Riassunto Abitare Illegale di Andrea Staid PDF

Title Riassunto Abitare Illegale di Andrea Staid
Author Enrica Spazzini
Course Antropologia culturale
Institution Università degli Studi di Trento
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Summary

Corso in Antropologia Culturale Prof Ester Gallo ELABORATO SCRITTO A CURA DI ENRICA SPAZZINI (matricola 196975) TESTO Illegale, Etnografia del vivere ai margini in di Andrea Staid etnografica di Andrea Staid assume i caratteri di una ricerca profonda e per nulla scontata fin da subito: il titolo, Ab...


Description

Corso in Antropologia Culturale - Prof.ssa Ester Gallo

ELABORATO SCRITTO A CURA DI ENRICA SPAZZINI (matricola 196975) TESTO “Abitare Illegale, Etnografia del vivere ai margini in Occidente” di Andrea Staid L’analisi etnografica di Andrea Staid assume i caratteri di una ricerca profonda e per nulla scontata fin da subito: il titolo, Abitare Illegale, restituisce immediatamente l’idea di un tema complesso. Storicamente le ricerche etno-antropologiche sull’abitare si sono concentrate in larga misura in Africa, Asia e nei paesi del Sud America. Ma è in Europa che il tema dell’abitare ai margini non ha ancora trovato una letteratura propria e approfondita. Staid parte da qui, dalla curiosità di dare forma ad una ricerca sull’abitare illegale e informale in Occidente e dalla voglia di dar risposta al suo principale interrogativo: la nostra idea del vivere è l’unica o è una delle possibili modalità? Prima di decidere l’orientamento della sua ricerca l’autore viaggia per sei anni in Asia, dove ha la possibilità di conoscere le espressioni abitative dell’Oriente, le tradizioni di autocostruzione della casa e il senso dato ad essa da chi la vive. E’ grazie a quest’esperienza che Staid sceglie di dedicarsi all’analisi di casi studio in un diverso ambito territoriale, l’Occidente, in cui la pratica maggiormente diffusa è un abitare diverso: in famiglie mononucleari all’interno di appartamenti, affittati o di proprio possesso, né costruiti né ideati da chi li vive. La sua ricerca non si svolge in angoli remoti della Terra ma tra i palazzi e le case della sua cultura, dove possibilità di abitare informale erano e sono, molto spesso, sconosciute ma a portata di mano. Fin da subito gli è stato chiaro che non esiste un modo uniforme di vivere nemmeno in quella porzione del Pianeta, l’Occidente, che sembra essere tanto omologato e pianificato. E così Staid inizia a conoscere nuove forme di abitare illegale e informale delle metropoli e delle campagne occidentali, viaggiando dal 2014 al 2016 in Europa e raccogliendo esperienze in città italiane tra cui Milano, Pavia, Novara e in Paesi dell’Unione come Germania e Spagna. Espressioni di un vivere che non vuole essere presentato come una forma deviante di abitare ma come un vero e proprio fenomeno di “resistenza all’omologazione” (“Abitare Illegale, Etnografia del vivere ai margini in Occidente” di Andrea Staid, pag. 16), come la definisce lo stesso Staid. Ecco che le storie che hanno incrociato il cammino del ricercatore sono esperienze di chi vuole continuamente dare e ridare senso all’abitare contro il dilagare di posti diventati non-luoghi spersonalizzati. Certo non spazi perfetti ma luoghi che caratterizzano la vita di persone pronte non solo a partecipare ma a costruire il proprio abitare. Leggere in quest’ottica le testimonianze riportate nel testo rende al lettore l’importanza che la ricerca assume per Staid, convinto che l’abitare e il senso dato all’abitare definiscano gli ambiti in cui si mettono le basi per la costruzione della propria identità. In questo senso il tema della sua etnografia non è per l’autore un freddo oggetto di studio ma assume i caratteri di una forte convinzione, pienamente parte del suo attivismo. L’abitare informale e illegale di cui parla è per lui sostanzialmente esempio di un cambiamento culturale che restituisce il senso di comunità e autodeterminazione apparentemente perso a causa della spersonalizzazione e identitarietà tipiche del vivere occidentale da tre secoli a questa parte. Il testo di Andrea Staid mette in luce la complessità di un tema che spesso viene dato per scontato. Siamo abituati, nella modernità, a contare su un tetto “nostro” che, rispetto al passato, ha in realtà di nostro ben poco: nella maggior parte dei casi non lo abbiamo costruito noi e spesso non è nemmeno di nostra proprietà. Così nascono esperienze che tentano di ridefinire gli spazi, le relazioni e il proprio vivere e che vogliono mettere in discussione quel modo di abitare che, agli occhi di tanti, sembra ormai l’unico esistente. Abituati a vivere all’interno di forme architettoniche prescritte dalla cultura dominante corriamo il rischio di diventare standardizzati: le forme alternative dell’abitare vogliono dimostrare che esistono altre possibilità di scelta.

