Prima lezione di semiotica riassunto PDF

Title Prima lezione di semiotica riassunto
Author Alessia Di Stefano
Course Semiotica
Institution Università degli Studi di Palermo
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Summary

Cap: Segni, codici, valoriTempo di vacanze estive: sbarchiamo di buon mattino su un’isoletta mediterranea che non conosciamo, è ancora presto per la camera in albergo, così prendiamo in affitto delle biciclette e andiamo in giro per esplorare il territorio, alla ricerca di una spiaggia per un bagno ...


Description

Cap.1: Segni, codici, valori Tempo di vacanze estive: sbarchiamo di buon mattino su un’isoletta mediterranea che non conosciamo, è ancora presto per la camera in albergo, così prendiamo in affitto delle biciclette e andiamo in giro per esplorare il territorio, alla ricerca di una spiaggia per un bagno rinfrescante e un po' di sole. Percorriamo a strada ma le alte inferriate della lunga serie di villette impediscono la visione del mare. Tra sprazzi di buganvillea e cespugli di gelsomini, ogni tanto un cartello indica un bar con panini e bibite, un’edicola di giornali, un paio di bed & breakfast. Di spiagge nessuna traccia. Tutto inizia a sembrare uguale a tutto, quando ad un tratto, un riverbero di luce su una distesa mosaica di metallo anticipa un parcheggio; o meglio: non esattamente un parcheggio ma una serie di automobili abbandonate in modo improvviso sul ciglio della strada, scomposte una di fila all’altra, in prossimità di un viottolo che sembra incamminarsi verso la costa. Un’occhiata più attenta ci conferma che da lì si arriva al mare. La spiaggia isolata sta lì e il mucchio di auto ce l’ha improvvisamente segnalata. Ecco un banale evento della vita quotidiana che può aprire una prima lezione di semiotica. Un evento come tanti nella vita di ogni giorno. Si tratti appunto, come in questo caso, di vacanze, di routine lavorativa, nelle quali ci muoviamo con attenzione variabile. Ma, quel che è accaduto è di assoluta ordinarietà: tutta una serie di tracce e insegne, marchi e segnali, indici e simboli che avrebbero potuto essere ovunque, e che hanno messo in moto un meccanismo d’azione e reazione al tempo stesso ovvio e complesso fatto di tensioni, percezioni, affetti, aspettative, delusioni, intuizioni, considerazioni, interpretazioni…

Innanzitutto, ci troviamo di fronte a un grosso, evidentissimo segno, con tutte le sue principali caratteristiche, condizioni e conseguenze che, in generale, caratterizzano i segni. La visione della serie di automobili costituisce quella che si chiama espressione significante, ovvero ciò mediante cui abbiamo capito. La presenza della discesa a mare costituisce invece quel che chiameremo contenuto significato. L’unione tra quell’espressione significante e quel contenuto significato dà luogo a quel che chiamiamo segno, cioè a quell’incremento di sapere rispetto alla geografia dell’isola che sino a quel momento ci era mancato. L’avere infine effettivamente trovato il sentiero per scendere al mare, costituisce quel che definiamo effetto pragmatico del segno. Emittente e destinatario Di cose così, ne accadono a decine. Un segno è tale se mette in relazione reciproca qualcosa di percettivo a qualcos’altro di cognitivo. Segno che, spesso avrà un effetto pratico su quel che stiamo facendo, desiderando, cercando. A dispetto di una millenaria tradizione filosofica che, nel nostro Occidente, ha teso a separare sensi e intelletto, corpo e anima, carne e mente, i segni non fanno altro che metterli in relazione. Restando nell’ambito della circolazione stradale, se, mentre guido la macchina, ad un certo punto il traffico s’interrompe per un assembramento di auto che blocca il passaggio (significante), mi capiterà di pensare che c’è stato un incidente (significato), e questo segno avrà per me conseguenze molto precise, poniamo, sulla tabella di marcia della giornata. Il segno dunque è la relazione che un qualche soggetto instaura fra due elementi, di cui spesso, ripetiamo, uno ha una dimensione sensibile e l’altro

