2 - Vereni - La Ninfa e lo Scoglio PDF

Title 2 - Vereni - La Ninfa e lo Scoglio
Course Antropologia culturale
Institution Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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Appunti sulle lezioni del professor Vereni...


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La ninfa e lo scoglio – Vereni

ANTROPOLOGIA DEGLI OROLOGI: l’antropologia culturale cerca di aiutarci a tollerare il disagio della diversità addestrandoci a prospettive interpretative per noi insolite. Non significa includere ciò che moralmente riteniamo inaccettabile, tutt’altro. È un approccio di studio che si impegna a ricostruire quale sia la prospettiva altrui senza però accettarla. Lo sforzo è più cognitivo che morale. Es. studiare il terrorismo suicida non implica mettersi nei panni di chi lo pratica, anzi magari solleva ancora più il disagio del diverso, incrementandolo più ci si sforza di comprenderlo. Quel che cerca di fare quindi l’antropologia è raccogliere lo spessore culturale che si addensa su pratiche oggettivamente registrabili e gli oggetti materiali per restituirlo in modo comprensibile. Es. personale del prof. Vecchio orologio da polso, ereditato dal nonno. Quando fa lezione lo posa sulla cattedra, per tener conto del tempo e strutturare la lezione. Se un alieno si materializzasse in mezzo alla classe, assiste alla scena del prof. che si sfila l’orologio dal polso e lo posa sulla cattedra. Cosa vede l’alieno? Vede che colloca un oggetto, metallico con vetro e pelle, e che ogni tanto ci butta un occhio. Preoccupato di fronte al mistero, potrebbe analizzarlo in ogni sua singola parte, come funziona, di cosa è fatto, come è composto, ecc. potrebbe anche spiegare in maniera i meccanismi causa-effetto che determinano i diversi movimenti dell’orologio, spiegando bene quindi come funziona. Ma non spiegherebbe a cosa serve prendere quell’orologio e poggiarlo sul tavolo, cosa ci fanno quegli umani con quegli oggetti, perché il professore lo guardava ogni tanto. Potrebbe quindi spiegare cosa è un orologio, quando è stato inventato, come è stato elaborato il concetto di tempo dagli umani, lo scandire della giornata. Se avesse avuto la pazienza di cercare bene avrebbe trovato anche una spiegazione dello storico inglese Edward P. Thompson in cui diceva che non solo il tempo veniva creato per la società industriale, ma era vero anche l’opposto, ossia che il tempo creava direttamente la società nelle sue strutture di classe: cominciando a portare gli orologi, la classe operaia iniziava a concepirsi in quanto tale, separando il tempo del lavoro da quello libero. E quel tempo veniva incorporato nella “natura” degli uomini, che imparavano a pensarsi costruiti da quei ritmi. Avrebbe poi capito che Marshall Sahlins quando fa un riferimento a una popolazione indigena della Terra del Fuoco abituato a scandire il tempo in base al ritmo irregolare della caccia, che faceva impazzire chi aveva a che fare con loro e aveva altri metodi per scandire il tempo, intendeva dire che gli umani naturalizzano un comportamento che non è altro che la conseguenza di un modello produttivo. Ma perché tenere accanto a sé un oggetto qualitativamente superato da altro? Perché poggiare un vecchio orologio che perde pure qualche minuto al giorno, che va ricaricato, invece di utilizzare un cellulare? L’unico modo che avrebbe l’alieno di rispondere a questa domanda sarebbe quello di venire a conoscenza tramite un racconto di esperienza personale del prof. in cui parla del nonno, della nonna, delle loro vite, dei suoi genitori e quindi, in qualche modo, della sua. il valore dell’orologio non è un valore materiale (non è di un brand famoso per dire) ma ha un valore spirituale, quell’oggetto è impregnato di valore simbolico, gli esseri umani si circondano di cose che non solo hanno una funzione indispensabile, il prof. non ha bisogno dell’orologio. Ha bisogno di quell’orologio perché gli ribadisce il senso di quello che sta facendo in quel momento, gli ricorda che la sua azione di insegnare alle nuove generazioni si colloca in un quadro densissimo fatto di emarginazione sociale, urbanizzazione, rapporti di classe, valori morali, legami familiari, ricordi, riscatti.

