Relazione sul testo Estetica Antica di Gianni Carchia PDF

Title Relazione sul testo Estetica Antica di Gianni Carchia
Author Michela Schiera
Course Pittura (T)
Institution Accademia di Belle Arti di Palermo
Pages 6
File Size 174.5 KB
File Type PDF
Total Downloads 15
Total Views 123

Summary

Riassunto del testo l'Estetica Antica di Gianni Carchia...


Description

Relazione sul testo: “L’estetica Antica” di Gianni Carchia

Michela Schiera, (matricola 10349), pittura triennio. Doc. Luigi Amato – Estetica (6 CFA) Accademia di Belle Arti di Palermo

L’estetica antica si è costituita nei secoli come la disciplina che ha dato all’arte una compiuta autonomia, in contrasto con il concetto antico di mimesi (imitazione), che implica l'esistenza inaggirabile di una referenzialità esterna all’arte stessa. L’imitazione mette in risalto l'eteronomia dell’arte e il suo contatto, a tratti fusione, con altri ambiti spirituali. Il carattere fondamentale dell’Estetica Antica risiede nella separazione fra dominio dell’arte e dominio della bellezza : vi è infatti molta differenza tra la poetica della creazione e la poetica dell’imitazione, e quest’ultima, non presume che l’arte abbia come fine la generazione della bellezza, ma la generazione nella bellezza. Imitare, non significa essere soltanto coerenti nelle forme, ma essere anche adatti ad un uso più che artistico. È solo alla fine del mondo antico che si determinano le condizioni per l’incontro tra arte e bellezza, in una legittimazione del lavoro e della pratica manuale che avviene tramite la spiritualità Cristiana, la quale sottolinea l’importanza del produrre valori. Fidia, ad esempio, quando scolpiva, non teneva davanti un modello dal ritrarre, ma nella propria mente aveva impresso un ideale di bellezza , riprodotto poi tramite l’attenzione. È anche vero che fin da sempre, nell’ambito dell’ estetica antica, ti sei imbattuto nella distinzione tra arte come techne, che ha bisogno della mediazione e della manualità e arte della poiein (mestieri meccanici) e arte come mousike, diretta, concreta, senza mediazioni. Tutta l’arte Antica è mimesi, dipendenza; ma esiste una mimesi buona, che generando nella bellezza aderisce al paradigma fino a scomparire, ed una cattiva, come artificio che pretende di sostituirsi all’originale. Platone, ad esempio, ponendo l’ideale dell’arte come mousike, condanna quell’arte sofistica che cerca di surrogare il reale e di produrre bellezza rifiutando ogni vincolo e ogni dipendenza . o

o

Apparire, nell’Estetica Antica, viene visto come saldezza, plasticità che si offre alla visione, nella quale come dirà Goethe “l’occhio vede ed è insieme è visto”, è esso stesso luce. Tale profondità mitica dell’esistenza ha necessità di essere doppiata da una visione complementare, Infatti colui che vede può possedere il visibile solo se ne è posseduto. Il kalos greco, più comunemente indicato come il valore di bello, significa anche chresimos, ossia utile, adatto, conforme. È un euprepes e significa anche buono (agathos), valido, virtuoso. Il bello nasce attraverso l’esperienza della sorpresa alle mergere dell’apparire; Vedere, al contrario, per i greci era una tendenza ad una visione del mondo obiettiva. Non v’è un ambito della vita che non sia condizionato dal vedere , tanto che Platone nel Fedro scrive che “la vista è il più acuto dei sensi permesso al nostro corpo”. Aristotele affermava che “tutti gli uomini per natura tendono al sapere (eidenai). Segno ne è l’amore per le sensazioni” e la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze . Qui l’essenza del mondo come forma, intreccia fra di loro il sensibile e l'intellegibile.

In questo contesto del vedere, il limite tenebroso è materia (hyle), mentre, la poesia epica sottolinea come la bellezza richiami al rilucere dei materiali preziosi, infatti vi è un legame fra la bellezza e la luminosità dell’oro, nella sua dimensione afroditica.