una intellegibile. Relazione che si instaura per così dire a posteriori. Comunicazione e significazione Ma ritorniamo nella nostra isoletta. Ci sono diverse altre ragioni per continuare a ragionare su quel che vi è accaduto. Una l’abbiamo appena detta. Quelli che hanno parcheggiato l’auto sul ciglio della strada per scendere giù in spiaggia non avevano alcuna finalità di indicarne la presenza ai passati, accalcandosi lì con altre auto. Anzi, avrebbero preferito non segnarla e passare la giornata al mare senza folla intorno. Siamo stati noi che, essendo alla ricerca di un bel posto dove poter fare una nuotata, abbiamo capito che tutte quelle auto erano parcheggiate in quel punto perché da quelle parti doveva esserci una spiaggia libera. In termini più tecnici, diremo insomma che il segno non viene prodotto da chi rende possibile la costituzione del significante ma di chi lo vede e lo interpreta. Certo, ci sono molti segni intenzionalmente emessi per comunicare qualcosa, ma ce ne sono altrettanti altri che sono la maggioranza, i quali vengono emessi in modo inconsapevole, senza avere cioè alcun sentore che si tratta di segni, e che solo il destinatario potrà, se ne avrà i mezzi e le capacità, concepire come tali. Ognuno di noi, è portatore di centinaia di segni, i quali vanno a costituire la nostra identità sociale, o quanto meno l’immagine che gli altri hanno di noi. Analogamente funzionano gli altri ai nostri occhi: emittenti continui di significanti che si offrono alle nostre possibili interpretazioni, ai nostri apprezzamenti e giudizi. Per non dire dei luoghi, dei paesaggi, naturali o urbani… tutto materiale insomma potenzialmente in grado di diventare espressione significante per diffondere contenuti significati. Diversamente da quel che

generalmente si pensa, il primo motore del linguaggio, di tutti i linguaggi umani e sociali, o per meglio dire della significazione, non è l’emittente, ma il destinatario: è solo a partire da costui che può essere generato contenuto significato a partire da un’espressione significante. La comunicazione tradizionale ha luogo quando si attiva volutamente la trasmissione di un messaggio, quando c’è qualcuno che vuol dire qualcosa, e fa di tutto affinché il suo interlocutore recepisca quel che sta dicendo. La significazione è un fenomeno più generale, dove il senso si coglie, a partire dalla fine, ossia da chi riesce a interpretare un significato percependo un significante. Inferenze e cultura Adesso, la domanda è una: sulla base di che cosa il destinatario riesce a istituire la relazione fra espressioni significanti e contenuti significati? Ovviamente non c’è nulla in essa né di universale né di necessario, poiché dipende dai meccanismi mentali attivati dall’interprete. Prendiamo ancora una volta il caso dell’incidente stradale riconosciuto a partire dal traffico lungo la strada. Si tratta di una deduzione, ossia di un ragionamento dall’universale al particolare? Sicuramente no: non c’è alcuna legge universale secondo la quale ogni volta che c’è un po' di traffico vuol dire che c’è stato un incidente. Piuttosto, quest’associazione ha luogo per lo più, di solito, la maggior parte delle volte, al punto che, per generalizzazione induttiva, a posteriori, si istituisce una regola interpretativa. Che non è valida sempre e comunque, ma con una certa frequenza. Torniamo invece al nostro apologo vacanziero. In quel caso, non si è trattato né di deduzione né di induzione: non solo infatti non esisteva una legge universale da applicare, ma non c’era