Se non ci fosse questo quadro che noi chiamiamo simbolico non avremmo bisogno di quell’oggetto come sua espressione materica. L’antropologia fa questo: ci rende consapevoli della strutturazione simbolica del reale. Non della sua dimensione simbolica, proprio della sua strutturazione. L’oggetto materiale sul tavolo è descrivibile da tutti nella sua forma materica, uno scienziato potrebbe studiarlo nella sua forma scientifica, ma per spiegare perché se lo toglie dal polso quando inizia una lezione e lo poggia e ogni tanto gli butta l’occhio bisognerebbe spiegare cosa è una lezione universitaria, come si arriva ad essere autorizzati a tenerne una, quali sono gli obiettivi di un corso, qual è il valore sociale che viene trasmesso, ecc. La riflessione politica, la filosofia morale e tanta sociologia parlano di queste cose: Potere, Stato, Lavoro, Classi, Istruzione, Sapere. Ma lo fanno con le lettere maiuscole. L’antropologia culturale invece lo fa declinando questi concetti in piccolo, nei dettagli della vita.

COSE TIPO OCHOBO: Gli esseri umani sono presbiti rispetto alla strutturazione simbolica della loro cultura, e più sono vicini alla cultura che studiano e con maggior difficoltà riescono a comprenderne le strutture di ogni significato. David Foster Wallace esemplificò raccontando una storia: la storiella del pesce anziano che dice “che bella l’acqua” ai giovani pesci e loro rispondono “cos’è l’acqua?” essendo sempre vissuti dentro l’acqua non si sono mai resi conto della sua esistenza, che è invisibile o impercettibile quando non ci si può confrontare con la sua assenza. Il vecchio pesce evidentemente era stato pescato e aveva subito il trauma di essere sospeso fuori dall’acqua, o qualche altra esperienza simile. L’antropologia culturale è quella disciplina che si impegna a confrontarci con spazi estranei all’acqua in cui siamo normalmente immersi. Remotti chiama questo il “giro lungo dell’antropologia”, andando a conoscere l’Altro, sforzandosi di comprendere quali siano i suoi orologi e il loro significato, l’antropologia torna a casa addomesticando l’esotico e de-naturalizzando il consueto: l’aria diventa pensabile, e l’acqua diventa un ambiente di cui si assume consapevolezza. Vicenda della compagnia giapponese di fast food che non capisce perché il classic burger, il loro prodotto di punta, è così poco scelto dalla clientela femminile. Perché nella media le donne giapponesi consumano molto meno classic burgers a testa dei loro connazionali maschi? La ragione del comportamento è di ordine culturale. Si può riassumere questo sistema simbolico in un’unica parola: ochobo. È il principio estetico legato alle dimensioni e alla visibilità della bocca femminile: più è piccola, più è mostrata chiusa più è graziosa, più è aperta e sguaiata più è considerata volgare perché si allontana dal canone ochobo. Il canone estetico delle giapponesi sta cambiando, sempre più donne si rifanno le palpebre, allungano il naso, ma il canone ochobo è uno di quelli che continua a far resistenza, poche donne si rifanno le labbra cosiddette “a canotto” che in Occidente invece sono considerate tanto sensuali. Ochobo mantiene la sua forza persuasiva. Qual è lo statuto ontologico di ochobo? Che tipo di ente è? Spontaneamente siamo portati a pensare che un qualcosa sia reale o irreale. -

Reale: se corro in riva al mare a piedi scalzi e mi scontro su uno scoglio, una roccia, non importa quel che credo sia vero o non vero nel mondo delle idee, non importa se io sia credente o ateo, se sono di destra o di sinistra, se sono romanista o laziale, mi farò male e lo scoglio mi ferirà. In tutta la

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sua fisica scoglitudine, che io ci creda o meno, esso si impone nella sua fisicità. Quale che sia il mio orizzonte culturale, il reale ha ampi spazi per imporsi e come homo sapiens fa parte del reale. Irreale: all’estremo opposto troviamo le ninfe, creature mitiche che non hanno mai avuto un corrispondente reale come lo scoglio, noi sappiamo che le ninfe non esistono (come gli asini che volano). Sono certamente non esistenti tramite la percezione.

Che tipo di cosa è ochobo, quindi? È uno scoglio, o una ninfa? Da un lato è evidente che non esiste, non può essere osservato né percepito, ma dall’altro c’è un intero sistema estetico giapponese, fatto di riflessioni scritte, prodotti per il trucco, posture corporali, strategie di marketing che dipendono dal fatto che i giapponesi ci credono al punto tale da condizionare le loro strategie alimentari, il che lo rende più reale di una ninfa. Questo livello è chiamato dagli antropologi sistema culturale, un livello in cui la questione ontologica non è più rilevante, mentre essenziale diventa la questione semiotica (che senso ha?) o ermeneutica (come arrivo a coglierne il senso?)

