Romanzi greco PDF

Title Romanzi greco
Author Nunzia Marullo
Course Lingua e letteratura greca
Institution Università degli Studi di Catania
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Summary

RIASSUNTI: LA STRADA DI SMIRNE, TEFTERI, MADRE DI CANE, MIDDLESEX...


Description

La strada di Smirne TRAMA: La strada di Smirne è un libro scritto da Antonia Arslan, seguito de La masseria delle allodole. La storia è ambientata nella Turchia del primo dopoguerra, quando alla tragedia del genocidio armeno si aggiunse la devastazione della città di Smirne. La storia riparte esattamente dove si interrompeva il libro precedente, La masseria delle allodole. Shushanig ed i quattro figli superstiti si sono imbarcati sulla nave che li porterà in salvo, in Italia da Yerwant. Shushanig, portato a termine il compito di salvare i suoi bambini, muore durante il viaggio, certa di potersi finalmente riunire all'amatissimo Sempad. Arussiag, Nevart, Henriette e Nubar sono accolti, con molto affetto e qualche imbarazzo, nella ricca famiglia italiana dello zio sconosciuto. Nel frattempo Ismene, Nazim ed Isacco, restati ad Aleppo, si prendono cura dei tanti orfani armeni che vagano per la città. Quando l'orfanotrofio si trasferisce a Smirne, Ismene e Isacco seguono i bambini nella città ceduta dalla Turchia alla Grecia alla fine della guerra, convinti di aver trovato finalmente un posto sicuro. Ma l'esercito turco repubblicano, guidato da Mustafa Kemal Atatürk, riconquista la città e nella devastazione che ne segue la coppia dovrà di nuovo occuparsi di salvare i bambini a loro affidati, riuscendo a farli imbarcare per l'America. TRAMA: Maggio 1915. Primo conflitto mondiale. Anatolia. Il governo dei Giovani turchi era al massimo splendore e molte vite armene erano già state spezzate nella strage avvenuta alla Masseria della famiglia Arslanian; uomini e bambini che si erano lì rifugiati qualche giorno prima, vennero brutalmente freddati mentre figlie, mogli, sorelle e madri furono obbligate ad abbandonare le proprie abitazioni per dirigersi, in una marcia mortale, verso la città di Aleppo. Tra i pochi sopravvissuti alla lunga marcia vi sono Shushanig, moglie del buon farmacista Sempad Arslanian, ucciso alla Masseria, e i loro figli scampati alla strage Arussiag, Henriette e Nubar. Giunti finalmente in città i quattro furono protetti dalla moglie del console francese, la lamentatrice greca Ismene, il religioso Isacco e il mendicante turco Nazim; questi trasformeranno i superstiti in una una perfetta famigliola tedesca per permettere loro d’imbarcarsi sulla prima nave diretta in Italia, luogo in cui sarebbero poi stati accolti dal fratello maggiore del defunto Sempad, Yerwant. Quest’ultimo, divenuto medico, presterà aiuto ai tre nipoti rimasti orfani durante la traversata in mare. Nel contempo, in Anatolia, Ismene, Isacco e Nazim iniziarono a occuparsi degli orfani armeni sopravvissuti ai rastrellamenti. Molto presto tutti i membri dell’orfanotrofio furono costretti ad abbandonare la città per dirigersi verso un luogo più sicuro; Ismene, Isacco e i bambini si sarebbero diretti verso Smirne “la bella”, la città greca che ancora riusciva a fornire protezione ai pochi armeni ancora in vita. 1918. La guerra arrivò a conclusione e un senso di pace si diffuse per le vie di Smirne, e chi era rimasto fu costretto a fare i conti con quello che la dura guerra aveva lasciato lungo il cammino. Mentre la popolazione assaporava ogni istante di libertà, nel cuore della penisola anatolica, un nuovo pericolo era in agguato... “Sprofondate nel gorgo, travolti dal Male, oscuro e occhiuto compagno delle menti degli uomini. Le vostre anime leggere sospinte da un vento che non d tregua volteggiano, come farfalle perdute scendendo gi nell’abisso. Ma ecco l’angelo ardente sguaina la spada luminosa dalla punta accecante e vi riprende ad uno ad uno dal vuoto turbine, portandovi Altrove, ai Piani Eterni, verdeggianti”. “La strada di Smirne” di Antonia Arslan viene raccontata, attraverso gli occhi di coloro che furono i protagonisti di una così grande sofferenza, uno degli episodi più emblematici che il XX secolo visse ma che tuttavia spesso dimenticò: il genocidio armeno.

