Pensiero e Linguaggio - Vygotskij PDF

Title Pensiero e Linguaggio - Vygotskij
Author Riccardo Marini
Course Filosofia del linguaggio - l.m.
Institution Università degli Studi Roma Tre
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Summary

Riassunto dei capitolo più importanti (1, 2, 4, 7) del libro Pensiero e Linguaggio di Lev Vygotskij....


Description

Pensiero e Linguaggio – Lev S. Vygotskij CAPITOLO 1 Lo studio del pensiero e del linguaggio  conoscenza delle relazioni interfunzionali – rapporto tra pensiero e linguaggio -. La psicologia non ha mai studiato sistematicamente. Tutti accettavano l’unità della coscienza e si presupponeva che le singole funzioni dovessero agire inseparabilmente, in collegamento ininterrotto l’una con l’altra. Presi come costanti, questi rapporti erano scomposti in fattori e ignorati nello studio delle diverse funzioni. Si considerò lo sviluppo della coscienza come determinato dallo sviluppo autonomo delle singole funzioni. Ma tutto ciò che si conosce oggi dello sviluppo psichico indica che la sua essenza sta nel mutamento della struttura interfunzionale della coscienza. Uno sguardo ai risultati delle ricerche precedenti sul pensiero e sul linguaggio, dimostrerà – secondo l’autore – che tutte le teorie trasmesse fin dai tempi antichi, variano tra due estremi che vanno da un’identificazione o fusione del pensiero e del linguaggio, ad una loro assoluta disgiunzione e separazione. In tutte queste teorie il problema del rapporto tra pensiero e linguaggio perde significato: se essi sono la stessa cosa, nessun rapporto può nascere tra di loro, oppure, se sono due elementi separati, sono due processi distinti. L’errore è nei metodi d’analisi adottati dai precedenti studiosi.  Si ritiene più opportuno adottare un altro tipo di analisi che può essere denominato per unità. Col termine unità Vygotskij indica un prodotto dell’analisi che, a differenza degli elementi conserva tutte le proprietà fondamentali del tutto e che non può essere ulteriormente diviso senza perderle—non la composizione chimica dell’acqua, ma le sue molecole ed il loro comportamento sono la chiave per capire le proprietà dell’acqua—. L’unità del pensiero verbale, che secondo l’autore corrisponde a questi requisiti è il significato della parola.  Nel significato della parola il pensiero ed il linguaggio si uniscono in un pensiero verbale. La parola non si riferisce ad un singolo oggetto, ma ad un gruppo o ad una classe di oggetti; essa è una generalizzazione. La generalizzazione è un atto verbale del pensiero e riflette la realtà in modo diverso dalla sensazione e dalla percezione. Si può asserire che la distinzione qualitativa tra sensazione e pensiero consista nella presenza—in quest’ultimo—di una riflessione generalizzata della realtà, che è l’essenza del significato della parola. Il significato è una parte inalienabile della parola e pertanto, appartiene al regno del linguaggio come a quello del pensiero. Una parola senza significato è un suono vuoto, non una parte del linguaggio. Poiché il significato della parola è tanto pensiero che linguaggio, in esso troviamo l’unità del pensiero verbale che si sta cercando: è chiaro, quindi, che il metodo da seguire nell’analisi della natura del pensiero verbale, è quello dell’analisi semantica. La funzione primaria del linguaggio è la comunicazione, il rapporto sociale. Quando il linguaggio venne studiato attraverso l’analisi degli elementi anche questa funzione fu separata dalla funzione intellettuale. Tuttavia, il significato della parola, è un’unità di entrambe queste funzioni del linguaggio: la trasmissione razionale e intenzionale agli altri dell’esperienza e del pensiero, richiede un sistema che esplichi una funzione di mediazione il cui prototipo è il linguaggio umano nato dal bisogno di rapporti durante il lavoro. Una vera comunicazione umana presuppone un atteggiamento generalizzante che costituisce uno stadio avanzato nello sviluppo dei significati della parola. Le forme più elevate di rapporti umani sono possibili solo perché il pensiero dell’uomo riflette realtà concettualizzate.

