Orche e altri relitti - Daria Biagi PDF

Title Orche e altri relitti - Daria Biagi
Author Ilaria Neri
Course Letteratura italiana contemporanea
Institution Università di Bologna
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ORCHE E ALTRI RELITTI – Daria Biagi 1. Il mondo prima: Codice siciliano 1.1. Messina, Roma. Quando Stefano D’Arrigo arriva ad imporsi all’attenzione della critica in seguito alla pubblicazione di Horcynus Orca sono in pochi a conoscerlo; nome legato soltanto a Codice siciliano. Negli anni del dopoguerra, infatti, D’Arrigo è per lo più noto per il suo lavoro giornalistico (egli siglava i suoi articoli con il nome di battesimo: Fortunato). Il cambio di nome contribuisce a cancellare le tracce del D’Arrigo di “prima”, nonostante lo stile dei suoi articoli mostri già una certa predilezione per i toni narrativi. 1.2. Il poeta ingrato: D’Arrigo lettore di Hölderlin. Tesi di laurea di D’Arrigo su Hölderlin che a primo acchito può sembrare una scelta astrusa. In due occasioni significative D’Arrigo chiama esplicitamente in causa il poeta tedesco: la prima è legata alla pubblicazione sul “Menabò” di due capitoli tratti da I giorni della fera (stesura iniziale di Horcynus Orca), nel 1960; la seconda risale a un’intervista rilasciata nel 1977  centralità di queste due date: il ’60 è l’anno in cui escono i primi estratti dell’opera, nel ’77 il romanzo è ormai pubblicato e ancora vivace è la discussione fra i suoi critici. Richiamarsi a Hölderlin in questo contesto assume un significato particolare se ricondotto al momento storico.

1.3. Hölderlin negli anni della guerra. Per i poeti italiani che scrivono negli anni intorno alla seconda guerra mondiale Hölderlin rappresenta una sorta di “nome tutelare”. In realtà la ricezione hölderliniana inizia già alla fine dell’Ottocento, quando il poeta tedesco viene ricondotto a cantore di una Grecia tragica e idillica; con l’inizio del nuovo secolo il suo nome si sarebbe legata poi al nome di Nietzsche. La ricezione italiana si interseca con quella francese e in questa fase riveste un ruolo importante Giuseppe Ungaretti (gli ermetici cercano in Hölderlin una legittimazione alle proprie posizioni poetiche). La svolta verso la seconda fase si ha dalla metà degli anni Trenta  1936: data che segna simbolicamente il primo passo nella rilettura di Hölderlin (anno in cui Giovanni Gentile invita a Roma Martin Heidegger a tenere una conferenza sul connazionale  compromissione del nome del poeta, si parla di Hölderlin-Renaissance, rilettura in chiave fascista). Accanto a questa circolazione “ufficiale”, ne esiste un’altra “sotterranea”, che si svolge di mano in mano tra poeti e scrittori. A trasformare la “moda” hölderliniana in un’aspra polemica culturale contribuirà Benedetto Croce, condannando il “fanatismo” alimentatosi intorno alla sua figura. Ulteriore elemento che concorre a rendere Hölderlin patrimonio comune per gli scrittori italiani del XX secolo è la diffusione delle traduzioni  il suo complesso linguaggio favoriva un autentico gusto della sperimentazione (capacità di “sforzare la lingua”).

1.4. Il «saettato d’Apollo». Figura di Vincenzo Errante, germanista e poeta, che aveva pubblicato La lirica di Hölderlin  visione “dannunziana” del suddetto: Hölderlin forzatamente riambientato nel linguaggio lirico italiano. L’espressione “saettato d’Apollo”, con la quale D’Arrigo definisce Hölderlin sul “Menabò”, è esattamente quella che Errante utilizza per descrivere il poeta ormai definitivamente ghermito dalla pazzia. Non si può dimenticare, infine, che la Sicilia intratteneva da sempre un legame privilegiato con la tradizione tedesca (scenario privilegiato di molte liriche di Hölderlin)  alla luce di tutto il retroscena legata alla sua figura, la scelta di tale poeta nella tesi di laurea di D’Arrigo non pare poi così incomprensibile.

