Riassunto Storia della Colonna Infame PDF

Title Riassunto Storia della Colonna Infame
Course Letteratura italiana
Institution Università degli Studi di Genova
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Riassunto ragionato della "Storia della colonna infame" di Alessandro Manzoni come riflessione sul tema della giustizia umana...


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Storia della colonna infame – riassunto Introduzione Si apre con polemica contro i giudici che hanno ritenuto di condannare ingiustamente degli innocenti e di ergere sulle macerie della casa di uno di loro una colonna infame, a perenne memoria del fatto. Viene poi manifestato l’intento dell’autore di narrare la vicenda degli untori già nei Promessi sposi; segue una sorta di recusatio in quanto, osserva Manzoni, l’argomento è già stato trattato da illustri scrittori, in particolare da Pietro Verri nello scritto Osservazioni sulla tortura. Manzoni precisa però che il fine della sua opera è diverso da quello di Pietro Verri: se quest’ultimo aveva inteso, attraverso la vicenda degli untori, condannare l’uso della tortura e dimostrarne l’inutilità ai fini di estorcere agli accusati la verità, Manzoni, pur condividendo le posizioni di Verri sulla tortura, pone invece in primo piano la responsabilità dei giudici di aver condannato degli innocenti. Viene rifiutata l’idea che l’epoca storica in cui sono avvenuti i fatti possa costituire un’attenuante: l’unica ragione di quanto accaduto sono le “passioni perverse”, l’aver agito in modo pregiudiziale per “trovare un colpevole” a tutti i costi sapendo benissimo che non c’era. L’uomo è libero di esercitare il proprio arbitrio, ed è chiamato a renderne conto, indipendentemente dall’epoca in cui ci si trova. Manzoni passa poi a presentare le fonti cui ha attinto per la stesura della sua opera: gli atti del processo nella sua interezza sono andati perduti, ma una parte di esso è contenuta nelle difese di Giovanni Gaetano de Padilla, uno degli imputati; di questo estratto esiste una versione a stampa e una manoscritta. Quest’ultima, più estesa, è la copia su cui aveva lavorato anche Verri, e reca molte annotazioni di quest’ultimo, oltre a brevi didascalie in latino scritte dall’avvocato di Padilla (che Manzoni citerà a più riprese nel corso dell’opera). Molte informazioni vengono poi attinte dal testo della difesa del Padilla; scarsi sono invece i documenti d’epoca che Manzoni riuscì a recuperare dall’archivio di Milano. Viene infine preannunciato l’intento di redigere una breve rassegna storiografica sul processo agli untori, per dimostrare come la maggior parte degli storici si attenne alla versione “ufficiale” dei fatti senza premurarsi di verificarne la verità. Questa occuperà il capitolo VII dell’opera.

Capitolo I Viene presentato, con grande dovizia di particolari, il fatto che fa scattare l’arresto del primo imputato del processo: una donnetta di nome Caterina Rosa, affacciandosi alla finestra, vede un uomo passare rasente i muri e, influenzata dalle dicerie popolari, concepisce il sospetto che si tratti di un untore. Si confida poi con una seconda donna, Ottavia Bono; ne nasce un passaparola che arriva fino al senato di Milano che, senza neppure avviare un’inchiesta sul fatto, e basandosi

unicamente sulle dicerie delle due donne e di altri passanti, lo prende subito per vero e fa arrestare il malcapitato, di cui nel frattempo si era scoperta l’identità. Si tratta di Guglielmo Piazza, di professione commissario di Sanità. Gli viene perquisita la casa, senza che venga trovato nulla di sospetto; interrogato sulle presunte unzioni dei muri, alla sua risposta di non saperne niente gli viene obiettato che ciò è inverosimile. E’ il presupposto per poter mettere l’imputato alla tortura.