CAPITOLO 2 Jean Piaget ha senza dubbio rivoluzionato gli studi sul pensiero del bambino approcciandosi alla materia in modo estremamente nuovo: si concentra non tanto sulle deficienze del ragionamento del bambino, quanto sulle sue caratteristiche distintive, arrivando a mostrare come la differenza con gli adulti sia qualitativa, e non quantitativa. Per tentare di evitare l’onnipresente dicotomia tra la materia effettiva della scienza (i fatti) e le sue premesse teoretiche (le teorie, appunto), Piaget decide di optare per un empirismo puro, presentando il suo lavoro come una semplice raccolta ed analisi di fatti e documenti. Malgrado ciò, l’approccio di Piaget non poté impedire la formulazione di nuove teorie – a partire dalla sua –, né – ancora più importante – che la sua stessa ricerca fosse implicitamente guidata da una teoria generale: Secondo Piaget il legame che unisce tutte le caratteristiche specifiche della logica infantile è l’egocentrismo del pensiero del bambino. Egli descrive l’egocentrismo come una porzione intermedia geneticamente, strutturalmente e funzionalmente, tra il pensiero autistico e il pensiero controllato.

Il pensiero controllato è: -COSCIENTE; persegue scopi specifici -INTELLIGENTE; è adattato alla realtà e tenta di influenzarla -SUSCETTIBILE DI VERITA’ ED ERRORE -COMUNICABILE TRAMITE IL LINGUAGGIO -SOCIALE, ED INFLUENZATO DALLE LEGGI DELL’ESPERIENZA E DALLA LOGICA. Il pensiero autistico è: -SUBCOSCIENTE; gli scopi che persegue non sono presenti alla coscienza -NON ADATTATO ALLA REALTA’; crea una realtà di fantasia -TESO A SOFFISFARE DESIDERI, piuttosto che a stabilire verità -INDIVIDUALE ED INCOMUNICABILE -INDIVIDUALISTICO, E SEGUE LEGGI SPECIALI CHE GLI SONO PROPRIE. Il pensiero egocentrico è a metà strada tra questi due estremi: esso è ancora proiettato verso l’appagamento dei suoi bisogni primari, ma implica già un certo adattamento nei confronti della realtà tipico del pensiero degli adulti. La concezione dello sviluppo di Piaget, è basata sulla premessa che il pensiero del bambino sia originariamente e naturalmente autistico e che si trasformi gradualmente, solo grazie ad una costante pressione sociale. Il pensiero egocentrico risulta essere, quindi, il legame tra pensiero autistico, e la logica – propria del pensiero adulto –. La base positiva di Piaget è data dal suo studio sul modo di usare il linguaggio da parte del bambino: la conclusione delle sue ricerche è che tutte le conversazioni dei bambini possono essere divise in due classi: -espressioni codificabili come linguaggio egocentrico; -espressioni codificabili come linguaggio socializzato. Nel linguaggio egocentrico il bambino parla solo di sé stesso, non interessandosi dell’interlocutore, né di comunicare o di farsi capire; questi discorsi sono simili a monologhi. Nel linguaggio socializzato egli tenta uno scambio con gli altri – prega, minaccia, chiede informazioni.

