Riassunti Psicologia Sociale Percorso PF24 PDF

Title Riassunti Psicologia Sociale Percorso PF24
Author Giada AQUINO
Course Psicologia Sociale
Institution Università degli Studi di Parma
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Summary

Riassunti del suddetto libro per corso accademico...


Description

qualcosa di sacro e tabù che nessuno oserebbe sfidare.

precedentemente, nell’incontro tra individui

alcune coppie disfunzionali ci si può rendere conto di come alcuni conflitti coniugali intacchino il sottosistema genitoriale, arrivando a triangolare il figlio nei conflitti, magari screditando il partner sul piano genitoriale. I neogenitori, inoltre, dovranno confrontarsi rispetto al tipo di atteggiamento educativo da avere con il figlio. Come già detto sopra, i genitori sono figli di famiglie e storie diverse, appartengono a culture famigliari differenti. La grande sfida sarà per loro quella di fondere i propri modelli in un modello educativo unico.

che è stato, ricercando nuovi valori e nuovi modelli identificativi al di fuori della famiglia stessa, ad esempio tra i pari. Una coppia che sia riuscita a costruire un fronte comune nell’esercizio delle funzioni genitoriali, che sia in grado di soddisfare i bisogni educativi e affettivi del proprio figlio, potrà essere in grado di supportare e contenere in modo positivo le oscillazioni che il ragazzo compirà, in una continua ricerca tra l’esplorazione del mondo esterno e la ricerca di una base sicura a cui tornare nei momenti di difficoltà.

Le esplorazioni dei figli, la messa in discussione del

Allo stesso tempo i genitori anziani si aspetteranno

orientare i propri comportamenti e le proprie azioni

Quello che ci si trova davanti è un mondo nuovo, che

Saskia Sassen, Migranti, coloni, rifugiati, Feltrinelli, 1999 Il libro offre una fotografia quanto mai nitida dei movimenti migratori all'interno del continente europeo dalla fine del Settecento a oggi. Si scopre infatti che il

diversi”, quelli che arrivano e richiedono, o più semplicemente necessitano, uno spazio di vita. Le caratteristiche attribuite a interi gruppi umani dipendono in prima istanza dalla posizione che questo gruppo occupa nella gerarchia sociale di riferimento.

riterreste che questa differenza di prestigio sarà stabile (nel senso che dovrebbe mantenere lo stesso ordine e la stessa distanza tra le categorie) anche nel futuro. I confini tra queste tre categorie sono permeabili? Vale a dire, è possibile per un infermiere entrare a fare parte

quello degli OSS, valorizzando così la loro preparazione e il loro sapere professionale. In questo caso, siamo di fronte a una strategia collettiva ma cognitiva poiché agisce principalmente sui significati. Da un punto di vista strutturale la gerarchia sociale è

i

Potremmo però anche considerare il caso in cui la categoria professionale degli infermieri considerino illegittima la gerarchia sociale, la percepiscano tuttavia come stabile (difficile immaginarla diversamente) e ritengano i confini tra i gruppi impermeabili. La “reputazione” del proprio gruppo può allora essere valorizzato attraverso una ridefinizione cognitiva dei parametri che definiscono il contesto del confronto interruppi. Questa ridefinizione può riguardare le dimensioni specifiche del confronto, la scelta del gruppo con il quale confrontarsi o le caratteristiche del proprio gruppo. Per riprendere il nostro esempio, il gruppo degli infermieri potrebbe differenziarsi dal gruppo dei medici enfatizzando il confronto a partire da dimensioni a loro favorevoli come, ad esempio, la prossimità relazionale con il paziente; aspetto estremamente valorizzato nel processo di cura. Ma potrebbe anche orientare il confronto sociale verso il gruppo infra-ordinato come