Capitolo II Per meglio spiegare il senso e la terribilità dell’accusa di inverosimiglianza che viene fatta alla deposizione del Piazza, Manzoni dedica questo capitolo a un excursus sulla legislazione criminale dell’epoca. Vengono citati in primo luogo una serie di testi: gli statuti di Milano del 1498, la legge romana, le Costituzioni di Carlo V. In nessuno di essi è autorizzata la tortura come mezzo di prova, ma solo in presenza di indizi certi e per delitti di particolare gravità. Manzoni nota poi come la mancanza di un corpus unitario di leggi abbia dato luogo a una congerie di scritti di argomento giuridico, che propongono una quantità di precisazioni e interpretazioni spesso contraddittorie tra loro; tutto questo è funzionale a limitare, nei limiti del possibile, l’arbitrio dei giudici, fornendo loro delle “linee guida” che siano il più particolareggiate possibile, in modo da prevenire abusi di potere. Manzoni critica il giudizio negativo che dà Verri sui giuristi del passato come fautori della tortura: in realtà essi hanno cercato di limitare il più possibile l’uso indiscriminato di essa da parte dei giudici, che spesso e volentieri vi indulgevano con vero e proprio sadismo. La tesi di Verri nasceva anche da alcuni errori di interpretazione dei testi, che Manzoni individua con scrupolo da autentico filologo. In ogni caso, osserva Manzoni, le leggi, per quanto dettagliate, non possono eliminare del tutto il potere discrezionale del giudice, da cui poi dipende di fatto la loro applicazione.

Capitolo III L’accusa di inverisimiglianza che viene rivolta al Piazza è per l’appunto ciò che fa scattare la tortura. Manzoni nota però che, non solo secondo i testi giuridici del tempo, ma già a partire dal diritto romano, la tortura poteva essere applicata solo se era dimostrato da prove certe che l’imputato non avesse detto la verità, e che neppure la gravità del delitto giustificava il ricorrere alla tortura in assenza di indizi. E’ quindi evidente che, per il Piazza, i giudici cercano un pretesto per dimostrarlo colpevole. Senza neppure essere informato dell’accusa, il Piazza viene messo alla tortura una prima volta, ma resiste nel proclamarsi innocente. Il senato decide allora di torturarlo una seconda volta: l’illegittimità di questa seconda tortura è ancora maggiore di quella della prima

perché, nota Manzoni, i testi di giurisprudenza, anche i più antichi, autorizzavano la ripetizione della tortura solo in presenza di nuovi e ancora più decisivi indizi a riprova della colpevolezza dell’imputato. Ciononostante il Piazza viene torturato una seconda volta e in modo ancora più terribile, ma neppure questa volta gli esaminatori riescono a estorcergli una confessione. Viene quindi escogitato un nuovo espediente per indurlo ad assumersi la colpa delle presunte unzioni: gli viene promessa l’impunità in cambio della confessione. La promessa dell’impunità gli viene fatta ufficiosamente, senza figurare negli atti del processo, in modo da poterla poi ritirare: l’irregolarità della procedura è evidente, come nota anche l’avvocato di Padilla nelle difese di quest’ultimo. In ogni caso, Piazza viene indotto in qualche modo non solo a confessare, ma anche a rivelare il nome del suo presunto complice: l’uomo che viene ingiustamente accusato da Piazza è Giangiacomo Mora, un barbiere che, com’era abituale all’epoca, vendeva medicamenti contro la peste (questo è il motivo per cui Piazza decide di denunciarlo come fabbricante dell’unguento con cui sarebbero state fatte le unzioni). Nonostante la palese inconsistenza delle dichiarazioni di Piazza, questa volta i giudici non danno segno di notare inverosimiglianze. Il capitolo si conclude con una riflessione di Manzoni sul tema della responsabilità: responsabile è il Piazza che, benché vittima, nel momento in cui accusa ingiustamente un’altra persona diventa anch’egli colpevole; ma, prima di tutto, responsabili sono i giudici, per aver deliberatamente sottoposto alla tortura un innocente, sapendo benissimo di agire in modo illegittimo.