Nei suoi esperimenti egli mostra come la maggior parte di ciò che il bambino dice in età prescolare sia egocentrico. Il bambino ha anche molti pensieri inespressi, proprio perché egocentrici, e quindi incomunicabili. Dunque, il coefficiente di pensiero egocentrico è molto più elevato di quello del linguaggio. Quando in età scolare si manifesta il desiderio di collaborare con gli altri, il pensiero egocentrico diminuisce fino a scomparire: Piaget, infatti, sostiene che il linguaggio egocentrico non adempia a nessuna funzione utile nel comportamento del bambino, e che quindi, semplicemente, si atrofizzi. Vygotskij, invece, nei suoi risultati sperimentali, scopre altro: il linguaggio egocentrico svolge un ruolo importante nell’attività del bambino. Tramite l’introduzione di frustrazioni e difficoltà nelle attività praticate dal bambino, il coefficiente di linguaggio egocentrico raddoppiava rispetto alle cifre stimate da Piaget per quell’età.  Di fronte al problema, il bambino tentava di afferrare la situazione e di rimediarvi tramite un dialogo con sé stesso. Questa scoperta concorda anche con alcune intuizioni presenti in Piaget: una di esse è la legge di presa di coscienza – un disturbo di un’attività automatica ci rende consapevoli di quell’attività; l’altra intuizione afferma che il linguaggio sia espressione di questa presa di consapevolezza. Il linguaggio egocentrico, dunque, oltre ad essere un mezzo di espressione, diviene uno strumento del pensiero in senso proprio. Da questo, si evince che il linguaggio egocentrico veniva – inizialmente – utilizzato per sottolineare il risultato finale o una svolta determinante nell’attività, per spostarsi, successivamente, al suo centro, ed infine al principio – dell’attività –, portando gli atti del bambino ad un livello di comportamento premeditato – un bambino piccolo, prima disegna, e poi dà un nome a ciò che ha disegnato; quando è più grande, dà un nome al disegno quando è completo a metà; quando è cresciuto, decide in anticipo cosa disegnare –. I dati ottenuti suggeriscono che il linguaggio egocentrico sia uno stadio di transizione nell’evoluzione dal linguaggio vocale a quello interiore. I bambini più grandi, di fronte ad un problema si comportano diversamente rispetto a quelli di età prescolare: osservano in silenzio la situazione, e trovano una soluzione; quando gli si chiede a cosa pensasse, egli davano risposte molto simili ai pensieri ad alta voce dei bambini più piccoli. Dunque, le stesse operazioni mentali che il bambino di età prescolare fa attraverso il linguaggio, vengono relegate nel linguaggio interiore senza suono nel bambino di età scolare. Il linguaggio interiore dell’adulto – il pensare per sé stesso – ha la stessa funzione e la stessa struttura che ha nel bambino il linguaggio egocentrico. Dunque, il linguaggio egocentrico non scompare, va solo in profondità. Dunque, i due tipi di linguaggio, sono funzionalmente equivalenti. Mentre dunque per Piaget lo sviluppo del pensiero è la storia della graduale socializzazione di stati autistici ed interni, la teoria di Vygotskij capovolge questa interpretazione: la funzione primaria del linguaggio, sia nell’adulto che nel bambino è la comunicazione, il contatto sociale. Il primissimo linguaggio, è dunque sociale. Dapprima esso è globale e plurifunzionale, successivamente le sue funzioni differenziano. Ad una certa età, il linguaggio del bambino viene diviso in egocentrico e comunicativo – socializzato –. Il linguaggio egocentrico compare quando il bambino trasferisce forme di comportamento sociali alla sfera delle funzioni interiori. Il linguaggio egocentrico, staccato dal linguaggio sociale generale, col tempo porta al linguaggio interiore – il linguaggio egocentrico è il legame tra linguaggio vocale e quello interiore –. Nella prospettiva di Vygotskij, la transazione non avviene dall’individuale al sociale, ma dal sociale all’individuale. La struttura fondamentale della teoria di Piaget poggia sull’ipotesi di una successione genetica di due forme opposte di processi mentali, che sono descritte dalla teoria psicoanalitica come corrispondenti l’una al principio del piacere, l’altra al principio della realtà. Tuttavia, dalla

prospettiva di Vygotskij, lo sforzo per giungere alla soddisfazione dei bisogni e lo sforzo per adattarsi alla realtà non possono essere considerati come separati l’uno dall’altro, né come tra loro opposti. Un bisogno, può essere realmente soddisfatto, solo attraverso un certo adattamento alla realtà; inoltre, non esiste un adattamento che sia fine a sé stesso, visto che esso è sempre diretto a bisogni. Piaget, sembra condividere con Freud non solo la concezione di un principio del piacere che precede un principio della realtà, ma anche l’impostazione metafisica che eleva il desiderio del piacere dal suo vero stato di fattore secondario biologicamente importante, a quello di una forza vitale indipendente, il primo motore di uno sviluppo psichico. Una volta presentata tale separazione, la logica lo forza a presentare il pensiero realistico come distinto dai bisogni e dai desideri, come un pensiero puro la cui funzione è la ricerca della verità esclusivamente per sé stessa. Il pensiero autistico, è secondo Vygotskij, un ultimo sviluppo, un risultato del pensiero realistico e del suo corollario, il pensiero in concetti, che porta ad un certo grado di autonomia dalla realtà, e perciò permette di soddisfare con la fantasia i bisogni frustrati nella vita.

