Appunti fenomenologia PDF

Title Appunti fenomenologia
Course Storia dell'arte contemporanea
Institution Università di Pisa
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appunti prime lezioni prof grandi ...


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FENOMENOLOGIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA LEZIONE I Il programma è centrato sulla video arte: dagli esordi della video arte degli anni ’60 e 70, fino agli sviluppi del digitale. Il focus sarà sullo sviluppo della video arte italiana dell’ultimo decennio. I primi video erano su nastro magnetico, oggi sono in digitale; verranno affrontate diverse problematiche a partire dagli esordi della video arte. Sandra Lischi è docente all’Università di Pisa, si occupa di storie e linguaggio del video; è tra le massime esperte del video. Il suo libro, Il linguaggio del video, è un piccolo vademecum propedeutico alla comprensione di cosa sia il video; viene affrontato un discorso sul video, su cos’è e perché nasce con cinema e radio, e si appoggia a teorie sulla concezione del medium video, che vede alla stregua della culturologia di McLuhan, culturologo canadese che ha coniato il medium, il messaggio (ogni messaggio che noi riceviamo è modulato e ha una sua identità a partire dal medium utilizzato per diffondere il messaggio stesso; se un tempo c’erano solo la tv e la radio, oggi abbiamo i social, le app che diffondono messaggi, e il messaggio ogni volta si confà e ha una identità in base al medium che viene utilizzato) negli anni ’60. Negli ultimi decenni, con l’avvento della comunicazione digitale, si modifica il nostro modo di vedere, percepire e vivere la realtà. Sciami è una rivista che è stata fondata da studiosi che si occupano di cinema, video, arte e teatro. Gli articoli contenuti sono collegati all’evoluzione del video e a come il video si è evoluto dagli anni ’60 agli anni ’80. Videoart Yearbook prevede una raccolta di saggi; questo libro è stato fatto nella rassegna di Videoart Yearbook, nato da un progetto fatto presso il Dipartimento delle Arti Visive dell’Università di Bologna; è una rassegna nazionale che prevede la selezione di video di artisti che vengono poi proiettati all’interno di serate presso il Dipartimento. Gli autori hanno scritto i saggi nel 2009, pubblicati poi nel primo catalogo dei primi tre anni della rassegna. L’archivio della rassegna ha circa 600 video, suddivisi per tipologie e filoni. Piero Deggiovanni insegna all’Accademia di Bologna; il suo libro è un’antologia critica, parla degli ultimi dieci anni di video, è un seguito ideale dei saggi di Videoart Yearbook, va dal 2010 al 2020. Gli artisti che Deggiovanni tratta e di cui parla sono in parte gli stessi dell’archivio di Videoart Yearbook.

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LEZIONE II Esordi del video nell’arte degli anni ’70: protagonisti, mostre, centri di produzione Le Macchine celibi è una cooperativa nata da vari studenti DAMS dell’Università di Bologna, studenti degli anni ’80 e ’90. Il primo nucleo della raccolta di “Raccolta di arte in video, le macchine celibi”, appartenente alla cooperativa delle Macchine celebi, si costituisce nel 1986. I primi video che entrano a far parte del fondo provengono dall’archivio della Biennale di Venezia, che ha acquisito anche i video di Arte/tapes/22, una delle più importanti realtà di produzione video per l’arte contemporanea degli anni ’70; da lì è partita, per quella che all’epoca era l’associazione lo Specchio di Dioniso, tutta un’attività di raccolta, reperimento di materiali video e di produzione video attraverso la documentazione di mostre e performance, e quindi una doppia attività, di raccolta video da un lato e di produzione interna sul territorio dall’altro. Particolare è l’attenzione dell’associazione, poi diventata cooperativa, ha rivolto più in generale alle arti elettroniche, anche con attività, e quindi anche la raccolta di materiali legati per esempio al Festival di videoarte di Locarno. All’interno del fondo sono presenti anche raccolte di autori della video arte degli anni ’80; è una raccolta (che è un termine più informale rispetto all’archivio). Il