Capitolo IV Scatta immediatamente l’arresto del barbiere Giangiacomo Mora, anche stavolta senza alcun indizio probante, e dietro un’accusa che anche secondo i testi di giurisprudenza dell’epoca era da considerarsi nulla, perché estorta dietro la promessa dell’impunità. In casa del barbiere vengono trovati, e indicati come elementi sospetti, due vasi da notte pieni di sterco (a causa della peste, il barbiere viveva nella sua bottega per non contagiare la sua famiglia) e un secchio contenente del ranno, la mistura di grasso e cenere con cui si lavavano i panni. Il barbiere è inizialmente convinto di essere accusato di spacciare illegalmente il suo unguento medicamentoso, e per questo ne fa a pezzi la ricetta, fatto di cui poi gli verrà chiesto di rendere conto nel processo. Viene interrogato nuovamente il Piazza e messo ancora una volta alla tortura per convalidare la deposizione (la procedura del tempo prevedeva che le deposizioni dei rei confessi fossero da considerarsi veritiere solo se confermate sotto tortura); incapace di aggiungere elementi ulteriori che rendano più verosimile la sua accusa nei confronti del barbiere, Piazza fa poi i nomi di altri tre “complici”: Stefano Baruello, Girolamo e Gaspare Migliavacca (cfr. cap. VI).

Viene poi interrogato il Mora, che naturalmente si proclama innocente; segue il faccia a faccia con il Piazza, che ribadisce le false accuse nei confronti del barbiere e nomina altre due persone, Baldassarre Litta e Stefano Buzzi, come testimoni della sua amicizia con il barbiere. Manzoni nota che devono essere stati i giudici a mettere in bocca al Piazza questo ulteriore elemento, perché secondo la legge l’amicizia tra un reo confesso e il suo complice consentiva di mettere quest’ultimo alla tortura. I due nominati, però, così come pure un terzo testimone che viene interpellato, non sono ovviamente in grado di fornire alcuna informazione a riguardo. Viene interrogato di nuovo Mora, che nega di essere amico del Piazza; gli viene opposto che la sua risposta è inverosimile, sulla base delle deposizioni del Piazza stesso e addirittura, con una palese falsità, di quelle dei tre testimoni. Gli viene poi chiesto il perché abbia strappato la ricetta dell’unguento, ma anche la risposta a questa domanda viene ritenuta inverosimile, pur di avere un pretesto per metterlo alla tortura. Torturato, il Mora cede e confessa di aver preparato lui stesso l’unguento della peste con sterco, ranno e bava di appestati, per poi darlo al Piazza per ungere i muri, e di aver agito così per denaro. Quest’ultima affermazione è palesemente in contraddizione con quelle precedenti del Piazza, che aveva sostenuto di aver accettato di ungere i muri dietro la promessa di un compenso in denaro da parte del barbiere stesso: tuttavia i giudici fingono di non notare l’incongruenza e procedono con l’interrogatorio. Gli vengono chiesti i nomi degli altri complici; Mora nomina gli stessi tre che erano stati indicati in precedenza dal Piazza (i due Migliavacca e Baruello), poi viene nuovamente torturato per confermare la sua deposizione. Manzoni nota che al Mora e al Piazza vengono fatte ratificare tramite la tortura due deposizioni incompatibili tra di loro e che, in ogni caso, secondo i testi giuridici la confessione resa sotto tortura è da considerarsi valida solo se confermata in seguito. Tuttavia, quando il Mora cerca di ritrattare la sua confessione, viene nuovamente torturato e quindi rinuncia definitivamente a opporre resistenza. L’interrogatorio prosegue e al Mora viene rinfacciato come inverosimile l’aver commesso un delitto così grave solamente per un misero guadagno in denaro: Manzoni nota con sarcasmo come i giudici sembrino accorgersi solamente ora, quando la confessione è ormai stata ratificata, che la confessione, in quanto inventata, è totalmente inverosimile. Questo non impedisce però di pronunciare la condanna nei confronti del povero barbiere.