CAPITOLO 4 Il fatto più importante scoperto tramite lo studio genetico del pensiero e del linguaggio, è che il loro rapporto subisce molti cambiamenti. Il progresso nel pensiero e il progresso nel linguaggio non sono paralleli. Questo si riferisce sia alla filogenesi, che all’ontogenesi. Negli animali, il linguaggio ed il pensiero nascono da radici differenti e si sviluppano seguendo linee diverse. Questo fatto è confermato dai lavori di Kohler – studi sulle scimmie –: questi esperimenti, hanno dimostrato che la comparsa negli animali di una forma embrionale di intelligenza – cioè del pensare – non è collegato in nessun modo con il linguaggio. Le scoperte delle scimmie nell’usare e costruire utensili o nel trovare vie indirette per risolvere problemi, sebbene siano indubbiamente delle forme rudimentali di pensiero, appartengono ad una fase prelinguistica dello sviluppo del pensiero. Secondo Kohler, le sue indagini mostrano che lo scimpanzé rivela gli inizi di un comportamento intellettuale dello stesso genere di quello dell’uomo. La deduzione che in questo caso ci interessa: l’indipendenza delle azioni dello scimpanzé dal linguaggio. Troviamo nello scimpanzé un linguaggio relativamente ben sviluppato e sotto alcuni aspetti – fonetici per lo più – non dissimile da quello umano. Ma la cosa importante circa questo linguaggio, è che esso funziona separatamente dal suo intelletto. Le scimmie sono capaci di capire reciprocamente i propri gesti e di esprimere attraverso essi, desideri che sono rivolti ad altri animali: generalmente uno scimpanzé inizierà quell’azione che esso desidera che un altro animale porti a termine, o faccia insieme a lui. Queste osservazioni confermano l’opinione di Wundt che i gesti indicativi – primo stadio nello sviluppo del linguaggio – non appaiono ancora negli animali, ma che alcuni gesti delle scimmie sono una forma di transizione tra l’afferrare e l’indicare. Questo gesto di transizione costituisce un passo importante dall’espressione affettiva genuina verso il linguaggio oggettivo. Non vi è nessuna prova, tuttavia, che gli animali raggiungano lo stadio della rappresentazione oggettiva in qualche loro attività. Il loro apparato vocale è ben sviluppato e funziona bene come quello dell’uomo; ciò che manca è la tendenza ad imitare i suoni: la loro mimica dipende quasi interamente da stimoli ottici; essi copiano le azioni ma non i suoni. Se uniamo queste informazioni, possiamo dedurre che le scimmie non sono presumibilmente capaci di un vero linguaggio. Ma quali sono le cause della loro incapacità di parlare, dal momento che esse posseggono il dispositivo vocale e l’estensione fonetica necessari? Yerkes attribuisce questa impossibilità ad una mancante – insufficiente – capacità imitativa vocale

delle scimmie. Questa potrebbe essere la causa del fallimento dei suoi esperimenti – di far parlare le scimmie – ma egli sbaglia – secondo Vygotskij nel considerarla la causa primaria dell’assenza di linguaggio. Nell’addestrare gli animali al comportamento linguistico si dovrebbe escludere il fattore uditivo, dato che il linguaggio non dipende necessariamente dal suono – linguaggio dei sordomuti, lettura dei movimenti dalle labbra –. Il mezzo con il quale avviene la comunicazione non è essenziale, ciò che conta è l’uso funzionale di segni. Tuttavia, non si è mai sentito dire che gli scimpanzé utilizzano segni. Ciò che sappiamo è che in determinate circostanze, essi sono in grado di compiere degli aggiramenti, e che queste condizioni presuppongano una situazione del tutto chiara, di cui l’animale deve avere una visione completa: in tutti i problemi che non presentavano strutture visive immediatamente percettibili, gli scimpanzé passavano dal comportamento intelligente, al trial and error. In nessun caso la scoperta del linguaggio può dipendere da una struttura ottica: essa richiede un’operazione mentale di diverso genere. Conclusione che lo scimpanzé, anche nel caso in cui possedesse le capacità del pappagallo di imitare i suoni, non sarebbe capace di un linguaggio verbale. Come già detto, però, lo scimpanzé possiede un linguaggio abbastanza ricco. Un collaboratore di Yerkes compilò un dizionario composto da “parole” che non solo assomigliano foneticamente al linguaggio umano, ma hanno anche un significato nel senso che esse sono causate da determinate situazioni o da determinati oggetti che provocano piacere o dispiacere. Queste “parole” furono trascritte mentre le scimmie aspettavano di ricevere del cibo, in presenza di esseri umani, o quando due scimpanzé erano da soli – si tratta di reazioni vocali affettive --. Relativamente a questa descrizione del linguaggio delle scimmie Vygotskij mette in evidenza tre punti: -la coincidenza dell’emissione del suono con gesti affettivi non è limitata agli scimpanzé o agli antropoidi, ma è molto comune negli animali dotati di voce; -gli stati affettivi che determinano negli scimpanzé numerose reazioni vocali sono sfavorevoli al funzionamento dell’intelletto. Kohler riferisce che negli scimpanzé le reazioni emotive escludono un’attività intellettuale simultanea; -lo sfogo emotivo come tale, non è la sola funzione del linguaggio nelle scimmie. Come per gli animali e per l’uomo, esso è anche un mezzo di contatto psicologico con gli altri esseri della sua specie. Essa trova le sue origini nell’emozione ed è una parte che svolge una funzione specifica sia biologicamente che psicologicamente. Nonostante ciò si tratta di una reazione istintiva o di qualcosa di molto vicina ad essa. Sono state mostrate, fino ad ora, varie analisi sulle caratteristiche del linguaggio e dell’intelligenza delle scimmie, per chiarire il rapporto filogenetico di queste funzioni. Si riassumono ora le conclusioni: -PENSIERO E LINGUAGGIO HANNO DIVERSE RADICI GENETICHE. -LE DUE FUNZIONI SI SVILUPPANO LUNGO LINEE DIVERSE, ED INDIPENDENTEMENTE L’UNA DALL’ALTRA. -NON VI È UNA NETTA SEPARAZIONE NÉ UNA COSTANTE CORRELAZIONE TRA DI ESSE. -GLI ANTROPOIDI MOSTRANO UN’INTELLIGENZA SOTTO CERTI ASPETTI SIMILE A QUELLA DELL’UOMO – USO DI STRUMENTI – E UN LINGUAGGIO SIMILE A QUELLO DELL’UOMO SOTTO ASPETTI TOTALMENTE DIVERSI – ASPETTI FONETICI, FUNZIONI DI SFOGO, INIZI DI FUNZIONE SOCIALE—. -LA CORRISPONDENZA TRA PENSIERO E LINGUAGGIO CARATTERISTICA DELL’UOMO, MANCA NEGLI ANTROPOIDI.