COMMENTO (na specie): Antonia Arslan nel libro La strada di Smirne riprende il racconto precedente La masseria delle allodole, dando maggior attenzione ai personaggi di Ismene e Nazim. Come nel primo romanzo sono le donne che vengono valorizzate. Viene dato il giusto spazio al valore del loro tremendo ruolo. Anche nel secondo romanzo due mondi si contrappongono: le fiamme dell’inferno e la salvezza del paradiso. In Italia la guerra è lontana e la persecuzione pure, Yerwant farà di tutto per dare un futuro sereno ai suoi figli ed ai nipoti che ha accolto, a discapito della perdita dell’identità nazionale, tanto è vero che oltre a modificare il suo cognome farà di tutto per dimenticare la piccola città e ciò che essa rappresentava. Intanto Ismene cerca di salvare ancora vite e si dà da fare all’orfanotrofio tedesco di Aleppo che alla fine della guerra verrà spostato a Smirne. Per tre anni i superstiti penseranno di poter ricostruire i loro destini, illudendosi che la sconfitta dei turchi sia definitiva. Ignari si sposano (Hagop e Sylvia, per esempio), fanno progetti, cercano di recuperare i loro averi, ma ahimè vanamente. La figura più affascinante dei due romanzi, La strada di Smirne e La masseria delle allodole, è Ismene, una lamentatrice greca amica fidata di Shushanig (moglie di Sempad il farmacista). Oltre ad essere un personaggio chiave che rappresenta l’ingegno e la determinazione femminile nel superare le difficoltà, ha un misticismo a metà fra

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fattucchiera e angelo divino con una soluzione sempre a portata di mano. Come Nazim, definito dalla stessa autrice come “verosimile”, appartiene a quei personaggi creati, in un certo senso, per omaggiare la memoria di coloro che in un modo o nell’altro hanno alleviato le pene dei deportati o addirittura si sono opposti alle ordinanze del governo dei giovani turchi. Quelli che vengono definiti dal popolo armeno “I Giusti”. Antonia Arslan aveva commosso i lettori raccontando la vicenda del genocidio armeno dal punto di vista delle vittime, minoranza cattolica che viveva in Turchia. La sua elegante narrazione era stata poi trasportata sul grande schermo da un film dei fratelli Taviani, non sempre rispettoso del romanzo di riferimento, ma di sicuro impatto emotivo. Con La strada di Smirne l’odissea dei profughi armeni continua. C’è che è scampato alla morte e ha trovato la salvezza, magari in Italia, come è il caso della famiglia dell’autrice e di molti altri. Ma c’è anche chi è rimasto in Turchia e che, all’indomani della sconfitta turca nella Prima Guerra Mondiale, sogna di poter ricostituire lo Stato armeno, finalmente autonomo, oppure chi si illude di poter cerare una società multietnica dove musulmani e cristiani possano convivere serenamente. È, però, solamente un sogno. Tra chi rimane, c’è anche la prefica greca già presente nella Masseria delle allodole, sempre pronta ad aiutare – dalla sua posizione relativamente privilegiata di non perseguitata – gli armeni che devono “nascondersi come topi” e i numerosi orfani che popolano le strade di Aleppo. E c’è chi si muove dall’Italia, dove viveva da anni, rinunciando a una vita agiata e serena, immune dai problemi della persecuzione, per non rinunciare al legame con la propria terra, per non tagliare definitivamente le proprie radici: è il caso di Yerwant, che abbandona la posizione privilegiata in una Venezia sicura, alle spalle del promontorio in cui i soldati italiani combattono una lunga guerra di posizione contro gli austriaci, per cercare di ripristinare i contatti con la terra natia. Attraverso lettere recapitate per miracolo e nonostante l’avanzare del conflitto, avrà notizie del fratello minore Zareh, l’unico che continui a vivere in Medio Oriente. Intanto in Grecia le potenze alleate hanno vinto e i capi del governo dei Giovani Turchi sono in fuga; a Costantinopoli la situazione politica è rovesciata e si prepara un tribunale speciale per i crimini di guerra. Per tre anni i greci prevalgono sui turchi e gli armeni trovano la pace a Smirne: ma come avvenne a Pompei prima dell’eruzione del Vesuvio, nessuno si accorge che la grande catastrofe deve ancora arrivare. Con la sua scrittura sempre elegante, che sa emozionare senza mai scadere nel sentimentalismo, Antonia Arslan torna a raccontare l’epopea della sua famiglia e del suo popolo. Dopo la descrizione del genocidio armeno in Anatolia, ora affronta il cammino della speranza in cerca di una terra promessa, cammino che incontrerà una nuova delusione. Un sogno, quello della pacifica convivenza, che non riesce a realizzarsi, che si infrange contro la durezza del modo di ragionare musulmano, incapace di comprendere il diverso da sé, di accettarlo o di farsi accettare. Ieri come oggi, la mentalità islamica si nutre della cultura della jihad, vale a dire della volontà di imporre ad ogni costo il proprio credo religioso a tutti coloro che abitano nei luoghi dove i musulmani vivono. O dove essi emigrano.