nemmeno un’esperienza pregressa, che istituiva una regola. Un po' ammettiamolo, abbiamo tirato ad indovinare. Quelle auto avrebbero potuto essere là per moltissime altre ragioni. La nostra inferenza, ossia il modo di riflettere che abbiamo impiegato per collegare significante e significato, era allora un’abduzione, un ragionamento grazie al quale siamo passati direttamente da un caso particolare, saltando le procedure di generalizzazione, alla legge complessiva. Emozione e cognizione hanno lavorato all’unisono. Anche qui, spazzando via tanta filosofia che vuole tenerle separate. E lo hanno fatto, se non a partire da esperienze analoghe pregresse, in ogni caso grazie alla nostra cultura, grazie a quell’insieme di saperi, a quei sistemi di valori, a quella serie di abitudini e forme di comportamento entro cui siamo soliti dimorare e che ci hanno quasi condotto a tirare a indovinare in quel modo lì piuttosto che in un altro. Diremo quindi che le inferenze cognitive, che adoperiamo nelle nostre interpretazioni, associando nell’esperienza quotidiana significanti a significati, non hanno nulla di personale. Esse si basano piuttosto su precisi codici, ossia su alcuni sistemi formali che regolano le possibili associazioni mentali fra espressioni significanti e contenuti significati. Questi codici a loro volta, non hanno nulla di universale e necessario, ossia di oggettivo, senza per questo essere soggettivi: sono stabilizzazioni più o meno durature di modi collettivi di pensare e di agire, di desiderare e di preferire. E’ la pressione sociale a dettarli e a mantenerli, come anche, a modificarli quando si ritengono invecchiati. I codici sono consuetudini sociali e culturali, abitudini interpretative che assumono l’aspetto di una legge (senza comunque esserlo). In Svezia, così come Germania, in Danimarca,

in Gran Bretagna, in mezzo mondo non sussistono codici che portano a conclusioni di questo genere: ci saranno assembramenti disordinati di automobili, e non mancheranno viottoli per il mare, non si daranno però regole condivise che mettono in collegamento auto e viottoli. Il segno, non sta né nelle cose, né nelle idee ma nelle forme della loro relazione. Differenza e valore I codici, sono convenzioni antropologiche. Ciò significa che le forme di associazione fra espressioni e contenuti che essi rendono possibili, così come quelle che dichiarano impossibili, non sono legate il più delle volte a ragioni stringenti, a forme logiche, a concettualizzazioni astratte, ma a valori, a ordini di preferenze, di gusti e di disgusti, che sono di estrema complessità, e che il più delle volte sono tanto arbitrari (se visti dall’esterno) quanto indiscussi (se considerati dall’interno). La nozione di valore è composita e multiforme. Qui la stiamo adoperando in negativo, per ridimensionare l’importanza degli aspetti logici e cognitivi della significazione, sui quali si insiste spesso quando si parla di semiotica. In positivo, l’idea di valore ci serve inoltre per mostrare come i codici sociali, siano comunque legati ai modi in cui l’individuo stesso li assume, li fa propri, mediando appunto fra valori collettivi e valori individuali. Torniamo ancora alla nostra isoletta e riconsideriamo la situazione. Se ragioniamo in termini macroscopici, diremo che il segno nasce per differenza, quando si concretizza la percezione di una discontinuità visiva fra un paesaggio dove tutto finisce per essere uguale a tutto, una strada dove i vari elementi scompaiono alla nostra attenzione, dunque un luogo progressivamente insignificante, e l’improvvisa apparizione delle

auto in sosta, che si fanno notare innanzitutto per la loro difformità rispetto a quel che c’era prima, e che ci pongono un interrogativo silenzioso: che ci fanno qui tutte queste persone? Lo scarto percettivo fa come riemergere qualcosa di sensato, ossia di significativo, di importante poiché valorizzato positivamente da noi, rispetto all’insignificanza di tutto il resto. I cartelli stradali, i B&B avevano per noi ben poco valore perché riguardavano quello che era il nostro programma della giornata. Da una parte, un desiderio di svago, un’euforia generale data dalla circostanza della vacanza, dall’altra una specie di itinerario di conoscenza rispetto a un ambiente a noi sconosciuto, che ci costringeva a tenere costante un certo grado di attenzione, mettere in collegamento, comparare, giudicare, valutare dunque le cose, gli oggetti. Ecco il doppio statuto dei valori. Da una parte essi risiedono in quel che stavamo cercando, nel fatto di render significativo l’oggetto. Il valore, in questo caso, è ciò verso cui si punta, si dirige la nostra serie di azioni e di passioni. D’altra parte, il valore sorge nel continuo confronto con altri oggetti e altri valori, nella comparazione valutativa, nel riscontro delle differenze. Ci fermiamo all’edicola? No, proseguiamo verso la spiaggia. Mangiamo un panino? Non c’è tempo. Ecco il valore della spiaggia ai nostri occhi, si costituiva per differenza, e in un certo qual modo a poco a poco si accresceva, rispetto a quel che avremmo pure potuto fare invece che raggiungerla, ma non volevamo proprio fare.