In questo contesto diventa importante definire ciò che è casa: non solo il tetto che da’ protezione ma l’insieme di relazioni che si creano con le persone che vivono quell’ambiente e che ci definiscono. Casa, appunto, non è solo quella che compriamo o affittiamo. O meglio, non per tutti è così: non solo per chi non se lo può permettere o vive situazioni di difficoltà ma anche per chi vuole ridefinire il suo senso di abitare. Per comprendere il fenomeno Staid si è immerso nell’oggetto della sua ricerca viaggiando in Europa e entrando in contatto diretto con gli abitanti di un vivere alternativo. La sua analisi, però, parte da un approccio storico che ha il compito di prepararci alla successiva raccolta di testimonianze. L’excursus ci da’ la possibilità di comprendere meglio, pagina dopo pagina, quale senso sia stato dato all’abitare dalle epoche precedenti. E’ importante darci una metro storico di paragone per capire in profondità il fenomeno e i suoi eventuali cambiamenti. Per questo Staid ci fa ripercorrere il rapporto tra l’uomo e la propria casa fin da prima del diciottesimo secolo, quando gli abitanti dei quartieri si costruivano ancora le case da sé, senza aiuto di architetti che tentavano di imporre le proprie migliorie dall’alto. Fu nel diciannovesimo secolo che gli abitanti del mondo occidentale, dovendo emigrare dalle campagne alle città, si trovarono impossibilitati a provvedere esclusivamente con le proprie forze alla costruzione di una nuova casa. Inizia in questo secolo l’omologazione dell’architettura e il divieto tipico delle società industriali di costruire con le proprie mani l’abitazione. E’ fondamentale precisare, e lo sottolinea anche l’autore nel testo, che quest’analisi storica è limitata alle società occidentali: gli esseri umani hanno abitato e abitano tuttora il Pianeta in modi assai differenti che rendono difficile la compilazione di una dettagliata storia dell’abitare. E’ grazie ad un’introduzione storica lineare che l’autore ci fa entrare nel mondo odierno dell’abitare illegale tra campi Rom e Sinti, case occupate, ecovillaggi e comuni, autocostruzioni, slum urbani e baraccopoli. E’ proprio in questi spazi ridefiniti da un nuovo concetto di comunità che Staid ha raccolto i dati per la sua etnografia. I documenti fotografici, i primi che impressionano il lettore tra le pagine della ricerca, rendono possibile una visione immediata delle abitazioni. Il titolo e la cultura comune sul tema potrebbero portare il lettore ad immaginare spazi degradanti; le immagini dell’autore, documentazioni dei suoi viaggi in Europa, riportano l’immaginazione alla realtà, ovvero ad abitazioni spesso curate, sentite, fatte proprie da chi le vive. Certo non sempre così. Baraccopoli e slum urbane soffrono la povertà e il malfunzionamento dei servizi, ma il racconto degli abitanti ci restituisce quello che noi corriamo il rischio di dimenticare: la quotidianità dell’abitare un luogo, di sentirlo la propria casa. Le immagini si incrociano con i dati dell’osservazione partecipante, che hanno permesso di ricostruire con obiettività scorci di vita, condizioni, servizi, funzionamento, qualità delle abitazioni. Ogni caso studio è raccontato con interviste degli abitanti raccolte in forma di testimonianza, fondamentali per dare un’immagine d’insieme ad una condizione spesso poco conosciuta. Ogni persona affronta la propria esistenza abitativa in maniera diversa e con motivazioni differenti: chi per necessità, per scelta, per attivismo o come semplice esperienza. Studiare le abitazioni senza coinvolgere gli abitanti, trascurando le motivazioni che li hanno portati a quella scelta e non curando la loro concezione del vivere quella casa, sarebbe perdere un pezzo importante e fondamentale della ricerca. Rischierebbe di emarginare l’interessante mondo che sta dietro le abitazioni illegali e informali ed è il loro cuore pulsante: l’ambito della scelta personale, della motivazione, della resistenza. Così Staid viaggia, conosce tipi nuovi di abitazione e si fa raccontare cosa significhi per gli abitanti quella struttura, quel pezzo di mondo che è casa loro ma che è anche casa differentemente da quella che solitamente ci si aspetterebbe da un uomo o una donna occidentale. Analisi del contesto storico, documenti fotografici, osservazione partecipante e testimonianze sono i metodi scelti dall’autore per indagare l’oggetto della ricerca. I metodi che l’antropologo ha ritenuto più consoni; altri sarebbero parsi probabilmente non adeguati. Staid infatti decide spesso, come da lui stesso confermato, di non privilegiare il metodo dell’intervista qualitativa strutturata, preferendo invece forme di dialogo insieme ai singoli abitanti, con i quali è riuscito a costruire un buon rapporto di fiducia sia in ambito