1.5. Pregreca, migrazione. Temi di Codice siciliano: rapporto con la terra natale, persistenza dell’amicizia, sfera del mito  assumono un’ottica diversa se letti in chiave hölderliniana. Esempio della poesia Pregreca > referente letterario: Migrazione di Hölderlin (vd. commento pp. 41-43).

1.6. «Un segno siamo noi, indifferente». Intento linguistico di D’Arrigo è quello di racchiudere nella sua opera, sia in versi che in prosa, tutte “le lingue della Sicilia”. Tra le poesie del Codice quella che più esplicitamente incarna questo ideale è In una lingua che non so più dire: nonostante la ricchezza culturale ed espressiva, però, si affaccia l’inquietudine legata alla perdita della parola, poiché nessuna delle lingue messe in gioco può dirsi davvero patrimonio del poeta (problema della parola che non significa che deve molto alla lezione hölderliniana).

1.7. Amici occhi di svevi. Lirica Menmosyne  compare il topos classico del compagno caduto in battaglia, che prelude al tema dell’amicizia tra i compagni di armi. Suggestioni che si strutturano più compiutamente in Horcynus Orca: gli “amici” dei versi, uomini di mare e poi, per imposizione della Storia, guerrieri, sono gli stessi con cui nel romanzo ‘Ndrja gioca a “sirene e marinai”, quelli che saranno dispersi dalla guerra e che non faranno più ritorno a casa.

1.8. Semidei e reduci di guerra. La visione hölderliniana del mondo greco non è più compiutamente classica ma non ancora tragica (non più Goethe ma non ancora Nietzsche). Per D’Arrigo la rilettura hölderliniana del mondo greco va a intersecarsi con molteplici altri richiami: un primo elemento riguarda il sincretismo religioso  il mondo dei Semidei è il luogo dove si compenetrano il simbolismo pagano e quello cristiano, in cui la figura di Cristo si sovrappone a quella di Dioniso (se l’orizzonte cristiano sarà quasi del tutto assente da Horcynus Orca, così non è all’altezza del Codice); un secondo aspetto riguarda la visione dell’età dell’oro o del “Paradiso perduto”  sentimento nostalgico verso il passato che deve essere corretto (cfr. Arcipelago di Hölderlin): lirica che sembra ripercorrere la trama di Horcynus Orca (ritorno del reduce che lascia l’orrore dell’azione per entrare nell’orrore come risultato dell’azione, stupore di fronte allo scempio della propria terra, incomprensione familiare, tentativo di ricostruzione dei legami).

1.9. Il confine del dire. L’importanza di Hölderlin è dovuta al valore che nel tempo si è consolidato intorno alla figura, al suo aver incarnato il senso di una resistenza di fronte all’indicibile. Sarà proprio il linguaggio, la mescolanza delle lingue (“un po’ tedesco un po’ greco e un po’ latino”) a decretare agli occhi del medico la chiara minaccia della pazzia. La lettura novecentesca di Hölderlin porta con sé questa particolare interpretazione della lingua, che viene vista come un elemento vivo, indipendente e ribelle nelle mani dell’artista. La potenza creativa della lingua non è recuperabile se non per via di reinvenzione, falsificazione, ricostruzione arbitraria; è ciò che si può leggere nella riflessione metaletteraria sulle “parole pittate” messa in bocca a ‘Ndrja da D’Arrigo  il tempo che passa cancella il senso pittorico e originario del linguaggio e a esso si sovrappongono nuovi significati e nuove interpretazioni (mentre la fede nella ragione etimologica delle parole guarda nostalgicamente al passato, il principio dell’”etimologia popolare” che storpia la lingua per avvicinarla all’esistente cerca ostinatamente di spingere il linguaggio in avanti).

1.10. Eroi o antieroi. Scelta di Hölderlin come figura di riferimento, in cui si concentrano sia suggestioni formali (scavo linguistico verso le radici delle parole, rimotivazione creativa dei “relitti” linguistici) sia tematiche (idea di una resistenza al silenzio). Questo soldato dell’ideale tornerà, in vesti diverse, nelle opere di D’Arrigo (sempre biondo, sempre nordico, sempre compromesso con la scrittura)  es. Pirri di Horcynus Orca, che muore suicida per non cadere in mano ai tedeschi dopo la dichiarazione dell’armistizio; i valori della cultura greca mediata da Hölderlin sono sintetizzati nella figura di questo eroe idealista, il “tipo-Iperione”, che rifiuta in toto il compromesso con un mondo che si rivela incompatibile con le sue aspirazioni. Ma questo è solo un lato della rappresentazione che interessa a D’Arrigo: il suo intento è anche quello di dare la voce a una cultura arcaica, “pregreca”, a una Sicilia più terrestre e più mediterranea, decisamente meno eroica (anti-Iperione è Archiloco, il soldato che salva se stesso rifiutando la logica dell’onore). Da una parte stanno dunque gli ideali e l’etica del suicida, dall’altra la realtà, la diserzione, il rifiuto