La dea della bellezza è Afrodite, la quale è rivestita con l’epiteto di Aurea, letteralmente “Afrodite d’oro”; il colore oro rappresenta la vitalità solare, piena di fuoco, quel fuoco di cui il Timeo platonico sostiene essere fatto l’occhio. Il glauco rappresenta una finestra aperta dalla quale è possibile accedere al mistero della vita, e in più, l’oro, a differenza degli altri colori, non ha una struttura riflessa, quindi si collega direttamente all’essere. La nascita di Afrodite conferma il nesso fra vita intesa come “venire alla luce/venire all’apparire” e bellezza, pertanto, l’apparire di Afrodite si presenta come l’oggetto che si rivela all’occhio (e alla vista) e lo inonda di luce. A livello estetico, tramite Afrodite si associa alla bellezza un carattere di irresistibilità, che pone differenza tra la Dea ed Eros. Afrodite infatti non è colei che ama, ma è la bellezza che attrae, priva del punto di vista soggettivo, della dimensione della mancanza è del bisogno . Eros è al contrario ricerca, inquietudine, affanno. Una vita nella sua dimensione afroditica trova la propria bellezza nella charis, ossia un contraccambia si il reciproco delle sue forze , risultato della lotta e della Cooperazione di un insieme di momenti. Nella dialettica amorosa, la tensione fra Ares e Armonia è un momento distruttivo della dimensione del tragico, che si risolve proprio nella dinamicità di Afrodite, punto di equilibrio nell’oscillazione fra i due estremi che si sono costituiti, quello della grazia (armonia) e del sublime (contesa). La virtù, per essere celebrata, ha bisogno del canto, che sancisce un vincolo fra l’azione del singolo è quella della comunità. La Charis si mostra come trasfigurazione estetica in forze armoniose dell’universo, delle antiche potenze vitali, che assicurano il nutrimento e la crescita ; in associazione a dimensione di circolarità, oltre che è un prolungamento della concezione della virtù e della fa ma come “luce”, “ rendersi noti” . Bellezza è il modo in cui si onora ciò che è apprezzabile, onore e gloria, apparendo come bellezza, si dischiudono nella luce, solo ciò che si distingue ed è visibile può essere onorato . L’apprezzabilità dell’essere buono, risiede nel beneficio che si arreca alla comunità, la charis (essere sociale) si aggiunge all’areté allo stesso modo in cui il kalos (essere naturale) si aggiunge all’agathos. L’irraggiare della gloria attraverso la poesia è un atto festivo, infatti la vittoria è una charis, cosa che si accoglie con animo grato, mentre lo sconfitto, in silenzio, s civola nell’oscurità. Succede dunque che, come una glorificazione della bellezza tramite la poesia, si faccia una glorificazione della vita tramite la festa, come imitazione, rappresentazione di se stessa a se stessa, una mimesi come manifestazione luminosa. La phoesis , momento creativo dello spirito, tramite la poesia e la sua glorificazione, giunge alla sua athanasía, vita eterna. Dall’incontro della dimensione distruttiva della bellezza nascono tre vie: • • •

Via dall’estetismo, che accetta l’ambiguità di Afrodite Via moralizzatrice, che la rifiuta, distinguendo due veneri, la Pandemia e la Celeste Via della scissione (tragica)

Dall’inganno generato da Afrodite, seduttrice persuasiva, si generano due strade: •



Via olimpica della rimozione dall’invidia, intesa come phtonos, in cui vi è la sublimazione armonica di ogni tentazione, generando un equilibrio che nasce dalla lotta e riconoscendo un senso di purificazione della parola positiva; Via del dolore e dello strazio, che accetta il fato come destino.