-NELLA FILOGENESI DEL PENSIERO E DEL LINGUAGGIO SONO DISTINGUIBILI UNA FASE PRELINGUISTICA NELLO SVILUPPO DEL PENSIERO E UNA FASE PREINTELLETTUALE NELLO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO. L’elemento importante di queste ricerche fu la scoperta dell’indipendenza dei processi intellettuali individuati dal linguaggio: prima che il linguaggio appaia, l’azione deve diventare soggettivamente significativa, ovvero coscientemente rivolta ad un fine. Il balbettio, il gridare, sono fasi dello sviluppo del linguaggio che non hanno nessi con lo sviluppo del pensiero. Ma la scoperta più importante riguarda il fatto che all’età di circa due anni le curve dello sviluppo del pensiero e del linguaggio, fino ad allora separate, si incontrano e si uniscono per dare inizio ad una nuova forma di comportamento. La spiegazione di Stern di questo evento, è considerata la migliore: egli ha dimostrato che la volontà di conquistare il linguaggio segue la prima vaga percezione dello scopo del linguaggio – scoperta intellettuale del linguaggio. Questo momento, è indicato da due sintomi oggettivi: -IMPROVVISA CURIOSITA’ PER LE PAROLE. -L’AUMENTO RAPIDO ED IRREGOLARE DEL SUO VOCABOLARIO. “La più grande scoperta del bambino” risulta possibile, quando si è raggiunto uno sviluppo del pensiero abbastanza elevato: il linguaggio non può essere scoperto senza l’intervento del pensiero. -PENSIERO E LINGUAGGIO, NEL LORO SVILUPPO ONTOGENICO, HANNO RADICI DIVERSE -NELLO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO DEL BAMBINO POSSIAMO STABILIRE UNO STADIO PREINTELLETTUALE E NELLO SVILUPPO DEL SUO PENSIERO UNO STADIO PRELINGUISTICO -FINO AD UN CERTO PUNTO I DUE PROCESSI SEGUONO LINEE DIFFERENTI ED INDIPENDENTI TRA LORO -AD UN CERTO PUNTO ESSE SI INCONTRANO, DOPO DI CHE, IL PENSIERO DIVENTA VERBALE ED IL LINGUAGGIO RAZIONALE. In qualunque modo ci si accosti al problema del rapporto tra il pensiero e il linguaggio, si deve trattare del linguaggio interiore. Non sappiamo a quale punto d...


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