chiamate caratteristiche ascritte in ragione del fatto che sono attribuite alla persona fin dalla sua nascita: sesso, etnia, religione (gli abbandoni o le conversioni individuali sono sempre processi estremamente costosi sul piano relazionale), colore della pelle? Sono ancora “valide” le strategie identitarie descritte quando queste dimensioni sono messe in gioco tutte insieme nel processo migratorio? Affronteremo questa tematica nella prossima UD. Proponiamo fino d’ora però una riflessione sui cambiamenti che hanno accompagnato le credenze relative alla gerarchia uomo-donna e bianco-nero, e che hanno portato a una riduzione seppure incerta della distanza gerarchica tra i due gruppi. APPROFONDIMENTO Esistono quindi gerarchie sociali basate su caratteristiche ascritte, vale a dire caratteristiche in qualche modo connaturate agli individui e pertanto non

modificabili e acquisibili. È il caso dell’etnia, del colore della pelle, della religione e del sesso. Le differenze di sesso e il colore della pelle (e di religione) tra gli esseri umani costituiscono a questo proposito due esempi paradigmatici delle gerarchie sociali e del loro divenire. Che ci piaccia oppure no, è indubbio che questi gruppi non sono mai stati (nemmeno oggi) su un piano di parità sociale. Il gruppo “uomini” in quanto gruppo dominante può ipso facto ricavare un’identità sociale positiva nel confronto con il gruppo “donne” subalterno in termini di potere e competenze (attribuite). In modo analogo, da quando l’uomo bianco è andato alla conquista del continente africano, la dimensione pelle bianca-pelle nera segna una gerarchia dei rapporti tutta a favore della pelle chiara. È evidente che in questi due casi il passaggio dal gruppo dominato al gruppo dominante, vale a dire la messa in atto di una strategia identitaria di mobilità sociale, non è contemplabile. Ora, per molto secoli, in entrambi i casi, questi due sistemi gerarchici sono stati ritenuti in qualche modo “legittimi” anche alla maggior parte dei membri dei gruppi dominati (donne e persone dalla pelle nera). Come possono i gruppi dominati condividere una credenza che li conferma nella loro posizione svantaggiata? Questa condivisione può essere spiegata attraverso il processo di naturalizzazione. Nell’ambito della sociologia (Durkheim) e della filosofia politica (Marx) si parla di processo di naturalizzazione ogni qualvolta il frutto dell’operato dell’uomo e quindi della storia è racchiuso in un sistema di significati protetto dagli sforzi che gli stessi uomini possono compiere per cambiarli. Il fatto di attribuire una spiegazione “naturale” o divina a queste differenze, garantisce la loro invariabilità. Ci si trova nell’impossibilità di mutarle poiché così facendo si contravverrebbe all’ordine naturale o divino delle cose. Non c’è spazio in questa sede per discutere dell’evoluzione e della messa in discussione delle credenze che per secoli hanno garantito queste gerarchie. Osserviamo tuttavia come, per entrambe, l’apogeo del cambiamento avviene negli anni ’60 del secolo scorso. Le trasformazioni che, nei paesi industrializzati, accadono a seguito delle lotte di emancipazione delle donne e delle persone di colore non hanno precedenti nella storia. Il principio di uguaglianza di tutti gli essere umani, proclamato nella Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), delegittima di fatto la segregazione sociale basata sul sesso e sul colore della pelle. I confini tra i gruppi sono definitivamente percepiti come chiusi e la mobilità sociale non è, ovviamente, pertinente. Un altro mondo è allora immaginabile. L’organizzazione secolare dei rapporti sociali basata sulla marginalizzazione o l’esclusione o la segregazione delle donne e delle persone di colore non è più considerata come l’unica possibile: le cose possono cambiare e in qualche modo sono effettivamente cambiate. Non possiamo dire che l’asimmetria tra uomo-donna e quella tra popolazioni bianche e nere sia azzerata, ma la riduzione che hanno subito è stata drastica e senza precedenti storici. Il primo grande salto storico avviene durante la Rivoluzione francese di 1789. Perché la gerarchia tra il