della retorica  antinomia schematica che però aiuta a far luce sul conflitto ideologico che verrà messo in scena nelle pagine di Horcynus Orca, per esempio nella discussione tra ‘Ndrja e Ciccina su cosa decida davvero la valentia di un uomo.

2. Una riscrittura gogoliana: Il compratore di anime morte 2.1. Un’inedita «libera riduzione». Il D’Arrigo inedito del dopoguerra non è soltanto il poeta, ma anche il narratore. A darne testimonianza è, ad esempio, il dattiloscritto di un “romanzo russo” ispirato all’opera di Nikolaj Gogol’: Il compratore di anime morte  si tratta di una “libera riduzione” del poema di Gogol’ Anime morte; D’Arrigo ne reimpianta la trama nell’Italia meridionale del 1859, a pochi giorni dalla spedizione garibaldina in Sicilia, attribuendo al piccolo regno borbonico un potenziale di caos amministrativo equiparabile a quello dell’intera russa zarista. Protagonista è il “trovatello di trent’anni” Cirillo Docore, che, ricalcando il protagonista gogoliano Pavel I. Čičikov, risale i gradini della scala sociale tramite una losca compravendita di “anime morte” (=contadini deceduti ma ancora iscritti nei registri catastali).

2.2. Essere un russo!. Come Hölderlin è una lettura di riferimento per i poeti degli anni Trenta e Quaranta, Gogol’ lo è per i prosatori (basti pensare a un romanzo apertamente ispirato alle Anime morte come Gli anni perduti di Vitaliano Brancati). Nella sua riscrittura gogoliana D’Arrigo riprende dunque gli scenari di quella provincia siciliana che già Brancati aveva saputo trasformare nel “luogo comico dello spirito moderno”. Per quanto riguarda la collocazione cronologica, D’Arrigo sembra volersi richiamare alle numerose riletture del processo risorgimentale, un filone che dalle novelle di Verga, attraversando I vicerè e I vecchi e i giovani, è destinato a giungere, con Il Gattopardo, fino al cuore del Novecento.

2.3. Le anime morte secondo D’Arrigo. Trama: il trovatello Cirillo Docore, in attesa che una famiglia decida di adottarlo, lavora con grande zelo presso l’Istituto della Real Beneficenza. Registrando l’atto di compravendita di un terreno in Sicilia si trova a fantasticare su quanti soldi potrebbe ottenere rivendendo allo Stato i contadini defunti e non ancora registrati nel censimento (avvio del commercio delle “anime morte” grazie all’acquisizione di un titolo nobiliare). I personaggi che Cirillo incontra hanno i caratteri più vari ma sono tutti accumunati da un completo disinteresse per le condizioni del loro paese e da un ottuso guardare solo al proprio interesse. I progetti di ascesa sociale si frappongono alla relazione di Cirillo con Rosalia Traina, ma il giovane si rende conto che anteporre i sentimenti agli interessi lo porterebbe alla rovina. Intanto le sue aspirazioni matrimoniali, indirizzate alla figlia del viceré, gli attirano le ostilità delle donne di corte, che ne decretano la reclusione nel carcere della Vicaria. Qui Cirillo entra in contatto con i prigionieri politici filogaribaldini, che per un equivoco lo ritengono un loro solidale; quando i garibaldini sbarcano in Sicilia, Cirillo si farà trovare convertito alla causa e combatterà al fianco di Rosalia indossando una camicia rossa.

