Storia dei partiti italiani a cura di paolo pombeni PDF

Title Storia dei partiti italiani a cura di paolo pombeni
Course Fondamenti di Psicologia Fisiologica
Institution Università Europea di Roma
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1 STORIA DEI PARTITI ITALIANI Capitolo 1 I partiti nella costruzione dello stato italiano 1. PREMESSE IDEALI E PRIMI MODELLI ORGANIZZATIVI Fra il 1796 e il 1799, durante il cosiddetto triennio giacobino, gli abitanti della penisola avevano conosciuto per la prima volta la politica in quanto fenomeno...


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STORIA DEI PARTITI ITALIANI Capitolo 1 — I partiti nella costruzione dello stato italiano 1848-1870 1. PREMESSE IDEALI E PRIMI MODELLI ORGANIZZATIVI Fra il 1796 e il 1799, durante il cosiddetto triennio giacobino, gli abitanti della penisola avevano conosciuto per la prima volta la politica in quanto fenomeno collettivo, che toccava anche la sfera sociale e culturale. Se le dinamiche del potere, fino al XVIII secolo erano state appannaggio esclusivo di minoranze ristrettissime, dopo il 1976 professionisti, negozianti, artigiani, insegnati, imprenditori e poi anche le masse, erano stati coinvolti in una prima alfabetizzazione politica. Le repubbliche napoleoniche adottarono un qualche criterio di rappresentanza — per lo più territoriale e per cooptazione —, anche se i processi di discussione e voto furono limitati alle prime assemblee. Non vi furono mai vere e proprie elezioni in senso moderno, benché le nomine avvenissero all’interno di liste di idonei per censo o per capacità. Nel corso dell’età napoleonica emersero le precondizioni sociali e culturali alla politica e alla formazione di gruppi politici: • laicizzazione delle carriere di tipo amministrativo; • forte impulso alla formazione di figure professionali tecniche, destinate a importanti missioni sociali; • creazione di una vasta e diffusa pratica delle armi, per effetto delle campagne militari pressoché continue; • creazione di luoghi d’incontro per il notabilato. Il notabilato d’impronta napoleonica, il cosiddetto “blocco di granito” che reggeva l’impero nella sua fase culminante, fu il nucleo intorno al quale venne poi a svilupparsi la politica nel corso del XIX secolo. Fra il 1814 e il 1815, con la Restaurazione, molti di questi orfani di Bonaparte cercarono di riposizionarsi là dove gli spazi di autonomia si restrinsero più rapidamente — il lombardo-veneto austriaco, lo stato pontificio, il regno delle due Sicilie —, i gruppi sociali legati alla cultura napoleonica reagirono in due modi: • trasferendo l’associazionismo massonico in vendite carbonare clandestine; • tentando insurrezioni (Napoli 1820-21). Il salto di qualità fu compiuto, fra il 1831 e il 1832, da Giuseppe Mazzini. Studente universitario genovese già affiliato alla Carboneria, egli diede vita alla Giovine Italia, che può essere considerata, a seconda di come la si guardi un prototipo di partito politico oppure un’agenzia di nazionalizzazione prepolitica. Mazzini chiedeva ai suoi giovani la condivisione di un progetto nazionale e democratico, pur nella necessaria segretezza delle attività propagandistiche e dimostrative. La Giovine Italia conobbe un buon successo negli anni Trenta, prima di essere perseguitata da varie polizie e brutalmente sgominata; ciò non tolse che i giovani costretti all’esilio, fra cui Mazzini stesso, in Svizzera e poi soprattutto in Gran Bretagna, avessero l’opportunità, grazie al contatto con i più evoluti contesti politici delle nazioni liberali, di aggiornare e completare la propria formazione, adeguando il lessico e assumendo pratiche tipiche dei movimenti radicali, in particolare cartisti. Verso la metà del decennio Quaranta, la spinta di questi ceti modernizzatori si fece più forte, in coincidenza con il contemporaneo boom della prima rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Belgio, e videro la luce, in forma autorizzata o clandestina i primi pamphlets auspicanti una confederazione italiana, coordinata dal pontefice o dal re di Sardegna, capace di importare le innovazioni che stavano cambiano il volto della vita urbana e personale nella parte più avanzata del continente. Vi fu chi, come Massimo d’Azeglio, allora intellettuale e poi politico piemontese, teorizzò la necessità di una cospirazione alla luce del sole, ossia il passaggio dall’epoca della nazione si poteva parlare solo in ambito settario a una in cui i temi d’interesse comune, non necessariamente politici, avrebbero dovuto articolare l’agenda di un dibattito libero, pacifico e consapevole, capace d’influire sui governi.