maschile e il femminile potesse cambiare, è stato necessario che la legittimità del sistema fosse messa in discussione. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), affermando l’uguaglianza degli individui, implica il riconoscimento delle donne come esseri civili e responsabili. I provvedimenti conseguenti, approvati in un primo tempo dall’Assemblea Costituente (vedi box sotto: Olympe de Gauge), furono effettivamente rilevanti: diritti di successione (aprile 1791), diritti di accesso ai beni comuni (giugno 1793) e diritto al divorzio (20 settembre 1792). Istituendo il suffragio universale a uso dei soli uomini (1793) e stabilendo il divieto alle donne di partecipare e assistere alle assemblee politiche (1795), la Costituente decretò, in questo modo, la loro esclusione dalla res publica per altri 150 anni. Così, il principio di uguaglianza rimarrà fino alla seconda metà del XX secolo appannaggio dell’uomo maschio, bianco, adulto e possibilmente cristiano. Esclusi dalla cittadinanza: le donne, i bambini, e tutti i “non bianchi”. Infatti, quando, nel 1804, il Codice Napoleonico consacra, ripercorrendo i modelli proposti da Aristotele prima e da San Tommaso poi, il potere del marito attraverso il principio di onnipotenza paterna, viene risolutamente restituita una consistenza giuridica all’inferiorità sociale e politica della donna. Il XX secolo si contraddistingue per essere allo stesso tempo il secolo più sanguinoso della storia dell’umanità e quello in cui le donne occidentali, molto dopo gli uomini, accedono alla modernità e alla cittadinanza (Thébaud, 2007). Nella seconda metà del secolo, sotto l’aura della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948), si assiste sul piano politico e sociale a uno sconvolgimento senza precedenti nella storia dell’umanità del rapporto tra i sessi nonostante l’incedere esitante e talvolta contraddittorio della traduzione normativa del principio d’uguaglianza. Assunta come cittadina di diritto all’indomani della seconda guerra mondiale, la donna italiana, ad esempio, si vede riconoscere il diritto di voto il 2 febbraio 1945, ma dovrà aspettare il decreto dell’anno successivo per acquisire il diritto a essere eletta (decreto del 10 marzo 1946). Nel 1947, la Costituzione della Repubblica Italiana sancisce il principio di uguaglianza tra i sessi (artt. 3, 4, 37, 29, 51). In essa è riconosciuta la pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini (art. 3). Occorrerà tuttavia aspettare altri sedici anni perché le donne siano ammesse a esercitare tutte le professioni, compresa la Magistratura (Legge 66 del 1963). Sarà dello stesso anno (legge 9 gennaio 1963 n. 7) la prima norma relativa alla non validità di clausole nei contratti di lavoro che prevedano il licenziamento delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio. Dovranno trascorre, invece, altri quattordici anni perché venga promulgata la parità di trattamento tra uomini e donne anche in termini retributivi (Legge 9 dicembre 1977, n. 903). Le prime norme relative alla parità tra i sessi nell’ambito delle relazioni familiari e interpersonali arriveranno anch’esse negli anni ’70: appartengono infatti a quegli anni l’acquisizione del diritto al divorzio (1970/1974), la riforma del diritto di famiglia (1975) e la

legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (1978). Ancor più tardive saranno invece l’abrogazione delle disposizioni di legge sul delitto di onore (1981) e il riconoscimento del reato di violenza sessuale come reato contro la persona (1996). Oggi, a distanza di più di mezzo secolo dalla proclamazione internazionale dell’uguaglianza tra uomini e donne, affiora, anche nelle società organizzate secondo principi democratici, la necessità di fare i conti con l’effettiva realizzazione di questa uguaglianza. Il perdurare, sia nella vita pubblica sia in quella privata, di profonde asimmetrie ci ricorda che l’istituzione non è l’unica fonte della norma: le consuetudini sociali sono prodotte dalle società stesse e i contratti sono impegni che le persone sottoscrivono fra di loro (Chemillier‐Gendreau, 1999). La norma di uguaglianza può essere invalidata sul piano concreto dell’agire da una tradizione secolare che definisce e legittima modelli di relazioni interpersonali asimmetrici e condivisi. In questa prospettiva, la piena realizzazione dei diritti della donna è ben lungi dall’essere un argomento puramente teorico e giuridico. La riduzione dello scarto gerarchico tra uomo e donna modifica, Tajfel (1981) insegna, l’identità femminile collettiva e incide su quella maschile: è lo stesso rapporto tra i sessi a essere modificato ed è l’intera scala dei valori della società a essere scardinata (Habermas, 1998). Risulterebbe evidentemente riduttivo ricondurre il rapporto tra i sessi a un solo fatto di natura e, allo stesso tempo, il limitarsi a una sola lettura delle “conquiste femminili” non sarebbe sufficiente a rendere conto dei processi attraverso i quali si modificano e si riproducono le dinamiche di genere. Occorre piuttosto interrogarsi sull’evoluzione di una relazione sociale costruita e rimodellata di continuo, insieme effetto e motore della dinamica sociale, che vede come protagonisti attori che occupano storicamente posizioni sociali profondamente asimmetriche, fondate sul sesso. Uomini, donne, sesso e genere: si cosa stiamo parlando? Quando un bambino nasce, la prima domanda che ci poniamo è se sia maschio o femmina. Questi, normalmente, possiede fin dalla nascita caratteristiche sessuali ben definite e ciò è sufficiente a collocare il neonato in una delle due categorie. Ma occorre precisare che il sesso non risulta sovrapponibile al genere. Il diventare (più che l’essere) uomo o donna è, a ben vedere, un processo culturale, una “costruzione sociale” e alla nascita si possiede un’identità sessuale e non propriamente un’identità di genere (Bimbi e D’Amico, 1998; Duveen, 1992; Piccone Stella e Saraceno, 1996). Il “genere” gender nella accezione angloamericana - è una modalità di classificazione volta a identificare l’esistenza di tipi; nella società coesistono due sessi e tale termine segnala questa duplice presenza e il duplice modo con cui gli esseri umani si percepiscono e sono percepiti nel mondo. L’elaborazione del concetto di genere ha per di più una storia di formulazioni e riformulazioni piuttosto

complessa (Busoni, 2000; Duveen, 1992; Rubin, 1975; Saraceno, 1992; 1996; Scott, 1988) e, in effetti, la sua genesi non emerge da una semplice presa di coscienza neutrale di un mondo suddiviso in maschile e femminile, quanto, piuttosto, dalla constatazione di un palese squilibrio tra le due categorie; il genere diverrebbe, in tale ottica, l’ambito più immediato in cui i giochi di potere possono manifestare le loro dinamiche (Piccone Stella e Saraceno, 1996). Autrici come Joan Scott (1988) hanno illustrato come le differenze biologiche tra i due sessi siano da sempre state sottoposte alla costruzione di una disparità storica in nome della quale la divisione dei ruoli, del lavoro, dei compiti quotidiani, la vita pubblica e la stessa vita privata e familiare, si sono organizzate nel corso del tempo lungo una chiara asimmetria a tutto svantaggio del genere femminile; mentre il genere maschile impugnava le redini del potere economico e del prestigio dentro e fuori le mura domestiche, quello femminile si trovava addirittura negato il diritto di voto, in virtù di una naturale inferiorità intellettiva e morale. E’ stato il femminismo, in particolare dalla fine degli anni Sessanta, a divenire il soggetto politico portavoce per eccellenza, e contestatore, di tale squilibrio sociale, di questa “illegittimità” del potere maschile. La relazione tra sesso e genere, e la capacità di quest’ultimo di inglobare il primo, implica il sostrato corporeo e fisico della differenza sessuale; ed è su quest’ultimo che il pensiero femminista ha puntato l’attenzione in quanto pretesto di quei processi sociali che hanno condotto e conducono a separare i percorsi di vita dell’uomo e della donna e ad attribuire loro, a priori, come un marchio indelebile, determinate caratteristiche, virtù, abilità, competenze e limiti. Occorre allora segnalare il fatto che il suddetto concetto, a differenza della vecchia dizione “condizione femminile”, non indica uno status di inferiorità, di svantaggio, di oppressione a discapito della popolazione femminile. In secondo luogo, presuppone un’inscindibilità di analisi e una reciproca influenza delle due condizioni, quella maschile e quella femminile, per cui non è possibile studiare e conoscere l’una separatamente dall’altra. Gayle Rubin (1975) ha ufficialmente introdotto nel discorso scientifico il concetto di genere con l’espressione sex-gender system. Con tale termine Rubin “denomina l’insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l'uno dall'altro: creando, appunto, “il genere”" (Piccone Stella e Saraceno, 1996, p.7). Anche lo scritto di Rubin non è esente dalla constatazione di una netta subordinazione della donna rispetto all’uomo e si propone di valutare “se sia realistico o no sperare in una società sessualmente egualitaria” (Rubin, 1975, p.157).