La soluzione viene ritrovata nella techne alupia, quella forma di evasione dal dolore che sceglie il kairos, l’opportunità di scelta della verità come valore. Per superare tutte le contraddizioni è dunque necessario prendere una sentenza come spiegazione dei fatti, abbandonando il punto di vista del soggetto e

adottando il punto di vista del dio, nella cui perfezione si riassorbe il contrasto, poiché tutto ciò che avviene nel mondo, soprattutto l’incomprensibile, rientra nell'equilibrio superiore del nomos, di Zeus. Ma l’anima Apollinea non tenta di costruire il mondo, ma di capirne il segreto, tramite la sua contemplazione. È tramite la festa religiosa che si fa rivivere il momento della creazione primordiale, imitandone l’essenza per viverla e contemplarla più da vicino. La festa è dunque una commemorazione che rende il momento ripercorribile e per certi aspetti anche eterno, questo poi, tramite la poesia, può essere contemplato. È il dio Apollo a determinare la fine e l’inizio di ogni evento e il canto riassorbe l’evento nella forma. Per i Pitagorici, l'essenza delle cose è contenuta nel numero, e ciò si può capire considerando la musica stessa principio di armonia. I numeri compongono la proporzione perfetta (a=b e b=c, allora a=c) che è numerabile. Ma la menzogna e l'inadeguatezza sono proprie della natura dell'indeterminato, quindi esse non possono aspirare al numero. La charis ha infatti un ritmo ternario numerabile, ed essa lega la dimensione morale a quella estetica, rappresentandone l’elemento di mezzo. L’armonia è dunque una mediazione fondata sull’amore. Le relazioni (amichevoli), come nell'aritmetica, sono fondate da due parti legate mediante un terzo elemento, questo è unità necessaria e ordinata . Nella festa avviene il thaumazein, quel turbamento che sconvolge, stupisce, unito allo sgomento, provato di fronte a qualcosa che ci affascina e al contempo ci spaventa. Per i Pitagorici lo gnomone (complesso di norme e percetti) non è altro che necessità, a cui è sottoposto la materia indefinita, tramite l'arithmos e il logos. Ciò che consente di contemplare la necessità e di amarla è la bellezza del mondo, che è a sua volta rivelazione dell'ordine, della proporzione, dell'armonia. In essa c’è una dimensione di libertà e l’artista è colui che, tramite l’arte, possiede le chiavi dell’armonia. La parola poetica, invece, è ciò che è capace di diffondere armonia e philia, ma non sono nell’ambito festivo, ma anche in quello profano. La parola è mimesi che aderisce perfettamente alla realtà e il logos retorico nasce come trionfo della parola mimetica. La parola deve essere in un certo senso “universale”, Omero stesso infatti, definiva Ulisse “polutropos”, perché sapeva conversare con gli uomini in molti modi: poiché trovare il modo di conversare convenientemente a ciascuno è proprio della sapienza, ma adoperare un unico tipo di discorso per tutti è tipico dell’ignoranza. Questa è una specialità che appartiene alla medicina e da qui si ha il legame dell’armonia fra la cura del corpo, tramite la medicina e al cura dell'anima tramite la musica. Solo grazie all’armonia il molteplice si riduce in unità.

Anche se quanto appena esposto, come vedremo in seguito, corrisponde a verità, è comunque possibile affermare con certezza che, già nel periodo cosiddetto arcaico, che va da VI secolo a. C. all’inizio del V secolo, i Greci, che già possedevano una grande arte, avevano sviluppato anche una loro concezione precisa del bello e dell’arte stessa, che non misero per iscritto, ma che può essere ricostruita a partire dalla prassi artistica concreta. I Greci, come iniziatori di questa inedita forma di riflessione, dovettero pertanto inventare un linguaggio per poter parlare dell’arte da loro stessi inventata e definire dei concetti che anche noi oggi utilizziamo, anche se con un significato diverso. Il primo di questi concetti fondamentali è il concetto di bello . La parola kalón, che noi traduciamo con “bello”, aveva in realtà un significato più ampio rispetto a quello attuale: comprendeva non solo ciò che risultava gradito all’occhio e all’orecchio, ma anche qualità del carattere e della mente umana. Gli antichi mantengono inoltre separate la sfera del bello e la sfera dell’arte e conferiscono alla bellezza un fondamento ontologico, per ricercarne conseguentemente le manifestazioni nella natura e, in particolare, nel corpo dell’uomo, il più nobile e alto fra gli esseri naturali. Proprio per questo primato, l’uomo è in grado di esprimere la sua bellezza, oltre che nella