Relazioni e narrazioni Il segno, per così dire, è solo la punta di un enorme iceberg semiotico: è quel che appare immediatamente e con tutta

evidenza, ma che, se funziona, è solo perché, da un lato, si scompone in elementi più piccoli articolati fra di loro e, dall’altro, va a comporre entità più grandi relazionandosi ad altri segni, ad altri elementi a esso relativamente analoghi. Cosa che vale sia per l’espressione significante sia per il contenuto significato. Le auto significano per la loro incongrua quantità in un luogo come quello, dove non ce le saremmo aspettate così numerose, ma anche per il modo in cui sono malamente parcheggiate e per il fatto di infittirsi in prossimità del sentiero. Analogamente, il loro significato è composito: indicano la presenza di un viottolo, ma con una certa approssimazione, senza alcuna certezza; potrebbe essere infatti qualcos’altro ad attirare tanta gente. La serie di auto vive a suo modo relazioni differenziali con le siepi tutte eguali che impediscono la vista delle villette, i cespugli di buganvillea che le colorano, con cartelli e insegne, segnali. Il tutto inscritto in una storia, la quale personalizza la situazione, ricostruendola a partire da una precisa prospettiva valoriale, culturale, antropologica. Due svedesi in vacanza nella medesima isola non avrebbero mai goduto di quelle acque cristalline. Quel che a loro sarebbe mancato non erano soltanto le regole del codice, l’intero testo dinamico che quel segno rende concreto e attivo, la rete complessiva di relazioni entro cui quel segno di costituisce e si perde. I segni funzionano, insomma, perché si intrecciano in testi, così come le parole. Le parole che pure i parlanti comuni suppongono essere le unità minime della lingua, i segni della lingua, non hanno alcun particolare ruolo costitutivo entro i sistemi linguistici come tutti i segni, anch’esse sono il frutto variabile di relazioni costanti fra elementi più piccoli e sono al tempo stesso entità che

vanno a comporre strutture più ampie (discorsi). I testi non sono soltanto libri, documenti scritti, ma una qualsiasi porzione di mondo che, possedendo limiti determinati e una precisa articolazione interna, si fa portatrice di una qualche configurazione di senso. La semiotica non si occupa dunque dei segni, ma di significazione, la quale per potersi concretizzare deve far riferimento a testi, unità di senso che le varie società, epoche storiche, culture impiegano per far transitare i propri valori di fondo.

Forme e sostanze La quotidianità è zeppa di significazione, il senso vi si insinua da tutte le parti, soprattutto in ciò che ci appare più ovvio: il corpo, l cibo, l’architettura, l’abbigliamento. Potremmo dire anzi che la significazione è il liquido amniotico entro cui vive l’essere umano, il soggetto sociale, i gruppi e le collettività e che sono in numero maggiore le cose che hanno senso per noi, piuttosto quelle che ne sono prive. Compito della semiotica è quello di ricostruirle, metterle in luce e chiarirne i meccanismi di funzionamento, andando, spesso, contro il senso comune, che tende invece a negarne l’esistenza e ad infastidirsi quando appaiono. Usando la nostra lingua, mettiamo in gioco un sapere che non siamo in grado di spiegare: tutti adoperiamo regole sofisticate di grammatica, fonetica, morfologia, ma non per questo sappiamo spiegarle. Anzi, a meno di non essere dei bravi linguisti. La lingua è una conoscenza pratica, qualcosa su cui non si ragiona quasi mai, e quando lo si fa si cade in errore. Allo stesso modo, la

maggior parte della nostra esperienza vissuta, per quanto ci appaia casuale e spontanea, si fonda su una rete di significazioni molto complessa, su codici e su testi che, se pure pratichiamo, non per questo sappiamo esprimere. Non evidente, il più delle volte, è lo storytelling, che non è né una tecnica comunicativa, né una scoperta recente. Le storie sono la linfa vitale entro cui diamo senso alle nostre azioni e passioni, di modo che gli eventi che ci accadono hanno per noi un preciso valore a seconda del ruolo specifico che giocano entro strutture narrative. I miti, le leggende, il folklore narrativo d’ogni tipo, così come le narrazioni mediali della nostra epoca, sono reti di senso. Non a caso in questa prima lezione di semiotica abbiamo voluto cominciare proprio raccontando una storia, che per quanto insulsa, si è rivelata ricchissima di significazione.