vantaggio è di poter preservare, grazie al digitale, materiali in corso di obsolescenza, e il lavoro degli ultimi anni è stato quello di digitalizzare i materiali per poterli valorizzare in mostre, esposizioni e conferenze. Il digitale in questo aiuta moltissimo. Come il video è entrato nelle vicende dell’arte contemporanea? Carlo Terrosi, presidente della Cooperativa, è uno dei curatori della rassegna Arte, video e tv, che è stata fatta nel 1995 e nel 1996, in collaborazione con Rai3. Il supporto VHS è meno stabile rispetto alla pellicola, e molti materiali video sono andati perduti. Molti materiali in possesso della Cooperativa sono andati danneggiati e in parte perduti. Arte/tapes/22 è un centro creato da Maria Gloria Bicocchi a Firenze, dove è anche nato Bill Viola, che ha cominciato come operatore e montatore a fare video con Bicocchi, e nello stesso tempo lì sono stati prodotti numerosi video. In parallelo al centro di Firenze, c’era anche il Centro di Videoarte di Ferrara, a Palazzo dei Diamanti, quindi un altro luogo che è nato nei primi anni ’70 dove si faceva sperimentazione video. Il video è uno dei filoni produttivi di cui gli artisti si sono impossessati in maniera forte, soprattutto negli ultimi anni, perché l’arte non comprende più solo pittori e scultori, e i nuovi media, soprattutto il video, sono tra i primi ad entrare nella produzione artistica. Il video è trasversale, non è solo qualcosa che concerne l’arte, molti artisti lavorano nel mondo della televisione, oppure lavorano con i videoclip musicali. Le prime sperimentazioni fatte con i mezzi avevano anche un’aria naif. L’arte degli anni ’70 mostra come il video ha fatto il suo ingresso. Il video monocanale non è concepito come installazione, ma come ricerca in cui la riflessione avviene all’interno dell’immagine video, e quindi può essere adattata a varie collocazioni e trasmissioni. Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 sono importanti alcune esperienze americane. In Italia poi si è sviluppata un’intensa attività legata al video, con importanti riflessioni teoriche e critiche, che si sono anche poi confermate negli anni, con diverse pratiche. Quella che è considerata la prima mostra statunitense totalmente legata al video è TV as a Creative Medium, quindi l’idea della televisione come mezzo creativo; a questa mostra hanno partecipato alcuni autori americani che poi sono rimaste però figure circoscritte a poche esperienze di quegli anni, fatta eccezione per Nam June Paik, che è uno dei più importanti artisti attivi nel campo del video, pioniere della video installazione. Nam June Paik realizza per la mostra l’esposizione di TV Bra for living sculpture, è un reggiseno composto da due monitor attivi, indossato da Charlotte Moorman, violoncellista che in alcune occasioni esegue e accompagna le performance progettate da Paik. Qui siamo in una situazione ibrida, qui c’è una confluenza di esecuzione performativa, la violoncellista, e di immagine video che entra all’interno dell’azione coinvolta insieme al resto, quindi non c’è ancora una ricerca interna all’immagine video, c’è l’idea di un’immagine video che si integra all’azione. L’opera di Frank Gillette e di Ira Schneider, Wipe Cycle, è composta da nove televisori attivi; i due artisti saranno importanti per l’attività redazionale della rivista Radical Software, la prima rivista americana interamente dedicata all’uso del video come mezzo artistico e mezzo politico. All’epoca il video era 2

impiegato come mezzo alternativo alla comunicazione ufficiale e gerarchizzata della televisione, e il video per gli attivisti era il mezzo per costruire un’informazione alternativa. Nel 1968 viene coniato lo slogan “VT is not TV”, ovvero che il video non è televisione, per distinguere, pur nella familiarità sul piano tecnico tra i due mezzi (il video è derivato indipendente dal punto di vista tecnico della televisione), le loro diverse funzioni. Questa è un’idea che andrà avanti per molto tempo, anche fino agli anni ’90 gli attivisti e gli artisti considereranno il lavoro svolto sul video come lavoro di opposizione rispetto alla televisione: come dice la Lischi, il