Autobiografia di Marina Abramovic \"Attraverso i muri. Un\'autobiografia\" PDF

Title Autobiografia di Marina Abramovic \"Attraverso i muri. Un\'autobiografia\"
Author Ilaria Faedda
Course Fenomenologia dell'arte contemporanea
Institution Università di Bologna
Pages 46
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Summary

Riassunto dell'autobiografia di Marina Abramovic "Attraverso i muri. Un'autobiografia"...


Description

MARINA ABRAMOVIĆ Attraversare i muri Un’autobiografia Non avrei mai potuto attraversare i muri da sola. Non esistono ostacoli insuperabili se si ha forza di volontà e se si ama ciò che si fa.

Cap. I È incredibile come la paura venga costruita dentro di te dai tuoi genitori e dagli altri che ti circondano. All’inizio dei innocenza pura; non sai nulla. Marina Abramović nasce il 30 novembre 1946 in un luogo oscuro: la Jugoslavia postbellica. Dalla metà degli anni Quaranta fino agli anni Settanta il regime era quello della dittatura comunista, sotto il comando del maresciallo Tito; tutto ero grigio, ogni casa ed ogni spazio pubblico trasudavano la sensazione di oppressione e depressione. La Belgrado del tempo, dal colore giallo-verdognola, era stretta a tutti fuorché alla famiglia della giovane artista. LA FAMIGLIA I genitori di Marina erano eroi di guerra – combatterono i nazisti con i partigiani comunisti guidati da Tito – e dopo la guerra diventarono membri di rilievo del partito. VOJIN, il padre, entrò a far parte della guardia d’élite del maresciallo Tito DANICA, la madre, era a capo di un istituto che sovrintendeva i monumenti storici ed era anche direttrice del museo di arte e rivoluzione Per questo motivo godevano di molti privilegi, abitando in un grande appartamento nel centro di Belgrado che in passato apparteneva a una ricca famiglia ebrea alla quale era stato confiscato durante l’occupazione nazista. L’incontro tra Vojin e Danica Il padre e la madre di Marina vissero una storia d’amore da favola, salvandosi la vita a vicenda durante la Seconda Guerra Mondiale. La madre aveva il compito di trovare i partigiani feriti e portarli al sicuro; il padre combatté nella tredicesima divisione Montenegro, un gruppo di partigiani specializzato in attacchi mordi e fuggi contro i tedeschi. Una volta, durante l’avanzata tedesca, Danica si prese il tifo e venne salvata da Vojin che la portò al sicuro in un paese vicino, dove le cure dei contadini la rimisero in sesto. Sei mesi dopo Danica era di nuovo al fronte e tra i feriti riconobbe subito Vojin, al quale prestò il suo sangue per una trasfusione che gli salvò la vita. I due si divisero un’altra volta, ma quando la guerra finì si ritrovarono e si sposarono. La nascita di Marina Il parto fu prematuro e difficile, tanto che Danica rischiò ancora una volta di morire. Per questo stesso motivo lei rimase per un anno in ospedale e anche dopo essere tornata a casa non ebbe le forze di badare alla figlia. Marina, infatti, prima venne affidata alla donna di servizio e subito dopo alla nonna, dalla quale rimase fino all’età di sei anni, quando nacque il fratello Velimir.