TRAMA: La strada di Smirne racconta i fatti successivi alla deportazione degli Armeni, avvenuta nel 1916, fatti che riguardano la famiglia dell’autrice Antonia Arslan (cognome “italianizzato” dall’armeno Arlsanian). Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, racconta l’autrice nell’introduzione, la sorte del popolo armeno è segnata: Qualcuno ha deciso che la minoranza armena debba essere eliminata, gli uomini uccisi, le donne e i bambini deportati nel deserto. Nel racconto si intrecciano più storie. I figli di Shushanig , dopo un avventuroso viaggio per mare, raggiungono l’Italia, dove abita lo zio Yerwant, e si adattano con fatica a una nuova vita, sicuramente più agiata ma segnata da un dolore profondo per la perdita delle persone care. Alcuni di quelli che hanno aiutato la famiglia di Sempad (il padrone della masseria e marito di Shushanig) negli ultimi e strazianti momenti di vita della masseria delle allodole, raggiungono la città di Smirne: la lamentatrice greca Ismene, che con il prete Isacco vivrà un’inaspettata e tenera storia d’amore e si prenderà cura dell’orfanotrofio armeno, diretto da una spaesata Fräulein Nussbaum che nei due troverà dei validi e intraprendenti collaboratori. Personaggi secondari che prendono parte a queste vicende sono lo storpio Yussuf e il mendicante Nazim che sapranno ingegnarsi e trovare una via d’uscita anche nelle situazioni più complicate. Tra gli orfanelli i due più grandi, Hagop e Sylvia, forse per sfuggire la disperazione e per guardare al futuro con maggiore ottimismo, o forse soltanto per fondere le loro due anime già unite dallo stesso tragico destino, nasce un amore, delicato e nello stesso tempo vissuto in modo maturo. Nelle avversità i due ragazzi, con poca esperienza della vita se escludiamo il lato più doloroso di essa, si aggrappano a quel concetto di famiglia che non hanno mai avuto, nella speranza di dar vita ad una tutta loro. In Italia, a Padova, nella agiata casa del capostipite Yerwant, la vita scorre tranquilla. I due figli, Khayël e Wart, così diversi, sono perfettamente integrati nel bel mondo dell’aristocrazia veneta e non coltivano il sogno di rinascita del popolo armeno. Yerwant, medico ricco e stimato, pur non volendo rinunciare agli agi conquistati in terra italica, a quel sogno non smette mai di pensare e, nel 1919, quando le acque si sono calmate in Anatolia, si ripropone di risollevare le sorti della sua famiglia di origine e di far rinascere la vecchia masseria. Pensa di affidare questo compito al fratello Zareh che, fin dall’inizio, sembra gradire poco quella proposta. Nonostante le difficoltà a trovare qualcuno che possa portare a termine il progetto di rinascita della masseria, Yerwant non demorde: il piccolo Nubar, l’unico erede maschio di Sempad sopravvissuto alla strage, ha diritto di ritrovare le sue