Ochobo è un elemento culturale, e come tale la sua “realtà” è del tutto irrilevante, dato che sicuramente reali (percettivamente raccoglibili) sono le conseguenze di quella condivisione. È come Babbo Natale: non importa se sono reali o irreali, quel che conta è che sono socialmente condivisi. Non si possono osservare, ma si possono interpretare. È il valore sociale a renderli “reali”. Di ogni elemento culturale va interpretato il valore sociale, ricostruirne il senso, studiare la realtà osservabile ricostruendo i sentieri che lo hanno trasmesso. L’antropologia nella ricerca sul campo va a caccia degli ochobo degli altri, l’osservazione, l’ascolto ci consentono di capire il punto di vista degli Altri. Ci fa spostare di lato rispetto alla nostra prospettiva ordinaria, e ci allinea a una prospettiva insolita, ci fa capire la sensatezza “dal di dentro”, ci fa collegare ad altri elementi culturali che non ci appartengono ma che cominciano a intravedere. L’antropologo che più ha insistito su questa dimensione interpretativa della cultura è Geertz, e uno dei racconti più memorabili è quello del mercante ebreo Cohen nel Marocco agli albori del colonialismo francese, nel 1912. Rovinato nell’onore da una banda di predoni berberi, che gli hanno ucciso due clienti in casa, Cohen si rivolge ai militari francesi per chiedere loro il permesso di riattivare il vecchio patto commerciale con lo sceicco della zona, che gli avrebbe garantito il suo diritto di rifarsi giustizia per questa violazione delle norme sociali della regione: non si interferisce con un mercante mentre ospita dei clienti in casa per una trattativa, e questa interferenza va ricompensata con un valore mercantile pari a quattro/cinque volte il danno subito, così che l’onore (‘ar) del danneggiato sia reintegrato pubblicamente. I francesi non capiscono e lo scacciano via con un “fai come ti pare!”. Cohen lo interpreta come un assenso implicito e parte a cercare giustizia. Va dallo sceicco, e raccolgono insieme una banda di compaesani parimenti stralunati per cercare vendetta. Cosa fa Cohen? Simula un furto ai predoni, scappa con le pecore e i berberi partono all’inseguimento. Quando però riconoscono a distanza la figura di Cohen, lo riconoscono e invece di inferocirsi dicono “va bene, parliamone”. La trattativa si conclude, Cohen si prende il suo ‘ar, incontra i francesi di ritorno col suo ‘ar e lo sbattono in prigione: non perché sia un ladro, ma perché lui insiste a dire che gliel’hanno donate i predoni berberi, ricercati dai francesi, e quindi sono la prova della sua connivenza con i criminali più feroci della zona. Il finto furto viene interpretato correttamente dai berberi, perché condividono lo stesso sistema di valori e lo stesso orizzonte morale, legato all’onore e alla legittimità di riscattare la sua perdita. Patteggiano per questo. I francesi non lo capiscono, non si sforzano nemmeno, e esercitano la forza lì dove manca il senso, con la spocchia del potere.

Predoni, Cohen e francesi condividono lo stesso mondo reale, ma lo interpretano in modi diversi e non sempre sovrapponibili. Tutto quello che ha avuto Geertz è il racconto di un vecchio mercante ebreo, cioè che ci ha spiegato Vereni è l’interpretazione di quello che ha capito Geertz. Questo fa l’antropologia: apre quadri di senso per cui un alieno capisce veramente cosa fa quando poggia l’orologio sulla cattedra, un giapponese capisce che Julia Roberts potrebbe costituire un canone di bellezza alternativo, un italiano potrebbe rivalutare il canone estetico della maschera okame, un predone berbero non confonde un furto di pecore ma una richiesta di giustizia. Restano fuori i militari francesi che non hanno bisogno dello sforzo avendo dalla loro le baionette e i cannoni, e posso risparmiarsi l’ermeneutica.

COSA FA DUNQUE L’ANTROPOLOGIA? Cerca di avere a che fare con la strutturazione simbolica del reale, che è un elemento costitutivo del Mondo come è vissuto dagli esseri umani. È quindi quella disciplina che presta attenzione alla dimensione simbolica della vita associata o, detto altrimenti, a questa reciproca definizione tra oggetti e persone, e può farlo almeno in tre modalità: riflessiva, etnografica, applicativa. La dimensione riflessiva si applica su pagine come queste, teoriche, oppure in testi in cui l’oggetto d’analisi diventa il metodo stesso dell’indagine antropologica. La dimensione etnografica agisce come strumento di analisi di strutturazioni simboliche esterne a sé. È l’immagine più nota, o implicitamente più riconoscibile della disciplina. La dimensione applicativa, in cui l’antropologia non “fa” antropologia ma produce altro: arte, letteratura, attraverso una prospettiva produttiva simbolica. Non si tratta di antropologia applicata, ma è quel tipo di pratica antropologica che produce a sua volta oggetti simbolici, applicando il suo metodo di lettura non solo per comprendere ma anche per produrre....


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