Capitolo V La promessa dell’impunità per il Piazza e la tortura del Mora hanno dato luogo a due deposizioni diverse e inconciliabili, ma entrambe ratificate. Entrambi vengono interrogati ancora una volta: al Piazza viene chiesto conto di un particolare, quello della bava dei morti, cui aveva fatto riferimento il Mora sotto tortura, e di cui quindi lui non può essere a conoscenza. Questo è il pretesto con cui al

Piazza viene negata l’impunità che gli era stata promessa. In un tentativo estremo di salvarsi, il Piazza nomina una “persona grande” (che poi si scoprirà essere il Padilla) come mandante delle unzioni. I due accusati ricevono la comunicazione degli atti del processo e vengono dati loro due giorni (uno in meno di quelli inizialmente promessi) per difendersi. A entrambi viene assegnato un difensore d’ufficio, ma quello del Mora rinuncia all’incarico perché in realtà si tratta di un notaio criminale e non di un avvocato; tuttavia va a parlare con il Mora, che ritratta la sua confessione, e riesce a ottenere che gli sia dato un altro difensore. All’avvocato del Piazza, per preparare la difesa, non vengono neppure dati gli atti del processo per intero, ma solo la parte relativa al suo cliente. Nel frattempo il Piazza fa il nome della “persona grande”: è l’ufficiale spagnolo Giovanni Gaetano Padilla, figlio del comandante della guarnigione del castello Sforzesco. Il Mora, ovviamente ignaro di tutto ciò, inizialmente in un faccia a faccia con il Piazza nega, poi, messo sotto tortura, conferma l’accusa nei confronti di Padilla, creando nuove incongruenze che però non vengono notate. Viene arrestato Padilla, il cui padre chiede di sospendere, per tutta la durata del processo, anche la condanna del Piazza e del Mora: i giudici però rispondono che non è possibile, perché il popolo chiede a gran voce dei colpevoli da mettere a morte. Il Piazza e il Mora vengono condannati a un supplizio atroce: portati su un carro al luogo dell’esecuzione, vengono torturati con tenaglie arroventate, viene tagliata loro una mano, vengono spezzate loro le ossa e infine sono scannati, bruciati e gettati nel fiume; la casa del Mora viene demolita e sulle sue macerie viene eretta la colonna infame, a perenne memoria dell’accaduto. Una volta pronunciata la condanna, i due, assistiti da religiosi, ritrattano definitivamente le loro confessioni e accuse; infine muoiono affrontando il supplizio con una dignità che Manzoni interpreta come rassegnazione cristiana, abbandono alla giustizia di Dio come unico ed estremo conforto all’ingiustizia degli uomini.

Capitolo VI La prima parte del capitolo è dedicata alla sorte dei tre personaggi chiamati in causa prima dal Piazza e poi dal Mora: i due Migliavacca, padre e figlio, e Stefano Baruello, che vengono messi a processo dopo l’esecuzione della condanna a morte dei primi due imputati. Girolamo Migliavacca subisce una sorte analoga a quella del Piazza e del Mora: torturato con il pretesto di inverosimiglianza, inventa una confessione e accusa altre persone, tra cui Baruello e il Padilla. I giudici cercano a questo punto di fargli affermare di aver avuto contatti anche con il Piazza e con il Mora (che erano già stati giustiziati), ma Migliavacca, significativamente, fa notare loro che, messo sotto tortura, confesserebbe il falso. Ciononostante, viene anch’egli condannato allo