proporzione delle forme fisiche, anche nella dignità dei comportamenti pratici: da qui deriva il forte legame fra bello e buono, che nella Grecia classica trova la sua espressione suprema nell’ideale formativo della kalokagathía, la condizione propria cioè di chi sa di potersi dimostrare, nello stesso tempo, bello e buono. Buono, agathós, rappresenta l’aspetto morale, unito alle sfumature sociale e mondana che provengono dalle origini, bello, kalós, è la bellezza fisica, con l’inevitabile aura erotica e sensuale che l’accompagna. Già da solo, tuttavia, l’aggettivo kalós è in grado di qualificare, insieme alla bellezza fisica, anche quella morale. Quello di “bello” era quindi un concetto dal significato molto complesso e ricco, cui i Greci ricondussero schematicamente: 1.

l’armonia, rilevabile nell’equilibrio cosmico;

2.

la simmetria, cioè misura appropriata;

3.

l’euritmia, cioè ritmo esatto e dalle corrette proporzioni.

Tutto ciò è riassumibile nel concetto di kósmos, che si riferisce alla bellezza di un oggetto dovuta alla perfezione della sua struttura in ragione della proporzione della sue parti. Fin dall’età arcaica l’opera d’arte viene infatti concepita come un insieme composito di elementi che rappresentano la copia e la riproduzione di un ordine esterno all’opera stessa (mimesi) e che, in virtù del loro trattamento rappresentativo, generano piacere e ammirazione. Nel campo delle arti verbali, come riferisce lo stesso Omero, il concetto di kósmos si collega all’armonia e alla coerenza: di un cantore si può dire che esegua un canto secondo i canoni della bellezza se procede katá kósmon, secondo un bell’ordine, riproponendo cioè in una coerente struttura verbale la successione reale degli eventi. Nella lirica arcaica il testo poetico viene inteso come un kósmos epéōn, cioè un bell’ordine di parole. Il processo compositivo del kósmos è attivato, a sua volta, dall’impulso a riprodurre che, secondo Aristotele, caratterizza l’uomo in quanto essere rivolto e orientato verso la conoscenza. Tale impulso riproduttivo viene definito dallo Stagirita come mímēsis, il processo imitativo cioè che può riferirsi non solo ai procedimenti della poesia, delle arti figurative e della musica, ma anche della voce e della recitazione, fino ad arrivare ad accezioni più filosofiche, come l’assunzione di comportamenti ritenuti esemplari, il legame fra i nomi e le cose, il rapporto fra l’essere e il divenire fino ad arrivar e addirittura alla contemplazione delle forme ideali. Il concetto di mímēsis apparve assai presto e persistette a lungo nella cultura e nell’arte della Grecia classica; prima di assumere il succitato significato di riproduzione della realtà con le sue molteplici sfumature, si riferiva originariamente alla danza e aveva un significato del tutto diverso, in quanto stava ad indicare l’espressione dei sentimenti e la manifestazione dell’esperienza attraverso il movimento, il suono e le parole. Tale concetto comparve per la prima volta in connessione con il culto di Dioniso e le danze rituali dei sacerdoti; in Pindaro, infatti, la parola mímēsis sta a significare una danza nel senso antico del termine, intesa cioè come danza non imitativa, ma espressiva, tesa cioè ad esprimere sentimenti piuttosto che a imitarli. Per quanto concerne l’altro concetto fondamentale, quello di arte, i Greci si riferivano ad essa mediante il termine téchnē, in cui veniva fatto rientrare ogni prodotto dell’abilità tecnica, dal lavoro manuale dei tessitori, dei calzolai (l’arte di fare le scarpe) e dei tessitori a quello degli architetti. Rappresentare la realtà significa, anche ai livelli più elementari e soprattutto alle origini dell’antichità classica, filtrarla attraverso un meccanismo selettivo tale da estrapolare gli elementi maggiormente significativi per ricomporli in un nuovo ordine; l’artista, in definitiva, secondo la prospettiva classica, opera alla stregua di un fabbricatore, di un poiētēs, che mediante una tecnica ed una particolare abilità riproduttiva, mette assieme un kósmos artificiale analogo e per certi versi simile al kósmos reale. Come affermava anche Democrito, il kósmos artistico presuppone l’atto del costruire, del tektáinesthai, espressione verbale che è vicina, con la radice tek-, congiungere, al termine greco téchnē. La costruzione di un kósmos riesce inoltre tanto più bella ed attraente quanto più in essa ciò che è stato imitato risplende agli occhi con la luce che gli è propria. L’artista infatti ottiene successo anche in funzione della sua