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Un matrimonio sempre in crisi Il matrimonio dei genitori di Marina entrò in crisi quasi subito: i due erano uniti da un’incredibile storia d’amore, ma erano profondamente diversi. Danica era di famiglia agiata ed era un’intellettuale: aveva studiato in Svizzera. Vojin veniva da una famiglia povera di grandi combattenti: suo padre era maggiore pluridecorato dell’esercito. Per Danica il comunismo era un concetto astratto, una posizione ideologica e alla moda mentre per Vojin era una scelta obbligata e sentita con grande senso civico. Insomma, non avevano nulla in comune e fin dal principio Vojin – che era un grande amante delle donne – fu sempre infedele. La vita di Marina iniziò a peggiorare notevolmente: le mancava la nonna, i suoi rituali e la casa che sapeva di caffè appena tostato; odiava il fratello, primogenito preferito e lodato in quanto figlio maschio; i genitori litigavano sempre e quando non litigavano, neppure si parlavano. Il matrimonio dei due era una guerra: non si scambiavano mai segni di affetto ed entrambi dormivano con una pistola carica sul comodino. Neppure il Natale ortodosso (7 gennaio) osservato dalla nonna, pur con molta cautela (celebrare il Natale all’epoca era molto pericoloso), riusciva a stemperare il clima. Ancora oggi mi risultano insopportabili le persone che alzano la voce per la rabbia. Quando qualcuno lo fa rimango completamente paralizzata. A volte grido durante le mie performance. È un modo per esorcizzare i demoni. Le punizioni Marina veniva spesso punita dalla mamma e dalla zia con botte e schiaffi che le lasciavano degli evidenti lividi sulla pelle. Quando non veniva picchiata, veniva manata in una specie di ripostiglio segreto (che in serbo si chiama plakar), al buio e da sola: tuttavia, lei stava lì con l’idea di condividere quello spazio con altri spiriti e fantasmi, presenza lucenti con le quali parlava. E gli stessi erano presenti nei pulviscoli dei raggi del sole, che Marina amava osservare quando giocava. Il padre, al contrario, non la picchiava mai, ed in generale non puniva nessuno. Sangue e disciplina Una delle cose che hanno sempre fatto paura alla Abramovič è il sangue, il suo sangue. Quando perse il suo primo dente da latte l’emorragia durò ben tre mesi. Dovette stare in ospedale per degli accertamenti per un anno: fu il momento più felice della sua vita. Alla fine i medici si accertarono che questo episodio potesse essere collegato ai maltrattamenti che la bambina subiva. Lei, infatti, era tenuta a subire le punizioni senza lamentarsi. Forse, la madre voleva addestrarla ad essere un soldato proprio come lei: i veri comunisti avevano una determinazione spartana. Ho imparato la mia autodisciplina da lei, e ho sempre avuto paura di lei. Inoltre, Danica era ossessionata dall’ordine e dalla pulizia: da un lato poteva essere un lascito della sua esperienza militare; dall’altro poteva essere una reazione contro il caos del suo matrimonio. La sua ossessione mise le radici nell’inconscio della figlia, che dormiva perfettamente immobile la notte e faceva sogni ricorrenti che riguardavano la simmetria: lei stessa temeva che la sua nascita avesse distrutto la simmetria del rapporto dei genitori. Il suo nome era stato scelto dal padre, in memoria di una soldatessa russa di cui si era follemente innamorato durante la guerra ma che era stata uccisa da una granata davanti ai suoi occhi. Danica mal sopportava quella forma di nostalgia e probabilmente mal sopportava anche la figlia.