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radici, di vivere nel luogo in cui ha passato i primi anni felici della sua vita. La masseria rinascerà dalle ceneri e lui, diventato grande, potrà tornare nella Piccola Città e continuare la professione di famiglia, diventando farmacista come il padre. O forse medico come lo zio Yerwant. I due zii, Yerwant e Zareh, intorno a lui cominciano a costruire un nuovo sogno armeno, uno spiraglio di fiducia. (pag. 147) Se ne occuperà Aris, un lontano cugino, che è sempre stato sfortunato negli affari, ma fortunato per essere sopravvissuto tranquillamente alla catastrofe, avendo scelto di vivere a Damasco, inosservato factotum di un ricco signore arabo, che lo nutre con la famiglia, ma lo paga pochissimo. (pag. 148) Non è facile leggere questo romanzo, soprattutto a causa dei numerosi personaggi, dai nomi di non immediata memorizzazione, le cui vicende si intrecciano. Anche se la Arslan pubblica l’albero genealogico che aiuta a orientarsi nei meandri di questa intricata famiglia. Non è semplice seguire gli eventi narrati, che, in una dimensione sincronica, hanno diversi protagonisti nei diversi spazi, tenendo presente anche il piano diacronico, il susseguirsi degli eventi nel tempo. Ma lo stile della Arslan, molto delicato e semplice, rende la lettura abbastanza agevole, riuscendo a trasmettere al lettore quella sensazione di essere quasi testimone egli stesso dei fatti, senza tuttavia riversare su di lui la drammaticità di ciò che accade ai protagonisti. In fondo, mentre si legge si è perfettamente consapevoli del fatto che qualcuno è sopravvissuto alla Catastrofe, e quel qualcuno ha trasmesso il ricordo perché la tragedia del popolo armeno non venga dimenticata. La narrazione procede in terza persona e il narratore conosce gli eventi, in qualche caso li anticipa con delle prolessi che vengono evidenziate, all’interno del racconto, con osservazioni scritte in corsivo tra parentesi. Narratrice, in quest’altro piano narrativo), è la bambina che è stata l’autrice la quale, una volta diventata grande, ha ricostruito la storia della sua famiglia attraverso la testimonianza dei superstiti e grazie al ritrovamento, a volte fortuito, di alcuni scritti, piccole e grandi note intrise di indicibile sofferenza.

Tefteri «Divenuto famoso come cantautore eccentrico, Vinicio Capossela ha continuato a comporre e cantare canzoni, ha continuato a vestirsi e parlare come gli pare, ma con Tefteri ha anche dimostrato di essere un autore, senza canto» Vinicio Capossela ha percorso le strade della Grecia nell’anno del tracollo finanziario. Ha incontrato quel che resta dei leggendari rebetes nelle taverne di Atene, Salonicco, Creta, catturando visioni, ebbrezze, magie e illusioni su un piccolo taccuino, il suo Tefteri. Capossela racconta una Grecia inedita, sofferente e fiera, che riscopre il rebetiko come musica della krisis. Una musica dell’assenza, nata dalla rabbia e dalla nostalgia di un popolo, quello greco-turco, che nel 1922 si trovò sradicato e straniero in patria. Rebetiko è scelta politica. Rebetiko è appartenenza. È il canto di sirena che riecheggia nei porti del Mare nostrum. Per il rebetiko non si applaude, si rompono piatti: la radice della sua forza unica affonda nel suo anarchismo. Nota dopo nota, pagina dopo pagina, il Tefteri è la trascrizione dei debiti e dei crediti che bisogna fare per «imparare il mestiere di campare». Il registro dei conti in rosso che tutti hanno con la vita e la morte. Perché, fin dall’antichità, quello che viene dalla Grecia partecipa dell’universale, ci dice dell’uomo e del suo destino, là dove è nato. Quando superò la necessità e inventò il gioco, la festa, l’arte. Quando sollevò il capo e divenne anthropos.