capacità di trasformare i propri mezzi espressivi rendendoli adeguati alla situazione che essi devono rappresentare e alle circostanze cui essi, davanti all’opera finita, vengono recepiti; in definitiva la sua attività, sia nel momento della produzione che in quello della fruizione, è connessa e si innesta sempre in un preciso kairós, cioè in una giusta occasione: ciò che l’artista riesce a ritagliare dalla realtà deve poi essere opportunamente innestato ed adattato nelle reazioni dei fruitori, che devono cogliere il piacere estetico dato dall’identità fra l’opera e la realtà in essa rappresentata. Il termine téchnē fa quindi riferimento: 1.

all’attività umana in quanto opposta alla spontaneità della natura;

2.

all’aspetto della produzione manuale, visto in alternativa a quello dell’attività conoscitiva;

3.

alla relazione con l’abilità e non con l’ispirazione;

4. alla presenza di norme operative generali e non di semplice abitudine ed ammaestramento meccanico. L’aspetto dell’abilità era ritenuto essenziale, ragione per cui l’arte era considerata un’attività dell’ingegno, e fondamentali erano considerate anche le conoscenze che l’esercizio dell’arte stessa richiedeva. Per i Greci, inoltre, quelle che più tardi coincisero con le “belle arti” non erano distinte dalle arti manuali e qualunque artigiano, dēmiourgós, a qualunque arte si dedicasse, poteva raggiungere la perfezione e diventare un maestro, architéktōn. L’atteggiamento dei Greci verso coloro che esercitavano le arti era inoltre caratterizzato da una marcata ambivalenza: da un lato essi erano stimati per le conoscenze che possedevano, ma dall’altro erano disprezzati per il fatto di esercitare un’attività manuale dalla quale ricavavano i mezzi per il loro sostentamento. Anche la divisione delle arti risentiva, in un certo senso, di questa visione preconcetta. Ad un livello superiore, infatti, erano collocate le arti libere, quelle cioè che non richiedevano fatica e sforzo fisico, dall’altro stavano le arti servili, che richiedevano, al contrario, impegno fisico ed attività manuale; tanto per fare un esempio, la musica era considerata arte libera, mentre la scultura e anche la pittura erano considerate arti servili. La separazione fra arti libere e arti servili rifletteva quindi una cultura per la quale il lavoro manuale aveva in sé qualcosa di poco nobile. La stessa condizione degli artisti, non solo di quelli che praticavano le arti servili, ma anche dei musici, degli attori e dei ballerini, rifletteva chiaramente questo pregiudizio, cui nei fatti se ne aggiungevano altri: gli attori, che pure non praticavano un’arte servile, sono stati oggetto, da allora fino all’età moderna, di duri giudizi di condanna per lo stile di vita fuori dai canoni della normalità che a causa della loro professione conducevano. I Greci non classificavano la poesia fra le arti: l’arte era un’attività che, in virtù di specifiche abilità e seguendo precise regole, portava alla produzione di oggetti materiali, mentre la poesia era considera ta frutto dell’ispirazione. In definitiva, nell’arte, l’intervento dell’abilità tecnica impediva di avvertire il coinvolgimento dell’ispirazione, mentre nella poesia accadeva esattamente il contrario e per questo non si vedeva alcun possibile rapporto fra le due. La poesia pertanto, per queste ragioni, venne accostata alla divinazione e i poeti furono classificati come indovini, in quanto si riteneva che potessero portare a termine la loro opera solo grazie all’ispirazione concessa dalle potenze celesti. Ciò contribuì a confermare la forza seduttiva della poesia e la circondò di un alone magico. Se non fu possibile infatti per i Greci cogliere il legame fra poesia e arte, fu invece immediata la connessione fra poesia, musica e canto, che fu a tal punto accentuata da giungere a ritenerle unite ed appartenenti alla stessa sfera creativa. Tale affinità era mot...


Similar Free PDFs