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L’arte Fin da quando aveva sei/sette anni, la Abramovič sognava di diventare un’artista. La madre la incoraggiò verso questa direzione, se non altro perché per lei l’arte era sacra, predisponendo nella casa una stanza nella quale Marina potesse dipingere. I primi soggetti dei suoi quadri furono i suoi sogni, che ai suoi occhi erano più reali della realtà in cui viveva. Inizialmente utilizzava solo due colori, il verde scuro e il blu notte, verso i quali ammette di aver avuto un’attrazione quasi innata. Marina seguiva anche lezioni di pianoforte, inglese e francese. Non le era permessa nessuna libertà, fuorché quella di espressione. Per ordine della madre, che amava la cultura francese, lesse Proust, Camus, Gide e per ordine del padre tutti i russi. Quando leggevo un libro, ciò che mi stava attorno smetteva di esistere. Scompariva l’infelicità della mia famiglia […] Mi affascinavano le storie estreme […] Non dimenticherò mai uno strano racconto di Camus intitolato Il rinnegato o una mente confusa. […] Ero fortemente attratta da Kafka […] Leggere Rilke, d’altro lato, era come respirare puro ossigeno poetico. In particolare, ricorda Il settimo sogno, un libro che raccoglie il carteggio tra Rilke, la Cvetaeva (Tsvetaeva) e Pasternak. La scuola, la pubertà e l’adolescenza Quando Marina era piccola, a scuola la storia dai partigiani era una materia di grande importanza: dovevano conoscere nomi, battaglie, fiumi, ponti. Quando si compivano i sette anni, si diventava “pioniere” del partito e ad ognuno veniva dato un fazzoletto rosso da mettere al collo, si insegnava la marcia e si insegnavano gli inni al comunismo. A 12 anni ebbe le prime mestruazioni e le prime sensazioni disorientanti. Con la pubertà le vennero anche le prime emicranie: sua madre non parlava mai delle sue e non pronunciava mai delle parole di conforto per la figlia. Erano dolori fortissimi che duravano ventiquattr’ore e che si traducevano in diarrea e vomiti, il che rendeva la loro sopportazione molto dura. Marina si allenò quindi a rimanere immobile in certe posizioni – che sembravano alleviare il dolore – e ricorda questo come l’inizio del suo allenamento per accettare e vincere il dolore e le paure. A quattordici anni la madre diventò delegata della Jugoslavia presso la sede UNESCO di Parigi e stette là per mesi. Il padre le costruì un’altalena in casa, le regalò una rivoltella per il suo compleanno, si mostrò, in generale, incline ad assecondare i suoi desideri affinché la figlia non riferisse a sua madre ogni cosa. Ma lei sapeva già tutto. Per lungo tempo Marina provò un grande senso di disagio nei confronti della sua famiglia, come quando la scuola organizzò uno scambio con la Croazia e lei si vergognò profondamente della mancanza d’amore a casa sua. La sua adolescenza fu triste e infelice, si sentiva la ragazza più brutta della scuola: era goffa, alta e magra con un forte imbarazzo per il suo naso (che avrebbe voluto avere come Brigitte Bardot, l’allora icona di bellezza). La madre non le comprava mai i vestiti che desiderava ed era stata costretta ad usare delle scarpe ortopediche che le costarono l’allontanamento da una parata con Tito perché le si era rotto un pezzo di metallo sulle suole. I suoi compleanni non erano giorni di festa e si sentiva sempre più sola e incompresa. All’età di sedici anni prese a scrivere tristi poesie sulla morte, ma in famiglia non si toccava mai l’argomento specialmente davanti alla nonna – alla quale erano riusciti anche a nascondere l’avvento della guerra in Bosnia. 3

A diciassette anni, suo padre se ne andò via di casa e non tornò mai più. Marina ebbe quasi un crollo nervoso, attutito solo dal fatto che da loro si trasferì la nonna. La cucina divenne il centro del suo mondo, ed era proprio lì che raccontava i suoi sogni alla nonna, la quale era molto interessata sui loro significati. Lei, viceversa, le raccontò la sua vita, svelando di non avere un buon rapporto con Danica, che per le sue scelte ideologiche aveva devoluto tutti i loro beni al partito come segno di fedeltà. La nonna, inoltre, era molto superstiziosa, compiva dei riti che poi la Abramovič avrebbe visto fare in Brasile (dove era andata per studiare lo sciamanesimo), che per lei rappresenteranno una messa in contatto con la propria vita interiore e i suoi sogni. L’incontro con Filipović All’età di 14 anni Marina chiese al padre gli strumenti per poter dipingere ad olio. Lui comprò tutto l’occorrente e le fissò una lezione con un suo vecchio amico e artista partigiano, Filipović. Durante la prima lezione, lui poggiò una tela a terra, la riempì di colla, sabbia, pigmenti, ci versò della benzina e la fece esplodere. “Questo è un tramonto”, disse. E se ne andò. Solo in seguito Marina capì l’importanza di quell’esperienza: le insegnò che ad essere importante era il processo non il risultato, così come la performance per lei acquisterà più significato dell’oggetto. Marina continuò a dipingere finché un giorno, sdraiata sull’erba a guardare il cielo, vide 12 jet militari che lasciavano scie dietro di sé. Ebbe un’illuminazione: comprese che essere artisti significava avere l’immensa libertà di lavorare con qualsiasi cosa, non solo nelle due dimensioni. Gli anni dell’accademia di belle arti di Belgrado Malgrado quella epifania Marina non smise di dipingere, entrando nell’Accademia di belle arti. Frequentò un corso serale per prepararsi al test di ammissione e si accorse, durante il corso di nudo, di provare un grande imbarazzo nel guardare il corpo maschile. Anche la madre aveva uno strano atteggiamento nei confronti del sesso e non voleva che la figlia perdesse la verginità prima del matrimonio né che lo facesse senza lo scopo di procreare. Marina non andava mai alle feste dei suoi compagni, Danica la costringeva a tornare a casa per le 10. Per un caso fortuito (dovuto al fatto che una delle sue amiche non poteva andare ad un appuntamento e mandò lei per disdirlo) uscì con un ragazzo, Predrag Stojanović, del quale si innamorò e con il quale perse la verginità all’età di 24 anni. Avevo ventiquattro anni. Vivevo ancora con mia madre, che pretendeva che fossi a casa alle dieci di sera. Ero ancora sotto il suo totale controllo.