professionale che al di fuori di esso. Comunque sia l’autore menziona esperienza positive di interazione all’interno dei vari ambienti conosciuti. Si parla di persone accoglienti, pronte al dialogo, aperte e propense alla relazione, allo stare in comunità. Staid non parla di difficoltà, e quindi con certezza non lo possiamo sapere, ma dalla narrazione non sembra abbia riscontrato ostacoli talmente ingombranti da aver rischiato di limitare la ricerca. Certo possiamo immaginare che le lingue diverse e la possibile diffidenza degli abitanti nei confronti di una persona sconosciuta possano aver rappresentato piccole complessità, superate dall’antropologo visti i risultati della ricerca. Staid entra in contatto, nello specifico, con cinque tipologie di esperienze che hanno visto l’abitare reinventarsi all’interno di spazi informali. Del primo caso-studio analizzato dall’autore fanno parte i Campi Sinti e Rom, informali per eccellenza in Italia ma non solo, uomini e donne che ritengono l’abitare un’esperienza totalizzante non definibile all’interno delle mura domestiche. La specificità del popolo Romanì è la sua resistenza nella preferenza all’esclusione rispetto all’assimilazione, dovuta anche alla forza escludente di una società che non è mai stata in grado di integrarlo. Ancora oggi i Romanì sono oggetto di pressioni sociali, culturali e politiche, tanto che i campi Rom e Sinti sono in costante pericolo di sgombero anche se regolari (ne è un esempio il caso del campo di via Idro a Milano). Staid nel 2016 è entrato in contatto con Sinti e Rom per capire, con il metodo etnografico, la loro concezione dell’abitare. Lo ha fatto in tre campi: quello di Rogoredo e il Villaggio Le Rose a Milano e quello di Piazzale Europa a Pavia. Ha potuto notare fin da subito, senza l’aiuto di interviste, accoglienza, pulizia, case semplici e belle; l’opposto di quanto si racconta sulle abitazioni dei Romanì. Questo esempio ci aiuta a capire l’importanza della ricerca sul campo e della presenza fisica dell’antropologo nella formulazione di analisi al di là dei pregiudizi. Iaio, abitante del Villaggio Le Rose a Milano, ha espresso, durante la sua intervista, due concetti importanti che descrivono bene la cultura del suo popolo: “il nostro vivere è il vivere più bello del mondo, apprezziamo una cosa sopra a tutte le altre: la libertà. Mi sono costruito la mia casa con tanti sacrifici, ma viviamo fuori, discutiamo fuori anche sotto la pioggia. Sì ho la mia casa, è importante ma è più importante vedere il camper parcheggiato fuori con le sue ruote e la possibilità di mettersi in movimento” (“Abitare Illegale, Etnografia del vivere ai margini in Occidente” di Andrea Staid, pag. 48). Le parole di Iaio lo dicono chiaramente: l’abitazione, per le popolazioni Rom e Sinti, è la rappresentazione della propria libertà. Le varie testimonianze ci indicano chiaramente che, oltre ai pregiudizi della cultura europea, esistono campi dove la qualità della vita è buona. Nessuno di loro desidera impacchettare i propri averi e trasferirsi nelle case popolari. La maggior parte degli abitanti dei campi si sono costruiti casa da soli: questo significa sacrificio e tradizione che non sono pronti ad abbandonare. Staid ci ricorda che anche la Commissione dell’Unione Europea e il Governo italiano hanno voluto affrontare la questione. L’autore tende a sottolineare però l’importanza di distinguere e non confondere: esistono differenze tra campi con situazioni critiche dal punto di vista sociale e igienico e campi in cui le cose funzionano. E’ qui che la popolazione è riuscita a creare il senso di abitare quel luogo, dove non si vuole concedere la propria libertà in cambio di soluzioni abitative standardizzate. E’ un senso nuovo e diverso da quello tipico occidentale della nostra epoca, è un senso basato su profonde relazioni di comunità. Quelle relazioni che sono alla base anche di un altro tipo di abitazioni informali: le case occupate, seconda tipologia di caso-studio a cui l’autore si approccia durante la sua ricerca. Le abitazioni occupate sono particolari tipi di strutture abitative in cui i risiedenti non sono necessariamente accomunati da tradizione, cultura o popolo, come per il precedente esempio. Staid mette chiaramente in luce come le case occupate siano in realtà esperienze trasversali a persone di tipo molto vario con motivazioni assolutamente differenti: chi non ha i soldi per pagare un affitto o un mutuo, chi vuole fare un’esperienza di tipo comunitario, chi è spinto da motivazioni politiche e di attivismo. In tutti questi casi l’occupazione diventa una pratica di chi resiste ad una società che non riesce a garantire un tetto e delle mura a tutti. Ecco che diventano così luoghi in cui non si cerca di distruggere ma di costruire un’alternativa; gli occupanti lo fanno