Capitolo 2: Del senso Modelli emergenti e antichi problemi Le considerazioni avanzate nel capitolo precedente, non sono state allestite in un giorno. La riflessione sul linguaggio e sulle lingue, sul segno e sul senso, è antica quanto l’uomo. Tutte queste teorie e queste pratiche riguardanti i sistemi di segni, il linguaggio e la comunicazione sono rimaste a lungo frammentarie e intermittenti, non comunicanti, senza una sintesi complessiva che le racchiudesse in un’unica forma di sapere istituzionalizzata. Sino a quando, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo scorso, è sorta la necessità teorica e metodologica di una semiotica propriamente detta, che racchiudesse in un solo

paradigma di ricerca, studi affini e problematiche fra loro imparentate. In filosofia, è accaduto con Charles S. Peirce, pensatore americano che riprendeva la tradizione kantiana della teoria della conoscenza ripensandola in chiave di tassonomie di segni. Per altri versi, anche con Edmund Husserl che collegherà la costituzione della soggettività alla prassi linguistica concreta e alla comunicazione interpersonale. Parallelamente, è accaduto che, ripensando alle fondamenta della scienza linguistica, molti autori come Ferdinand de Saussure o Roman Jakobson, abbiano sollecitato l’edificazione di una scienza nuova, definendola semiologia, come studio rigoroso dei diversi sistemi di segni presenti nelle diverse società e culture. Ma, la semiotica vera e propria, come disciplina istituzionalmente riconosciuta, è sorta sotto la spinta di quella nuova società di massa, e degli strumenti di comunicazione che l’hanno posta in essere, la quale richiedeva sguardi critichi specifici e modelli interpretativi efficaci. Nel momento in cui la stampa, il cinema, la radio, la televisione, etc, insomma, in quegli anni, predispongono i gangli stessi della socialità, gli strumenti della semiotica si impongono quasi spontaneamente sulla scena intellettuale, se ne percepisce la necessità critica. Studiosi come Roland Barthes, in Francia, e Umberto Eco in Italia, elaborano in quegli anni una serie di modelli semiotici a supporto di una nuova analisi critica della cultura mediatica emergente. La semiotica si impone così, a poco a poco, come una forma di sapere in grado di far dialogare tutte le altre. Alla luce di tutto ciò, più che una cronistoria della semiotica, nelle pagine che seguono, vedremo una genealogia. Si tratta di una

tecnica di ricostruzione concettuale minuziosa e accurata senza per questo aspirare alla totalizzazione, a quale non segue lo sviluppo temporale lineare di un percorso teorico, meno che mai entro un solo ambito disciplinare, del quale sia possibile delimitare una genesi univoca o individuare un pregiudiziale, auspicabile traguardo. La ricostruzione genealogica, da questo punto di vista, prova semmai a ricucire le fila di una serie di nodi problematici, a intrecciare reti concettuali, a individuare somiglianze epistemologiche, a mostrare parallelismi relativamente casuali.

Livelli d’azione La semiotica ha avuto molteplici punti di innesco ma nessuna origine precisa. Innestandosi entro quel paradigma delle scienze umane che nel Novecento ha rivendicato una propria autonomia operativa rispetto alle scienze sedicenti naturali, la dottrina della significazione ha spesso messo in crisi la stessa distinzione fra le cosiddette due culture, risalente alla fine dell’Ottocento, e cioè fra scienze esatte e scienze umanistiche, o se si vuole fra mentalità tecnico-ingegneristica ed esperienza spirituale ed estetica, proprio in nome del principio secondo il quale la significazione è quel fenomeno specifico che mette in relazione f...


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