Cap. II Mentre annegavo, non riuscivo a smettere di pensare a mio padre che si allontanava senza girare la testa. […] Smisi di bere e in qualche modo, a furia di agitare le braccia e scalciare, risalii in superficie. È così che i partigiani insegnavano a nuotare ai loro figli. Ancora arte e il ‘68 Marina entrò all’accademia di belle arti e continuò a dipingere. Lo faceva perlopiù per soldi, i quadri le venivano commissionati e li realizzava senza sentimento, in maniera kitsch. La madre ne era molto orgogliosa, lei terribilmente imbarazzata. In accademia praticava uno stile accademico: nudi, nature morte, ritratti e paesaggi ma ben presto si interessò alla rappresentazione di incidenti stradali. Nel 1965 realizzò un quadro che lei stessa dice essere una pietra miliare, Tre segreti. Nella sua semplicità mostrava tre drappi ma coinvolgeva lo spettatore nell’esperienza artistica. Introduceva incertezza e mistero. 4

Poi venne il ’68. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la Jugoslavia aveva separato il suo destino dall’Unione Sovietica, proclamandosi stato comunista indipendente. Tito aveva promosso un culto della personalità e il partito unico era diventato una sentina di corruzione, con tutti i funzionari che si acaparravano ricchezze e privilegi, mentre i ceti operai vivevano nel grigiore e nella depressione. Quell’anno a Belgrado crebbe la disillusione nei confronti del Partito comunista. D’un tratto si intuì che fosse tutta una finta. Non si aveva né libertà né democrazia: il padre di Marina si dimise dal partito comunista, denunciando la borghesia rossa jugoslava e tutto quello che rappresentava. Nella capitale in molti sostenevano le manifestazioni degli studenti e in quanto presidente del partito dell’accademia di belle arti, Marina faceva parte del gruppo che occupava il loro edificio. Elaborarono una petizione in 12 punti in cui chiedevano: la libertà di stampa e di espressione; chiedevano la piena occupazione; l’innalzamento dei minimi salariali e una riforma della lega dei comunisti in senso democratico. Nella nostra società non devono esistere privilegi. La cultura deve essere separata dalla logica del profitto; e si devono creare le condizioni perché arte e cultura siano accessibili a tutti. Questa rivendicazione mirava alla creazione di un centro culturale studentesco la cui sede sarebbe dovuta essere in un edificio dove i membri della polizia segreta andavano a giocare a scacchi e le loro mogli a spettegolare. Marina partecipò con molta determinazione alla causa con la convinzione che se il governo non avesse accettato tutti i punti avrebbero dovuto andare fino in fondo con barricate, scontri a fuoco. Ma gli altri si dissero indifferenti rispetto al risultato: per loro era già tutto finito, avrebbero accettato qualunque risposta. Marina si sentii profondamente tradita ma per fortuna Tito pronunciò un discorso trascinante e intelligente, nel quale elogiava gli studenti per il loro impegno politico, accettava quattro punti della petizione e concedeva il centro culturale. Il Gruppo 70 e la specializzazione a Zagabria Dopo le manifestazioni, Marina e cinque colleghi di corso cominciarono a vedersi regolarmente, anche se in modo informale, per parlare di arte. Ciò di cui parlavano ossessivamente ormai non aveva più a che fare con la pittura: si trattava di come fare entrare nell’arte la vita stessa. In Occidente, in parallelo con i sommovimenti politici e la musica pop, anche l’arte stava cambiando radicalmente: cominciarono a prendere piede nuove idee, come l’arte concettuale e la performance. Alcune di queste idee filtrarono in Jugoslavia, dal movimento italiano dell’Arte povera che trasformava in arte oggetti di tutti i giorni, dal movimento Fluxus in Germania, anticommerciale e antiartistico, in cui spiccavano le performance provocatorie di Joseph Beuys. C’era un gruppo sloveno chiamato OHO che rifiutava di separare l’arte dalla vita; organizzavano performance già nel 69 come quella intitolata Cosmologia che David Nez fece a Lubiana: stava sdraiato all’interno di un cerchio tracciato sul pavimento, con una lampadina accesa sopra lo stomaco, cercando di respirare in armonia con l’universo. Traendo ispirazione dal loro esempio, in quello stesso anno Marina propose al centro giovanile di Belgrado un lavoro dal titolo Venite a lavarvi con me che l’avrebbe impegnata a lavare i panni dei visitatori; l’idea venne bocciata. Durante l’ultimo anno in accademia, Marina si innamorò di Neša, uno dei membri del gruppo, con il quale cominciò a stare insieme. Nella primavera del 1970, si diplomò all’accademia con un punteggio di 9,25 su 10, dal giorno si poté fregiare del titolo di “pittore accademico”, un complimento strano e ambiguo. Poco dopo il diploma Marina andò a Zagabria, a specializzarsi seguendo un seminario del pittore Krsto Hegedušić, famoso per i suoi quadri raffiguranti contadini sullo sfondo di campi di grano ben delineati (una specie di versione slava di Benton). Sebbene non fosse il suo genere, a lei piaceva 5