tessendo le trame di una fitta rete di relazioni che servono a dare un senso all’abitazione e a garantirne legittimità. Staid ci pone di fronte al contesto di nascita e sviluppo delle case occupate in Occidente passando per l’Inghilterra, l’Italia, la Germania, la Spagna ma anche l’America, per sottolineare l’importanza del movimento di occupazione per il diritto all’abitare. Esperienze diverse ma a tratti anche molto simili: come tra Milano e Barcellona, città che l’autore ha attraversato cogliendo somiglianze tra gli spazi marginali, tra occupanti spontanei o organizzati. Nelle varie testimonianze raccolte grazie alle interviste è importante il concetto espresso da un occupante di Barcellona: “Io non mi posso permettere una casa in affitto, un quartiere popolare come il Barrio Chino che adesso chiamano il Raval dove da sempre ci hanno vissuto i poveri e gli operai, ora è tutto alberghi e BB e gli affitti sono impossibili, per questo abbiamo occupato casa […] Barcellona è diventata una città disegnata per il turista, si cerca di cacciare la popolazione originaria per rimpiazzarla con gli alberghi e una classe sociale medio-alta” (“Abitare Illegale, Etnografia del vivere ai margini in Occidente” di Andrea Staid, pag. 77). E’ significativo lo sconforto di questo giovane occupante; come lui tanti altri si sono trovati ad occupare per necessità, anche inizialmente nell’imbarazzo di dover convivere con il pensiero dell’abitare uno spazio in maniera illegale. Le motivazioni sono le più varie e non necessariamente a sfondo politico: le città sono sempre più a misura di turista e difficilmente con un lavoro di basso reddito si riesce a pagare un affitto. Si occupa così per necessità, per disperazione, per casualità ma mano a mano si prende coscienza di un sistema ingiusto. Altri vogliono fare l’esperienza di un abitare diverso, alternativo. Tante sono le testimonianza raccolte da Staid. “Abitare illegale è permettersi qualcosa che ti è negato, vivere al di sopra delle possibilità date in partenza, mi sono presa quello che non mi avrebbero mai dato, mi sono presa la bellezza. Mi sono presa la mia intelligenza” (“Abitare Illegale, Etnografia del vivere ai margini in Occidente” di Andrea Staid, pag. 81). Leggere le testimonianze restituisce un messaggio chiaro che se non altro rimette in discussione la concezione diffusa sugli spazi occupati e gli occupanti: descritti da varie voci, tra cui i media e le istituzioni comunali, come spazi di degrado, essi si dimostrano spesso esperienze positive di crescita personale e collettiva. Non si limitano ad occupare luoghi abbandonati ma creano legami tra occupanti e con il vicinato. Lo descrive all’autore un’altra occupante spagnola; racconta di aver stabilito fin da subito ottimi rapporti con il quartiere, permettendo di creare un clima familiare e di appoggio solidale. Ottime esperienze di riqualificazione di spazi e di relazioni umane. Certo Staid non tralascia di riportare anche le paure, le angosce, le ansie e le preoccupazioni di chi ha la consapevolezza di vivere nell’illegalità, ma racconta anche come coraggio e voglia di giustizia facciano da motore alla propria scelta. C’è anche chi sceglie di avere coraggio oltre la frenesia delle metropoli per dedicarsi ad un appassionato ritorno alla natura. Quella che Staid chiama una “vera e propria fuga dalla città” (“Abitare Illegale, Etnografia del vivere ai margini in Occidente” di Andrea Staid, pag. 102) non è altro che la sperimentazione di nuove soluzioni abitative nelle forme delle comuni e degli ecovillaggi. Sperimentazioni strutturali, certo, ma anche inerenti ad una controcultura sviluppata in questi ambienti: il recupero della comunità, della partecipazione, dell’indipendenza e della condivisione in antitesi ai caratteri di una soffocante cultura dominante. Caratteristica fondamentale è il terreno dove sorgono ecovillaggi e comuni: innanzitutto coltivabile, che garantisca la sussistenza del villaggio o dell’abitazione, ma anche su cui sia possibile costruire. “Vivere questa realtà significa condividere non solo dei metri quadrati, delle mura e un tetto, ma fare una scelta politica di vita in comune, condividere un modus operandi quotidiano, che mette in atto nelle pratiche il cambiamento futuro e che giorno dopo giorno fa vedere un concreto avvicinamento al sogno comune nel quale si condividono i propri desideri, il proprio tempo, i propri averi, le proprie esistenze” (“Abitare Illegale, Etnografia del vivere ai margini in Occidente” di Andrea Staid , pag. 104-105). Ecco che torna il carattere comune delle abitazioni illegali e informali descritte fino ad ora: la condivisione di uno spazio ma anche di un’esistenza, di una scelta, di un pezzo di vita. Qui troviamo il valore aggiunto dell’oggetto della ricerca di Staid: il recupero delle dimensioni di umanità e reciproco aiuto, spesso perse nelle società occidentali standardizzate e atomizzate. L’antropologo entra in contatto con alcune di