video da un lato diventa la coscienza stessa della televisione, diventa lo spazio indipendente dove ripensare i linguaggi televisivi e orientarli verso altri messaggi (quindi si allontana dalla televisione), ma dall’altro lato il video guarda alla televisione per alimentarsi delle soluzioni pratiche, operative e visive sperimentate nel linguaggio televisivo. La rivista Radical Software raccoglie moltissimi contributi, uscita soltanto fino al 1974 in undici numeri, è una rivista di ispirazione della disciplina di McLuhan, perché uno dei fondatori insieme a Gillette e Schneider era Paul Ryan, uno dei collaboratori di Marshall McLuhan, quindi è interessante per via del fatto che ci rifacciamo convintamente alle teorie di McLuhan. La rivista è interamente consultabile online, sul sito radicalsoftware.org, ed è possibile scaricare tutti i numeri in PDF, quindi si può entrare in contatto con materiali di non facile reperibilità, perché erano riviste indipendenti e quindi circolavano pochissime copie (la dissidenza verso la politica dei repubblicani, incarnata da Nixon, presidente a quel tempo, era molto sentita dagli artisti; nonostante la politica fosse più rivolta verso l’esterno del paese, si parlava di guerra, differentemente dalla situazione italiana, in cui il 1968 riguardava la politica interna, si rivolgeva anche ad alcune tematiche interne). L’uso precoce del termine software è interessante: negli anni ’70 l’informatica si era già avviata, ma non era diffusa, e il software viene inteso come sinonimo di video, quindi come dimensione di immagine materiale. Un’altra mostra importante è Body Works, curata nel ’70 da Willoughby Sharp, presso il Museum of Conceptual Art di San Francisco. Non esiste un catalogo della mostra, ma solo un intervento critico di Sharp sulla rivista Avalanche, rivista di cui lui stesso è stato fondatore e direttore dal 1970 al 1976. Questa è una mostra interessante perché afferma quello che sarà il rapporto principale tra video e arte negli anni ’70, cioè quello della performance: l’idea che i lavori sul corpo siano veicolati attraverso il video è una veicolazione del rapporto stretto tra video, corpo e performance in quegli anni. Gli anni ’70 sono gli anni del comportamento, gli anni della smaterializzazione dell’arte: gli artisti abbandonano la concezione dell’arte come opera, come oggetto materiale e manufatto, per utilizzare strumenti informativi come scrittura, video e fotografia, quindi strumenti smaterializzati. Il video si presta bene perché l’immagine video è un’immagine immateriale, in movimento e instabile, perché soggetta a irregolarità e variazioni continue, e dà così l’idea di software. Vi è quindi la convergenza tra due concetti antitetici: da un lato la fisicità primaria e più opaca e tonica, e dall’altro l’idea di immaterialità. La mostra Body Works coinvolge artisti importantissimi di quegli anni. Il video di Dennis Oppenheim, che ha esposto alla mostra di Sharp, non ha audio, perché inizialmente i primi video non hanno una parte audio. La ricerca che Oppenheim sviluppa a partire da questo video, e poi per tutti gli anni ’70, è considerata come poetica del feedback, perché qui l’artista, aiutato dal figlio, cerca di replicare sulla parete il disegno che il figlio traccia sulla sua schiena: è un pretesto per riaffermare l’idea di concentrazione sul corpo, l’idea di concentrazione sulle sensazioni tattili e tentare di ricodificarle e ritradurle. Il feedback dà quindi l’idea del segnale di ritorno, un concetto fortemente legato al video, perché dà un impulso, quello del figlio che traccia col disegno sulla schiena, che il padre cerca di replicare sulla parete, in modo ingenuo e spartano, ma è un’idea di software, l’idea di ragionare per impulsi che vengono tradotti ed estesi con una sorta di estensione di segnale, con una soluzione e rudimentale, ma efficace. Il video dura circa 10 minuti, e in generale i video degli anni ’70 hanno delle durate abbastanza estese, nonostante la monotonia dell’azione che vanno a compiere, ma è anche un’esigenza dettata dalle ricerche di quegli anni, quindi l’idea di una estenuazione dell’attività fisica, che era un modo di