Il termine si inserirà poi negli studi del femminismo americano, nelle discipline più diverse, sostituendosi alle terminologie consuete, quali “i due sessi” o “i ruoli sessuali”, per giungere in Europa nella seconda metà degli anni Settanta. Accanto a numerose correnti di pensiero che sottolineano il ruolo fondamentale della socializzazione e intendono appunto il genere come “costruzione sociale” puntando l’attenzione sulle esperienze di apprendimento alle quali gli esseri umani vengono sottoposti fin dalla nascita, si è da sempre assistito al diffondersi di una chiara tendenza a scoprire i presunti fattori ormonali, genetici ed evolutivi come unici responsabili di fenomeni sociali e psicologici quali le differenze di genere. Questo ha costituito una parte fondante del noto dibattito sul nesso/opposizione tra natura e cultura ma, allo stesso tempo, mette ancora una volta in luce l’impossibilità di considerare i due fattori, le esperienze e l’apprendimento da un lato e il corredo materiale e biologico dall’altro, in modo nettamente separato (Burr, 2000; Plomin, Chipuer e Loehlin, 1990; Rose, Lewontin e Kamin, 1990). Per citare un esempio di teorie propriamente biologiche, un enorme favore hanno incontrato negli ultimi tempi quelle che sostengono l’influenza diretta degli ormoni sessuali (androgeni, progesterone ed estrogeni) sul pensiero e sul comportamento maschile e femminile e sullo sviluppo differenziale dell’organizzazione cerebrale degli esseri umani, fin dalla più tenera età (Kling, 1975; Moir e Jessel, 1989). In particolare, l’esposizione del cervello fetale agli androgeni sarebbe all’origine della maggiore

specializzazione del cervello maschile e della dominanza dell’emisfero destro, deputato alle attività visuo-spaziali, mentre le donne sarebbero caratterizzate da una dominanza emisferica sinistra, sede del linguaggio: ciò è sufficiente a spiegare la propensione femminile al dialogo e all’espressione delle emozioni. Tale specializzazione sarebbe pertanto all’origine delle differenze nelle scelte accademiche e professionali, oltre che nei comportamenti manifestati nei vari ambiti sociali e nei rapporti interpersonali. Le critiche relative al carattere riduttivo di tali teorie basate sulla spiegazione di un fenomeno sociale e psicologico complesso a partire da puri meccanismi biologici hanno spesso trovato punti di forza nei numerosi studi interculturali[1], che hanno avuto per oggetto popolazioni diverse da quella occidentale, dimostrando la presenza di concezioni del maschile e del femminile assai diverse fra loro e ben lontane da quelle che noi reputiamo convenzionali (Burr, 2000). Al contrario, se i ruoli di genere e le differenze di personalità fossero l’espressione diretta, senza alcuna mediazione culturale e sociale, dell’eredità biologica, potremmo facilmente osservare le stesse differenze tra uomini e donne e le stesse modalità di suddivisione dei ruoli in base al sesso di appartenenza in tutte le società e in tutte le culture del pianeta. Ma, soprattutto, se le differenze di competenze e di volare avessero un fondamento biologico non potrebbero subire variazioni così sistematiche nel tempo e in base al sistema di regole che le comunità si danno di volta in volta.

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