L'ispirazione notturna e ribelle è la cifra che unisce Vinicio Capossela e i rebetis, i fieri interpreti della musica popolare greca. Lo scrittore-musicista è andato a stanarli nelle taverne della Plaka e nei mercati di Salonicco, nei vicoli del Pireo e sotto le volte stellate di Creta e Iraklia. Tefteri , dal nome greco del libricino dei conti, quello dei negozi degli alimentari dove si segnano debiti e crediti, è il suo taccuino di viaggio. Un emozionante viaggio letterario ricco di tante piccole gemme ritrovate dentro una mareggiata. E la testimonianza di affratellamento tra gente che condivide una pena: "vivo una vita di merda e il rebetiko mi parla di me". Capossela si muove per la Grecia come un sensitivo in cerca di oracoli, nel presente malinconico di un paese in cui il default economico-finanziario, lo spauracchio che occulta una profonda piaga sociale, è lo specchio di una crisi di identità. Dove l'uomo un giorno levò il capo e proclamò se stesso anthropos tutto oggi pare agonizzare, perfino la speranza, perfino il sacro. Dov'è finito il tipico greco che si guarda nello specchio e vede Alessandro il Grande? Cinque milioni di ateniesi vivono immersi nello stesso cemento, in un posto per tutti ma che non è di nessuno. Vinicio torna viandante per camminare in mezzo alle sterpaglie del dolore e, esiliato tra esiliati, rinvenire le ultime tracce di deità, epifanie, apparizioni, simulacri. Ma diversamente da quanto capitò a Odisseo, le sirene del rebetiko oggi bisogna andarle a cercare seguendo il lamento di un buzuki e schivando le insidie del tum tum massificato, simbolo della catastrofe che arriva da Occidente. L'antro della pizia è la fumosa taverna dove si infrangono gli strati sociali, in mano

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ancora agli istinti come davanti alla morte. Musica, vino, estasi: si ride e si piange in taverna, si spaccano piatti e si balla da soli ascoltando una colonna sonora che unisce. È la musica rebetika a incarnare oggi l'essenza della grecità urbana. Serve per spurgare il dolore di cui è impregnata la società, per ritrovare la fierezza perduta, la passione di vivere. Antitesi dell'american way, è anticonformista e intimamente contestataria perché libera. Minaccia l'ordine costituito anche se non tocca temi politici. È la musica della pena, dell'hashish e della prigione, dell'amore perduto di porto in porto. Come ha detto lapidariamente Manolis Papos nel covo ateniese del Klimatarià, una musica con un vaffanculo dentro. Come e più che nel resto d'Europa, in Grecia l'economia è entrata pesantemente nella vita delle persone, disgregando famiglie e falcidiando la classe media. Ma quaggiù viene naturale leggere il destino come il copione di una tragedia. Non usano mezzi termini i rebetis intervistati da Capossela. La Grecia è il capro espiatorio dei peccati d'Europa. Di più. La Grecia è la cavia di un gigantesco esperimento: come le banche si prendono il potere ubriacando i cittadini con una "instabilità che ingigantisce il nulla". Chi sarà il prossimo? Forse bisogna fallire per ripulire tutto, arriva a dire qualcuno. Perché la crisi greca ha anche una matrice sociale e culturale. In modo forse inconsapevole, vittima di un nazionalismo classicista che l'ha spinta delle braccia d'Occidente dopo secoli di dominazione ottomana, la Grecia oggi ha bisogno di recuperare la parte orientale di sé. Nell'antico dìlima fra apollineo e dionisiaco, che come insegna la mitologia classica non possono esistere separati, a un certo punto questo paese ha espulso Dioniso, quello che urla e che beve, quello che percepisce il mondo. Dioniso "è stato relegato alla taverna dove si è asserragliato e ha iniziato a prendere in mano il buzuki". Atene, conclude Capossela, in questo momento è la città più povera e anarchica d'Europa. Ma poiché la povertà ti porta alle origini, non tutto è perduto. La sua identità resiste nella musica popolare e la sua arma è il buzuki, quella specie di mandola a forma di lacrima allungata che, come la Grecia, sta all'incrocio tra Oriente e Occidente.

Un libro scritto con passione per la materia - ovvero il rebetiko, il genere per eccellenza della musica greca - e che commuove anche per l’amore nei confronti della Grecia che emerge prepotente. Non a caso, il sottotitolo è “Il libro dei conti in sospeso” e questi sono quelli che noi, italiani ed europei, abbiamo nei confronti della Grecia, e che il cantautore ricorda nel corso di questo diario di due viaggi nel paese: il primo nel corso della Pasqua ortodossa del 2012, il secondo delle elezioni politiche dello stesso anno. Basta una frase, in risposta a ciò che da noi si ripeteva come un mantra “Non siamo la Grecia” o “Non faremo la fine della Grecia”, perché Capossela scriva: “Che peccato. Infatti non siamo la Grecia. Per questo ne abbiamo bisogno.” Il rebetiko è la chiave di volta del viaggio, perché con il rebetiko si entra nel corpo vivo del paese, di un paese che l’Europa a trazione delle banche, del capitalismo ...


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