mettere alla prova il proprio corpo, e quindi si parla in questi anni di performance di resistenza. Quindi in modi più sofferenti ed invasivi, o in modi più sommessi (come in questo caso), l’idea è quella di un’operazione di concentrazione sull’attività corporale, quasi con atteggiamento meditativo e ritualistico (sono forti i rapporti tra la performance e la ritualità, indagati in questi anni da teorici del teatro e della performance). In questo periodo spesso il video non ha un contenuto narrativo, non ha un plot come un film, quindi spesso ci troviamo davanti ad azioni ripetute o a un concetto espresso e comprensibile nei primi minuti del video. 3

The Kitchen è uno dei centri di produzione più noti a livello mondiale, un laboratorio fondato da Steina e Woody Vasulka, artisti di origine europea trapiantati in USA, nel 1971 presso il Mercer Arts Center a Manhattan. È un centro interessante perché i fondatori si rendono conto che le sperimentazioni video hanno bisogno di supporti tecnici: gli artisti a queste date non hanno ancora l’autonomia di lavorare con questi mezzi, quindi hanno bisogno di rivolgersi a un’equipe specializzata in grado di utilizzare gli strumenti e di supportarli anche nelle scelte più pratiche e logistiche. I due fondatori, che sono artisti, decidono quindi di diventare anche produttori. Una figura interessante che nasce con i video è quella dell’artista-produttore, quindi un artista autore dei propri lavori e poi produttore dei lavori altrui; è una mentalità cooperativa propria dell’arte contemporanea. Nel 1973 il centro si sposta a SoHo, dove resta fino al 1986, e poi si stabilisce definitivamente nella West 19th Street, dove è ancora oggi. The Kitchen è inoltre l’unico centro di produzione video ancora attivo, anche se è cambiato nel corso del tempo, ed è stato un esempio importantissimo anche per l’Europa, e ha coinvolto artisti di tutto il mondo. Nel 1971 The Kitchen coinvolge Hermann Nitsch, un artista austriaco; nel 1977 viene invece realizzata la prima personale di Robert Mapplethorpe, quindi il coinvolgimento anche di un fotografo. Nel 1979 viene realizzata la mostra New Music/New York, un grande festival che raduna nomi di spicco della performance del tempo, e nel 1981 viene realizzato Aluminium Nights. The Kitchen ha sempre avuto un’apertura anche verso la musica sperimentale, e questi sono gli anni in cui si affinano anche le tecniche legate alla musica elettronica, e inevitabilmente c’è una convergenza delle due linee di ricerca, e i Vasulka lo hanno capito subito, andando a coinvolgere nella gestione del centro anche dei musicisti sperimentali o elettronici. Il video spesso si accompagna con contenuti musicali di natura elettronica, in virtù della medesima natura e dell’origine condivisa che musica elettronica e video hanno, nascendo proprio dalla tecnologia elettronica. I Vasulka sono autori interessati alle potenzialità dell’elettronica, più che al video recording: raramente utilizzano la registrazione video. È interessante, nei rapporti tra video e musica, il fatto che la prima operazione che realizzano è la registrazione del concerto di Jimmy Hendrix, nel 1969, con dei primi rudimentali effetti: documentano il live e cominciano a intervenire con delle alterazioni del video che vanno a spalmare la figura di Hendrix sull’immagine, in un modo di intensificare anche il gesto performativo del musicista. Machine Vision è uno dei più noti allestimenti realizzati dai Vasulka a The Kitchen, che raduna alcuni dei dispositivi della visione sperimentale progettati dagli stessi autori. Molti videomaker nati nell’ambito della produzione di videoclip si sono spostati nell’ambito artistico e viceversa. C’è una contaminazione molto frequente tra videoarte e musica, e i tempi del videoclip hanno fatto evolvere i linguaggi e le modalità del video, riguardo ai tempi, riguardo al montaggio ravvicinato, riguardo alle modalità d’intervento sull’immagine. Wharol aveva già cominciato a fare cose con la musica e i video, ma i suoi non erano video, poiché usava la cinepresa, bensì erano riprese fatte su pellicola. Nell’elettronica degli anni ’90 sono persistiti l’immaginario