stesso orribile supplizio. Suo figlio Gaspare, arrestato anch’egli come untore, rifiuta di confessare resistendo a tutte le torture, in nome della verità e della salvezza della propria anima. Baruello inizialmente nega le accuse che gli vengono rivolte, anche sotto tortura; condannato a morte, riceve anch’egli la promessa di impunità in cambio della confessione. Inventa quindi una storia inverosimile che ha come protagonista il Padilla: questi l’avrebbe incaricato di ungere i muri per vendicare l’offesa fatta a don Gonzalo de Cordova (in un secondo momento dirà che l’ha fatto perché voleva diventare signore di Milano). Nonostante le palesi inverosimiglianze delle sue deposizioni (Baruello arriva a fingersi pazzo), la promessa dell’impunità non gli viene revocata, ma Baruello non fa in tempo a beneficiarne perché muore prima di peste, ritrattando sul letto di morte tutte le accuse. Questo riesce a scagionare il Padilla e di conseguenza un altro accusato, Carlo Vedano, indicato come l’intermediario tra il Padilla stesso e gli untori. Quanto al Padilla, egli viene interrogato con modalità ben diverse da quelle del Mora e del Piazza, e ha così modo di esporre la propria versione dei fatti e, soprattutto, il proprio alibi (non si trovava a Milano all’epoca dei fatti commessi); seguono tre mesi di inchiesta che confermano l’innocenza del Padilla, che però viene ugualmente riconosciuto colpevole dal senato di Milano. Viene poi dato modo al Padilla di preparare le proprie difese, con un termine inizialmente di tre mesi, ma che poi arriva fino al maggio del 1632, quasi due anni dopo il suo arresto. Grazie al lavoro del suo avvocato, il Padilla riesce finalmente a essere assolto. Manzoni nota a questo punto che l’assoluzione del Padilla avrebbe dovuto significare, agli occhi dei giudici, che tutte le precedenti condanne da loro emesse erano state ingiuste; tuttavia le sentenze contro gli untori non furono mai rinnegate e la colonna infame rimase al suo posto, a perenne memoria di un crimine inesistente, fino al 1778, quando fu abbattuta.

Capitolo VII E’ una sorta di rassegna delle opinioni degli scrittori precedenti a Pietro Verri, volta a dimostrare come anche la letteratura sia stata per lungo tempo influenzata da una sentenza ingiusta. Ripamonti, il principale storico del Seicento, ha un atteggiamento ambiguo nei confronti della vicenda degli untori: se in alcuni passi sembra ammetterne la colpevolezza, in altri sembra invece mettere in dubbio la veridicità della sentenza. La reticenza di Ripamonti nasce dal fatto che egli fosse lo storiografo ufficiale della città di Milano, e quindi non avesse piena libertà d’espressione. Batista Nani, veneziano, viene indotto a credere alla versione ufficiale dei fatti dalla presenza di un monumento (la colonna infame appunto) che la ricordava. Muratori, nel suo Trattato del governo della peste, inizialmente sembra dare credito alla versione ufficiale della storia ma, più avanti, nel corso della sua opera si scaglia contro i mali che possono

derivare dalle credenze senza fondamento e contro la prassi di condannare persone innocenti facendo confessare loro delitti inventati. Manzoni insinua il sospetto che in realtà Muratori fosse ben convinto della falsità delle dicerie sugli untori, ma che abbia scelto di affrontare il problema indirettamente, esprimendo prima la versione “falsa” per poi negarla successivamente. Pietro Giannone, storico e giurista, si limita ad avvallare la versione ufficiale, sulla scia del Nani, che viene addirittura copiato senza neppure citare la fonte; per questo viene criticato aspramente da Manzoni. Segue una disquisizione sulla Storia civile del regno di Napoli di Giannone, del quale Manzoni mette in luce plagi e inesattezze storiche. Giuseppe Parini fu autore di un componimento in cui si atteneva alla versione ufficiale dei fatti e descriveva la piazza ove sorgeva la colonna infame come un luogo maledetto, contaminato dall’infamia. Manzoni osserva che non si può essere certi che questi versi rispecchiassero realmente il pensiero del Parini, in quanto la poesia – e, nella fattispecie, la poetica classicista, di cui Parini è esponente – non ha come prerogativa il vero bensì il produrre un’impressione sui lettori. Traspare qui il rifiuto di Manzoni per la finzione letteraria a favore di una ricerca assoluta del vero, di cui la Storia della colonna infame rappresenta il manifesto letterario. Ultimo citato è Pietro Verri, il primo ad accorgersi che i processi contro gli untori furono in realtà una strage ingiusta e premeditata di innocenti. Tuttavia le sue Osservazioni sulla tortura furono pubblicate solo nel 1804, quasi trent’anni dopo essere state scritte, per non scontentare il padre di Pietro Verri, presidente del senato di Milano nonché sostenitore della tortura....


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