queste realtà sperimentali, come Urupia, comune di ispirazione anarchica e libertaria nel Salento, esperienza di autogestione che ha dato vita a forme nuove di esistenza e cultura. Lo racconta Agostino, l’intervistato dall’autore, quando parla della scuola libertaria, esperimento nato per contestare il sistema scolastico nazionale e fornire agli abitanti un’autoeducazione che si realizzi nel confronto con l’altro. Ma è anche a Berlino, a Teepee Land, che Staid può approfondire l’abitare marginale. Nel piccolo villaggio l’autore entra senza difficoltà grazie a Francesca Cogni, che conosceva i primi abitanti insediatisi. Senza questa conoscenza comune probabilmente sarebbe stato più complesso un contatto diretto data la precarietà della situazione: Teepee Land è un terreno occupato illegalmente e a perenne rischio sgombero. L’aiuto di Francesca ha giocato un ruolo fondamentale nella possibilità di dialogare apertamente con gli occupanti. L’interesse, oltre alla scelta abitativa delle tende, si è subito concentrato sulla motivazione per cui avevano deciso di vivere così in una città grande come Berlino, ricca di esperienze di abitazione alternativa (House project e case vuote da occupare). Lo chiarisce Flieger mentre fa entrare Staid nella sua tenda: “Qui è diverso che vivere tra quattro mura che ti costringono, in una casa che non hai costruito e che non sa di te. Io sono arrivato e in totale libertà ho costruito la mia tenda, e vivo libero” (“Abitare Illegale, Etnografia del vivere ai margini in Occidente” di Andrea Staid, pag. 115). Un ri...


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