e l’idea di una instabilità e alterazione disturbante dell’immagine attraverso una distorsione sonora e visiva che troviamo nei video dei Valuska negli anni ’70; è all’interno di queste esperienze che troviamo queste prime alterazioni, come anche nel video Tissues, sempre dei fratelli Valuska (sonorità e idea di deformazione). Questa è pura sperimentazione, non è inserito all’interno di una narrazione o di un’immagine più articolata, però sono momenti in cui è inevitabile passare per fasi così radicali, e mettere a punto delle soluzioni che poi si ritrovano anche negli autori degli anni ’90 e 2000, però inserite in un tessuto più narrativo o dotato di una maggior articolazione simbolica, mentre qui siamo all’interno di una sperimentazione che definisce l’immagine come processo e che si interroga sulle proprietà fisiche e sulle specificità del mezzo, con un approccio quasi analitico. Tutti questi video vengono realizzati in analogico, sono le prime sperimentazioni fatte su nastro magnetico, non su digitale; col digitale poi cambia tutto, agli inizi degli anni 2000. Oggi molti artisti fanno montaggio di immagini live, vengono fatti con musicisti elettronici che univano le musiche a delle immagini che rielaboravano e proiettavano su delle statue o degli elementi architettonici, come quello fatto alla Certosa monumentale di Bologna. La performance musicale si intreccia quindi alla rielaborazione di immagini. Il passaggio dagli esordi, quando le sperimentazioni erano ancora povere e quasi disturbanti, in bianco e nero, con un’idea di testare e sfidare il mezzo, di capire fino a che punto si poteva azzardare. Il discorso cinematografico è diverso, perché la cinematografia ha basi più storiche, e il film, che deve essere legato a un 4

plot, difficilmente si spinge verso una sperimentazione così estrema, e quindi il video consente di estremizzare la sperimentazione. Le immagini dei fratelli Vasulka hanno poi una componente fortemente organica: pur rimanendo all’interno di una sperimentazione radicale sull’immagine video, quindi sugli impulsi e sui segnali, c’è anche un’apertura verso l’organico che sarà poi ereditata dall’immaginario musicale elettronico degli anni ’90. In Europa la prima esperienza significativa di impiego del video nella ricerca artistica è Land Art, una raccolta di documentazioni di azioni realizzate dagli artisti della Land Art, quindi Walter de Maria, Smithson e altri. Gerry Schum è un gallerista tedesco che si interessa immediatamente alle potenzialità documentative del video, e quindi decide di realizzare e documentare le operazioni di Land Art. La Land Art è una delle correnti degli anni ’70, che vede gli artisti operare direttamente su delle estese zone (deserti e non solo), in cui intervengono modificando la conformazione della zona e del territorio; sono operazioni che si legano all’idea di rapporto uomo-ambiente che si fa più intimo attraverso l’intervento diretto. Il limite di queste operazioni sta anche nella possibilità di fruirle come se si andasse a una mostra: sono mostre site specific, non possono essere spostate, e quindi l’unico modo di farle conoscere è documentarle e quindi veicolare e trasmettere i risultati di queste azioni. Il 15 aprile 1969 viene presentata alla galleria di Gerry Schum la selezione di opere di Land Art. Questa selezione viene erroneamente considerato il primo impiego del video in campo artistico in Europa, perché in realtà le documentazioni sono realizzate in pellicola 16mm, e solo dopo vengono convertite, per comodità, su video tape; il video, quindi, entra in gioco solo in un secondo momento, solo per una motivazione pratica e logistica. L’occasione in cui si impiega davvero il video per la prima volta è la mostra che si è tenuta nel gennaio del 1970 a Bologna, che, nello spirito del tempo è intitolata Gennaio ’70, organizzata da Barilli e con i contenuti critici di Calvesi e Trini. Questa è la prima volta in cui delle azioni vengono realizzate appositamente per essere trasmesse all’interno della mostra, e lo stesso Schum riconoscerà questo primato: nel 1972 Schum riconosce ch...


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