2 2. IL 1848-49 Nel corso del biennio riformatore 1846-47, gli antichi stati italiani avevano conosciuto, quale più, quale meno, una fase di accelerata partecipazione dei sudditi alle vicende collettive. L’unico luogo pubblico laico ammesso, fino ad allora, era stato il teatro, che infatti aveva conosciuto un enorme successo; ora anche le piazze, i caffè, i consigli municipali divenivano spazi annessi a una discussione aperta. Le opinioni, in questa stagione di apprendimento e di ginnastica liberale, si divisero sul giudizio da attribuire alle politiche dei vari governi: non c’erano movimenti organizzati che propugnassero un programma, se escludiamo la componente mazziniana, ovviamente esclusa per la sua natura radicale e rivoluzionaria. Le pulsioni all’azione seguirono due direzioni: 1. per la componente di rango socialmente più elevato, la competizione nei parlamentari concessi dai principali stati italiani tra febbraio e marzo 1848; 2. per la componente più radicale e popolare, le insurrezioni di Milano e Venezia e poi la mobilitazione per la guerra contro l’Austria, fra marzo e agosto 1848. Entrambi i percorsi originavano dall’ampliamento della sfera pubblica del periodo precedente; entrambi toccavano tasti sensibili del dibattito, ovvero il tema nazionale e quello della rappresentanza, inestricabilmente legati lungo tutto il Risorgimento. Le camere elettive a Roma o Firenze erano espansione di élite ricche e minoritarie, spesso aristocratiche: non erano certo il frutto di contrapposizioni ideali e di una vera lotta politica. Si chiamavano camere, ma erano ancora abitate da individui che le pensavano piuttosto come consulte, luoghi in cui il re interpellava sudditi particolarmente influenti ed esperti per trarne consigli. Nello stato pontificio, dopo l’omicidio di Pellegrino Rossi, ultimo primo ministro di Pio IX, il papa fuggì a Gaeta dal Borbone e si creò un vuoto di potere, colmato, su pressione dei circoli patriottici, dalla convocazione di un’assemblea costituente di 200 rappresentanti da eleggere a suffragio universale maschile: cosa che avvenne alla fine di gennaio del 1849. La costituente, che si riunì a Roma e deluderò il 9 febbraio la proclamazione della repubblica, era formata da individui assai eterogenei: pochi aristocratici (meno di 30), oltre 50 fra avvocati e notai e una trentina fra medici e ingegneri, quasi 70 possidenti borghesi, eruditi e studiosi. In seno alla costituente emersero diverse idee, ma non veri e propri partiti: essa, tuttavia, può essere considerata come la prova generale più remota di una dialettica democratica organizzata in un’assemblea pienamente legittima, largamente suffragata dal popolo. I punti di vista riguardavano l’opportunità o meno di riprendere la guerra contro l’Austria; la natura stessa della costituente; e infine la lettura dello sforzo che si stava compiendo. A Roma non vi fu il tempo per un simile passaggio, poiché l’esperimento repubblicano si esaurì in una sconfitta. Fu redatta una costituzione, nonostante il parere inizialmente avverso di Mazzini, promulgata proprio mentre i francesi superavano le ultime difese. Mazzini riprese la via dell’esilio e continuò all’estero la cospirazione. In un solo paese, dove lo statuto concesso dal sovrano non era stato ritirato, si riuscì a compiere il salto del magma delle opinioni alla stabilizzazione di una vita politica ordinaria: nel Piemonte dei Savoia. Nel piccolo stato subalpino, che aveva assunto la guida della guerra contro l’Austria nel marzo del 1848, uscendone pesantemente segnato, la monarchia non tornò all’assolutismo, ma fu indotta dall’opinione pubblica a continuare l’esperimento liberale. Ciò consentì la nascita di partiti parlamentari.