2.4. Gogol’ moderno. D’Arrigo avverte un’affinità tra il periodo risorgimentale italiano e l’età di Gogol’. La vicinanza è prima di tutto tra Italia e Russia e addirittura tra Sicilia e Russia  tardiva esperienza di modernizzazione: nelle Anime morte Gogol’ fotografa il momento in cui la struttura feudale dell’impero zarista si avvia verso la modernizzazione, aprendo la strada a coloro che intuiscono una maggiore possibilità di arricchirsi (non più solo tramite beni reali, ma anche attraverso il commercio di beni “nominali”, di titoli). L’atteggiamento di Gogol’ verso la modernità è ambiguo: se da un lato lo scrittore sembra rimpiangere i valori dell’antica “Rus”, non per questo si lascia prendere dallo struggimento nostalgico per un mondo che è anche crudele e arretrato. Per quanto riguarda la scelta di D’Arrigo di “tradurre” l’ambientazione del poema gogoliano con il momento dell’apertura all’unificazione italiana ha una duplice funzione: da un lato rivendica il

diritto di elaborare con tempi propri la trasformazione; dall’altro ricorda ai sostenitori della modernizzazione che la lentezza di questo processo è dovuta anche alle resistenze del “mondo di prima”.

2.5. Cirillo e Filomeno. Il nucleo centrale del Compratore si regge sulla tradizionale struttura a schidionata della letteratura picaresca: il protagonista avanza nel tempo e nello spazio e lungo il suo andare si dispongono i personaggi e gli episodi. L’articolazione spaziale del viaggio di Cirillo richiama il progetto iniziale di Horcynus Orca (Napoli > Sicilia); esistono somiglianze anche tra i due rispettivi protagonisti, casti solitari in qualche modo esclusi dalla continuità delle generazioni. Idealismo di Cirillo a cui fa da controcanto il cocchiere Filomeno (analogo del Selifan gogoliano), una sorta di Sancho Panza che in tutte le situazioni spinge Cirillo verso le scelte più concrete; Selifan rappresenta insomma il vero e proprio spirito romanzesco che offre il contradditorio al discorso dominante del protagonista (è grazie ad esso che la posizione dell’eroe idealista può entrare in dialogo con il resto del mondo).

2.6. Una chiacchierata familiare. La saggezza di Filomeno è vicina a quella espressa dalla voce del narratore, una voce cantilenante, popolare, che racconta con partecipazione e ironia le vicende dei personaggi  linea di continuità con la voce narrante di Horcynus Orca, che presenta un tono da cantastorie, da narrazione teatrale e popolare.

2.7. Nomi parlanti (I). Alla presenza di una sorta di voce “collettiva” va ricondotto anche l’uso dei nomi parlanti e dei soprannomi: molti utilizzati da Gogol’ per caratterizzare i personaggi, vengono reinterpretati da D’Arrigo, il quale riesce a saldare il modello straniero con una tradizione tipica siciliana, quella della ‘gnuria. L’uso romanzesco dei nomi parlanti ha una doppia funzione: da un lato quella di far emergere la voce collettiva che mette il nome; dall’altro quella di smascherare l’arbitrarietà, il vuoto di questi stessi nomi, mostrando come possano essere sempre rifunzionalizzati  è come se tutti i nomi fossero alla stregua di quelli delle “anime morte” (nomi privati del loro contenuto), che, staccati dal referente che designano, sono pronti per essere riconvocati ogni qualvolta sia necessario mettere in piedi una finzione. I relitti dell’epoca passata, o che sta passando, non spariscono automaticamente quando la struttura si trasforma, ma continuano a vivere anche nell’epoca più moderna.

2.8. Di chi sono tutte queste terre? Gogol’, Verga, D’Arrigo . Nelle Anime morte è la terra russa la vera protagonista della narrazione (per renderne l’idea della vastità Gogol’ ricorre al topos del viaggiatore che domanda a chi appartengano le terre su cui sorge e tramonta il sole, cui segue una lunga elencazione  al lettore italiano torna in mente l’enumerazione che funge da apertura a La roba di Verga; D’Arrigo fonde questi due immaginari e eleva le desolate campagne siciliane alla dimensione sconfinata delle steppe russe).