molto e le disse due cose che la colpirono particolarmente. La prima era “Se diventi così brava con la mano destra da riuscire a fare un bel disegno a occhi chiusi, devi subito cominciare a usare la sinistra per evitare di ripeterti”. La seconda era: “Non devi compiacerti di avere troppe idee. Se sei un bravo artista, può darsi che tu abbia un’idea buona; se sei un genio, può darsi che tu ne abbia due. Punto”. La cosa che però Marina apprezzava di più era la possibilità di stare fuori di casa. Purtroppo però era lontana anche da Neša e tra i due era decisamente lui a soffrirne di più. A Zagabria c’erano anche altri suoi compagni di accademia, tra cui Srebrenka, una ragazza croata, buia e depressa, che minacciava sempre il suicidio. Lo fece. Quando Marina tornò a casa dal funerale iniziò a diluviare, si sedette sul letto e le parve di vedere Srebrenka. Dopo questa esperienza si convinse sempre più che quando si muore, a morire è solo il corpo, la sua energia però non scompare – semplicemente assume forme diverse. Non si sentiva più a suo agio nella sua camera di Zagabria: era ora di tornare a Belgrado. L’SKC e Drangularium Alla fine la polizia segreta e le loro mogli se ne andarono, e i ragazzi dell’accademia poterono entrare nel loro centro culturale, noto anche come SKC. Incredibilmente, venne nominata direttrice una giovane che si chiamava Dunjia Blažević, una storica dell’arte che aveva avuto la possibilità di viaggiare per il mondo e di conoscere l’arte, partecipando a grandi eventi come Documenta, allora sotto la brillante egida di Harald Szeemann. Tornò a Belgrado ispirata e frenetica, e organizzò la prima mostra dell’SKC, intitolandola Drangularium, “collezione di cianfrusaglie”. La finalità era invitare gli artisti a esporre, più che vere e proprie opere d’arte, oggetti quotidiani per loro significativi; l’idea era debitrice all’Arte povera italiana. Il contributo di Marina si ricollegava ai dipinti con le nuvole che stava facendo quel periodo: prese un’arachide con il suo guscio e la fermò al muro con un chiodo sottile, facendola sporgere dalla parete il tanto di creare una sottile ombra (Nuvola con la sua ombra). L’arte a due dimensioni apparteneva davvero al passato. Quell’opera apriva una dimensione completamente nuova. Il chiaroveggente di Zagabria A Zagabria, Marina incontrò un chiaroveggente molto famoso e rinomato che leggeva il futuro da delle tazzine di caffè turco. Le predisse che avrebbe avuto successo in tarda età, che avrebbe lasciato Belgrado. Le disse che prima sarebbe andata in un paese importante per l’inizio della sua carriera; che avrebbe poi ricevuto un invito a tornare a Belgrado e che avrebbe dovuto accettare il lavoro. Le disse che l’avrebbe aiutata un uomo di nome Boris, che aveva vissuto una tragedia terribile. Le disse che avrebbe dovuto cercare un uomo che la amasse più di quanto lei non amasse lui, ma aggiunse che avrebbe ottenuto i maggiori successi da sola, perché gli uomini avrebbero creato solo ostacoli. Un paio di a...


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