3. L’ESPERIENZA DEL PIEMONTE LIBERALE (1848-60) Il re Carlo Alberto aveva concesso lo Statuto il 4 marzo 1848. A spingere il sovrano in questa direzione erano stati soprattutto i giornali che, approfittando della libertà di stampa, avevano cominciato a interpretare e a formare l’opinione pubblica del paese. Lo Statuto prevedeva un Senato vitalizio di nomina regia e una Camera dei deputati elettiva. Gli aventi diritto, chiamati a scegliere poco più di 200 rappresentanti in collegi uninominali, erano assai meno del 2% della popolazione poiché i requisiti di censo limitavano fortemente l’accesso alle urne. Gli eletti dovevano avere almeno trent’anni e un certo reddito, visto che non erano previste indennità per l’esercizio delle funzioni parlamentari. La Camera dell’aprile del 1848 era composta in prevalenza da avvocati (90), da aristocratici (30) e da magistrati e professori universitari (25). I democratici, all’epoca, erano i promotori di una riorganizzazione delle forze attive per continuare la lotta per l’indipendenza su un terreno militare. I moderati, viceversa, rappresentavano la

3 componente dell’assemblea interessata a rafforzare, nello stato, il nuovo regime costituzionale: essi ritenevano che ciò fosse più importante della questione nazionale, che si sarebbe potuta meglio risolvere proprio attraverso la generalizzazione, in tutta la penisola, di un’autentica cultura liberale. Dopo l’aprile del 1848, nel regno di Sardegna si votò per ben tre volte nel 1849 per il rinnovo della Camera. Fino a dicembre 1849, l’assemblea ebbe un indirizzo democratico, cioè esplicitamente nazionale. A guidare il governo fu Vincenzo Gioberti, il teorico del neoguelfismo, cioè di una confederazione fra gli stati italiani presieduta dal papa. Ora che il papa aveva provvisoriamente perduto il regno, sarebbe toccato al re del Piemonte riprendere quel cammino. Gioberti però fu poi costretto alle dimissioni. Carlo Alberto, sospinto dai sentimenti prevalenti nel paese, inaugurò una nuova breve fase militare contro l’Austria nel marzo del 1849, uscendo definitivamente sconfitto a Novara; dopodiché, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II che nominò presidente del Consiglio Massimo d’Azeglio. Nel corso del 1849, in Piemonte si tennero ben tre tornate elettorali: l’ultima, a dicembre, preceduta dal famoso proclama di Moncalieri (20 novembre 1849) con il quale Vittorio Emanuele II lasciava intendere che la via costituzionale sarebbe stata seguita a patto di chiudere la stagione della rivoluzione nazionale e di ratificare il trattato di pace con l’Austria, consegnò la Camera ai moderati, che non l’avrebbero più persa fino ad un quindicennio dopo l’Unità. Il proclama di Moncalieri segnò, quindi l’atto di nascita di una politica parlamentare di nuovo conio, che non era più solo il frutto di condizionamenti esterni ma partiva da un disegno peculiare interno: riformare lo stato, irrobustire le istituzioni liberali, non perdere l’appoggio della monarchia. I gruppi presero posto nella sala d’assemblea di Torino seguendo l’esempio della camera francese: a destra del presidente la componente più conservatrice, a sinistra quella più avanzata; al centro, un insieme eterogeneo di personalità, ancora in bilico fra il recente passato e il futuro dell’esperimento liberale. Massimo d’Azeglio, di questo ambiente peculiare, sarebbe stato il principale protagonista fino al 1852; dal 1852, sarebbe toccato a Camillo Cavour (1810-1861) interpretare tale ruolo, secondo un stile diverso. Cavour, ministro di d’Azeglio all’Agricoltura e alle Finanze, coltivava un proprio piano per la guida del partito moderato: egli incontrò sulla sua strada Urbano Rattazzi (1808-1873), espressione di quel partito democratico che aveva tuttavia chinato il capo di fronte al trattato di pace proposto dal sovrano. L’accordo fra i due — rispettivamente capi del centro-destro e del centro-sinistro — produsse la clamorosa elezione di Rattazzi alla presidenza della Camera (1852), preludio all’ascesa di Cavour alla guida del governo, lo stesso anno. Si passò quindi dalla fase dei partiti monotematici, in bilico fra opinione pubblica, monarchia e rappresentanza a quella dei partiti parlamentari, dotati di un programma di legislatura e di una proposta complessiva da avanzare presso l’elettorato. Cavour aveva portato a compimento una trasformazione per la quale, altrove, erano occorsi decenni. Ciò si doveva senza dubbio all’effervescenza intellettuale del Regno di Sardegna; all’attenzione al contesto internazionale occidentale coltivata dall’élite liberale; allpersonalità del sovrano; all’idea stessa di liberalismo di Cavour, da intendersi come forza in grado di far avanzare una politica riformatrice nel rispetto delle istituzioni, senza strappi sociali violenti. I liberali cavouriani organizzarono pure un’efficace e importante esperienza extraparlamentare: la Società Nazionale Italiana. Essa nacque nel 1857 per sostenere la politica estera del Piemonte, impegnato a stringere relazioni con la Francia di Napoleone III.