2.9. Una brička col sonaglio. 2.10. D’Arrigo e il «poema». Leggendo le Anime morte di Gogol’, D’Arrigo sottolineava la parola “poema”; è noto che nei progetti dello scrittore russo il romanzo rappresentasse solo l’atto primo di un affresco letterario che, ispirandosi alla Commedia, avrebbe attraversato l’inferno e il purgatorio della condizione umana, giungendo infine a una visione paradisiaca. In realtà, come affermava Bachtin, l’esito di Gogol’ giunge più a una satira menippea (dimensione narrativa che risente già del peso di una nuova condizione che incombe e si rivela nelle ambivalenze e nella risemantizzazione dei motivi comici). Così come nelle Anime morte, anche per D’Arrigo bisogna tenere conto di questa discendenza: se è vero che la sua produzione letteraria si regge sui palinsesti dei due viaggi mitici più importanti della nostra tradizione letteraria, quello di Ulisse e quello di Dante, è necessario tenere in considerazione il fatto che questo mito è filtrato anche dalla lettura di

Gogol’  se di poema si deve parlare ha forse più senso intenderlo nel senso gogoliano del termine o, come avrebbe scritto Verga nel titolo di una sua novella, come un’epopea spicciola.

3. Il discorso straviato: Horcynus Orca 3.1. D’Arrigo romanziere. Sebbene Horcynus Orca sia stato pubblicato solo nel 1975, si fa generalmente risalire ai primi anni Cinquanta il progetto di D’Arrigo di mettere mano a un’opera narrativa di vaste dimensioni. La critica è ormai concorde nell’identificare il primo embrione del romanzo nell’articolo Delfini e Balena Bianca, pubblicato nel 1949 sul “Giornale di Sicilia”. Cosa spinge D’Arrigo a passare alla narrativa? Egli aspira a un tipo di racconto che non si accontenta di essere lirico, ma che, grazie alla molteplicità delle storie, delle voci e degli stili, sia capace di rappresentare “tutta la vita e tutto il mondo”. Le coordinate entro cui si consuma il passaggio da poesia a prosa vengono tracciate da pochi ma significativi riferimenti: Faulkner e Melville costituiscono infatti gli assi portanti del mito letterario americano; l’autorevolezza degli autori d’oltreoceano è resa ancora più ineludibile dalla figura “mediatrice” di Elio Vittorini. L’idea di romanzo che si afferma nel dopoguerra deve molto ai modelli stranieri  il modernismo veicola la convinzione che non esista romanzo “ben fatto”, che la deformità dell’opera sia parte integrante del suo significato.

3.2. La faccia del linguaggio, la faccia del romanzesco. Celeberrima “questione della lingua”: per D’Arrigo lo scarto fondamentale nel passaggio dalla poesia al romanzo sta nella ricerca di un linguaggio capace di esprimere la bivocità e la compresenza di punti di vista anche opposti di cui il romanzo non può fare a meno. Dopo l’iniziale vicinanza di D’Arrigo all’ermetismo, egli prende lentamente coscienza di come l’armamentario espressivo e critico di tale corrente poetica tenda ormai a trasformarsi in un codice di vuote parole d’ordine; la soluzione linguistica sperimentata in Horcynus Orca tende al superamento di questa poetica, costruendo una lingua a metà tra italiano e dialetto siciliano che tenga insieme a un tempo esigenze storico-linguistiche ed esigenze romanzesche. D’Arrigo intende costruire un linguaggio che risulti comprensibile senza rinunciare a una ricchezza stratificata nei secoli (modello multilingue nel quale qualsiasi elemento ha diritto di cittadinanza). Ideale manzoniano “a base siciliana” che fatica a rivendicare un’autonomia stilistica all’interno del dibattito in corso in quel momento, che sospinge l’opera ora in direzione della linea realista e dialettale di stampo pasoliniano, ora verso l’espressionismo di marca neoavanguardistica (es. Gadda)  percorso individualista e idiosincratico di D’Arrigo.

3.3. Il casobello lingua-dialetto. Che il romanzo finisca per essere ricondotto alla diatriba lingua-dialetto è un timore che D’Arrigo nutre fin dalle prime fasi del lavoro (egli non riuscirà a evitare che due episodi della sua opera in gestazione vengano pubblicati sul “Menabò” accompagnati da un Glossario di termini dialettali). D’Arrigo vuole mettere in scena la “questione della lingua” all’interno del suo romanzo  es. digressione metalinguistica nell’episodio del “casobello fera-delfino”, ovvero la discussione che oppone il pescatore Crocitto e il guardiamarina Monanin su quale sia il nome più adeguato per indicare il delfino. Crocitto, pescatore dialettofono conterraneo del protagonista, ritiene che il nome giusto dell’animale sia “fera”, mentre Monanin, uomo istruito e di proveni...


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