Per comprendere le soluzioni adottate dall’artista, Baxandall comincia ad interrogarsi sul mondo in cui l’attore, quale persona socialmente attiva, viveva. Nella prima metà del XVIII secolo, periodo di attività di Chardin, in Francia gli studi dell’ottica avevano visto un notevole incremento. Tutto grazie alla pubblicazione del Saggio sull’intelletto umano di John Locke, nel 1690. Il saggio, diviso in quattro libri, indagava la capacità dell’intelletto umano, e Locke sostiene che il processo di apprendimento prenda avvio dall’esperienza, che può essere interna o esterna al soggetto, la quale attraverso l'associazione di idee semplici, porta alla formulazione di idee complesse e di un giudizio. Secondo Baxandall, questa teoria, molto legata alla psicologia, venne adattata alle esigenze dell’ottica e, di riflesso, a quelle della pittura da tre intermediari: La Hire, Le Clerc e Camper. Quest’ultimo, in modo particolare, formulò l’idea di corollario pittorico, ossia uno spazio riservato, sulla tela, agli elementi salienti della composizione, che devono essere raggruppati sotto un cono di luce, in modo che lo spettatore non si perda nella visione intera del quadro, ma si 7 Ibidem, p. 63

concentri sulle cose essenziali dell’opera. I restanti elementi possono essere messi in ombra, e percepiti dallo spettatore tramite la sua conoscenza pregressa, inferenziale, utilizzando un parola adottata da Baxandall. Chardin venne a conoscenza di questi sviluppi nella ricerca visiva grazie al suo amico Cochin, un incisore e pittore francese, che tenne una lezione all’Accademia dei pittori di Parigi, il cui argomento era proprio questa ricerca sull’ottica e sull’ottimale rappresentazione visiva. Ancora al XVIII secolo risale la definizione “Distinctness of vision”, che comprende in sé due termini ancora i uso: adeguamento e acutezza. Il primo riguardala capacità dell’occhio di modificarsi per mettere a fuoco oggetti in primo piano posti a distanze diverse, il secondo concerne le differenti gradazioni della risposta sensibile nei diversi punti della retina e determina il grado di nitidezza entro il campo visivo. Entrambi i termini sono connessi alla messa a fuoco, il primo in profondità, il secondo all’interno del campo visivo. Naturalmente, Baxandall nota come tutte queste teorie non si adattino in modo ottimale al quadro di cui si sta occupando: nell’opera di Chardin non troviamo, certamente, un corollario pittorico e nemmeno un unico punto di luce: come ho sottolineato precedentemente, una continua linea di luce si estende orizzontalmente alla metà della composizione. Baxandall continua, quindi, la sua ricerca e indaga sulle intenzionalità dell’artista: per capire l’opera di Chardin dobbiamo unire a queste innovative scoperte anche i suoi interessi in campo pittorico. L’artista conosceva e apprezzava la pittura olandese, caratterizzata, in quegli anni, da un forte naturalismo e dalla rappresentazione della vita quotidiana, senza orpelli o enfatizzazioni, bensì nella sua totale semplicità. Inoltre sono note le sue sperimentazioni basate sulla luce monumentale tipica della produzione di Guido Reni, e anche sul taglio diagonale caratteristico delle opere di Veronese. Se tentiamo di applicare questi due interessi a La donna che prende il tè notiamo come il tavolino rosso in primo piano non sia messo frontalmente, bensì è visto di lato ed enfatizzato dall’acceso colore, e anche la sedia ha lo schienale messo di lato, e risulta essere molto più grande di quanto sia in realtà qualsiasi schienale di una sedia. E’ da notare, ancora, che, oltre alla luce che taglia a metà e orizzontalmente il quadro, ci sono dei raggi laterali che illuminano il dipinto in senso diagonale, come quello che parte dall’estremità sinistra in alto, passa per la guancia della donna e arriva allo spigolo del tavolino. Proviamo a ricostruire un’agenda del pittore, basandoci sugli esempi portati da Baxandall nei due casi precedenti del Forth Bridige e del Ritratto di Kahnweiler: Chardin partiva da 1) il Saggio sull’intelletto umano di Locke e, quindi, l’indagine sulla conoscenza umana basata sull’esperienza inferenziale; 2) le affermazioni di Camper, ovvero il corollario pittorico, che ha conosciuto grazie alla lezione di Cochin; 3) l’interesse per la pittura olandese e, quindi, il naturalismo; 4) gli espedienti pittorici adottati da Reni (luce monumentale) e Veronese (taglio diagonale).

Baxandall giunge alla conclusione che l’opera in questione sia il risultato di una scelta operata dall’artista, di una selezione che ha fatto nell’ampio ventaglio di possibilità offertegli dal suo tempo, dal suo contesto sociale. Anche in questo caso, è bene guardare l’opera nella sua singolarità, e non come tassello unito alla lunga catena della produzione artistica dell’autore. In questo caso (e forse solo in questo caso) Chardin ha voluto unire i suoi interessi alle sue conoscenze e ha prodotto un’opera di difficile interpretazione e, ancora di più, di difficile descrizione. Torniamo al problema del linguaggio: nessuno di noi potrebbe formulare una frase, un costrutto verbale, in grado di descrivere al meglio l’opera, tanto meno riuscirebbe a racchiudere tutti gli elementi che la caratterizzano, e nemmeno potrebbe spiegare le “stranezze” di determinati elementi. L’oggetto preso in considerazione è un caso unico, in cui confluiscono esperienza e intenzionalità. Si potrebbe spiegare come un “atto percettivo che ha per oggetto la sostanza. Se distinguiamo tra raffigurazioni della sostanza e raffigurazioni della percezione e diciamo che il quadro raffigura una percezione”8. In questi termini si spiegherebbe la luce orizzontale: Chardin non vuole rappresentare un attimo, gli oggetti visti e percepiti in un determinato momento, ma, come fa l’occhio che si muove velocemente per catturare e percepire tutti gli elementi, così l’artista tenta di rappresentare una percezione...


Similar Free PDFs