4. PARTITI IN ESILIO Mazzini aveva immaginato la Giovine Italia come un’agenzia di educazione nazionale, il che non escludeva la cospirazione e l’insurrezione: ma poté sperimentarla sul campo solo per breve tempo, vista la precoce repressione cui furono soggetti i suoi giovani, volenterosi amici. Il partito mazziniano, pur reggendosi su sottoscrizioni e basandosi su programmi, fu una struttura abbastanza fluida, benché influente. Ramificato fin nelle città periferiche e nei paesi, presso i ceti artigiani e borghesi, comunica attraverso una propria prolifica stampa le direttive del leader e il punto di vista del suo entourage. Nel corso della sua vita fondò diverse reti, dalla Giovine Italia alla Giovine Europa, dall’Associazione Nazionale Italiana al Partito d’Azione. Tutte queste strutture avevano in comune: • la natura segreta; • la trasparenza dell’obiettivo;

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• la centralità del proselitismo; • più o meno marcata vocazione all’insurrezione.

Anche il partito Mazziniano contemperò due natura: una più politica, radicale o meno, destinata col tempo a confluire in grand parte nella sinistra parlamentare del regno d’Italia e una più militare, spesso confusa, dal 1848 in poi, con il volontariato garibaldino. La sua visione fu profondamente influenzata dall’elemento internazionale: occorreva approfittare del contesto favorevole per stringere le alleanze opportune fra i popoli appressi, così come le grandi potenze facevano sul terreno diplomatico. Altro elemento caratterizzante il partito mazziniano, fu il progetto democratico pensato per l’Italia. L’idea repubblicana era accompagnata dalla necessità del suffragio universale, da un sistema rappresentativo e da un modello di società tendente a lenire il drammi del capitalismo. Aspetto più ristretto a una cerchia minoritaria di intimi seguaci era poi il disegno religioso: Mazzini immaginava una religione dell’umanità che potesse sintetizzare gli elementi morali acquisiti dalle varie religioni storiche al senso comune della civiltà: una specie di religione delle religioni. Occorre distinguere il partito mazziniano del periodo antecedente al 1861 da quello successivo: il partito mazziniano degli esuli aveva le caratteristiche sopra ricordate, mentre, a Unità conseguita, per circa un decennio (1861-1870) garibaldini e repubblicani si consolidarono nel paese, facendo leva su due questioni peculiari: la conclusione dell’unificazione territoriale (Venezia e Roma restavano escluse dal perimetro del regno) e la prima organizzazione artigiana ed operaia attraverso le società di mutuo soccorso. Diverso era l’atteggiamento delle autorità nei confronti dei rossi, allora identificati con i repubblicani di ogni gradazione: si trattava di una componente ostile alle istituzioni e dunque da espungere dal consorzio civile al pari dei “neri”, ossia dei clericali, violentemente avversi all’Italia e alla dinastia. Il quadro del decennio post-unitario era questo: nel paese, una buona presenza democratica nelle aree urbane del Centro-Nord e della Sicilia garibaldina, e una, diffusa ovunque benché organizzata per gruppi locali di notabili sostenuti dai prefetti, dei librali moderati; alla Camera, una solida maggioranza di cavouriani e una variegata componente di sinistra, spesso assai prestigiosa e dotata di solide benemerenze patriottiche, transitata verso la monarchia o prima dell’Unità con Agostino Depretis oppure subito dopo con Francesco Crispi e Benedetto Cairoli. I mazziniani di stretta osservanza uscirono dalla Camera quasi subito ed iniziarono a fare proselitismo nel paese, intorno a lui si strinsero molti ragazzi dell’ultima generazione.

5. LA DESTRA STORICA La morte improvvisa di Cavour, nel giugno del 1861, rese il parlamento italiano precocemente orfano del suo leader naturale, aprendo una stagione complicata. I moderati, artefici e beneficiari dell’operazione politica e istituzionale del 1859-61, puntavano, com’era tradizione, a consolidare le istituzioni nel solco dello stato: divennero, agli occhi dei contemporanei, la Destra. Le componenti regionali ripresero forza a scapito della visione unitaria: c’era la consorteria di Bettino Ricasoli e Marco Minghetti, d’intonazione autonomista; c’era l’ala piemontese più centralista e statalista, incarnata da Quitino Sella; c’erano i modernizzatori lombardi come Cesare Correnti; c’erano i governativi ad oltranza del Sud. La forza della Destra risiedeva nell’essere fondamentalmente l’espressione di un’unica classe sociale, la borghesia medio-alta e l’aristocrazia liberale, selezionate accuratamente attraverso il suffragio ristretto. Gli elettori negli anni Sessanta erano circa mezzo milione, ovvero il 2% della popolazione. La borghesia raccoglieva più o meno la stessa percentuale d’individui. Gli italiani erano 25 milioni e l’analfabetismo era distribuito in modo assai difforme: si andava dal 53-54% del Nord al 74-78% di Toscana ed Emilia, a percentuali oltre l’80% altrove. Il sistema si reggeva sulla paterna autorità della figura del re e dei suoi diretti rappresentanti sul territorio: i prefetti, le forze dell’ordine, l’esercito, i magistrati. La Destra storica era il partito del re e dello Statuto. A rendere omogenea la politica della Destra fu l’impegno, peraltro sostenuto soprattutto dall’élite piemontese, di dar corpo a uno stato moderno e funzionante: l’Italia aveva bisogno di perfezionare il sistema fiscale, d’investire in fondamentali infrastrutture, di detenere il monopolio della forza legittima, di dotarsi dei presupposti culturali e formativi di una nazione che pretendeva d’imitare i modelli occidentali. La durezza con cui gli eredi di Cavour applicarono questo programma discendeva direttamente da uno degli ultimi discorsi dei leader. L’autoritarismo della Destra era l’espressione di questa contraddizione, cioè della persuasione di poter insegnare la libertà a chi non la conosceva o imporla a chi non la voleva.

5 Anche in questa chiave va letta la durissima repressione del durissimo brigantaggio nelle regioni meridionali. La Destra era una federazione di gruppi di deputati, di solito organizzati su base regionale, uniti da una grande idea comune, ma assai divisi circa le modalità e i tempi di attuazione della medesima. Ebbe i suoi scandali, soprattuto intorno agli affari pubblici più lucrosi: ferrovie, monopolio dei tabacchi, liquidazione dell’asse ecclesiastico dopo la grande confisca del 1866-67. La Sinistra, poi definita Sinistra storica, era altrettanto frammentata, benché coesa intorno all’obiettivo dell’unità nazionale da compiere. Erede del democratismo risorgimentale, questa parte riteneva indispensabile prima riunire alla madrepatria il Veneto e Roma. Dopo l’Unità, la Sinistra poteva contare su meno di 80 seggi su 443. C’era una componente erede dei dibattiti torinesi, ormai pienamente inserita nelle istituzioni (Rattazzi e Depretis); ce n’era un’altra ancora legata alle camicie rosse, e quindi in bilico fra opzione politica e azione (Benedetto Cairoti, Agostino Bertani); c’era la sinistra meridionale di Giovanni Nicotera e Francesco De Sanctis, di altra tradizione patriottica; e c’era, infine, l’ala di Francesco Crispi, ammiccante al mazzinianesimo fino al 1865. La vera volta per la Sinistra avvenne dopo la sconfitta di Mentana (3 novembre 1867), quando i volontari garibaldini furono pesantemente battuti nei pressi di Roma dal corpo di spedizione francese schierato a difesa del pontefice.

6. LA NAZIONALIZZAZIONE DEI PARTITI (1870-71) Un fenomeno consente di leggere il passaggio del 1870 come davvero significativo e periodizzante per i partiti italian...


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