Caius Iulius Caesar - F. Costabile - Diritto Romano (IV ANNO) PDF

Title Caius Iulius Caesar - F. Costabile - Diritto Romano (IV ANNO)
Course Diritto Romano (IV anno)
Institution Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria
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CAIUS IULIUS CAESAR – DAL DICTATOR AL PRINCEPS (F. COSTABILE) CAPITOLO I CAIUS IULIUS CAESAR: con tale nome indichiamo non solo Cesare (il dictator) ma anche colui che noi moderni chiamiamo Ottaviano (che diventerà Augusto, il princeps). CAESAR era un cognomen derivante dalla parola cartaginese “caesa”, elefante, poiché si narra che un antenato del dittatore ne aveva abbattuto uno durante una delle guerre puniche. [da rifiutare la tesi che sostiene che il nome derivi dal parto “cesareo”] Nel ’44 Cicerone riporta che Ottaviano già si faceva chiamare Cesare dai suoi fedelissimi ma paventava il rischio che questo potesse mettere in cattiva luce il nuovo Cesare di fronte all’ordo senatorius, che voleva evitare il rischio di un nuovo potere assoluto. Ma nel contempo vi era un altro “Cesare” nella persona di Tolomeo XV, il figlio che lo stesso Cesare aveva avuto da Cleopatra, appunto chiamato “Cesarione”. Si narra allora che Ottaviano, meditando su cosa fare con il figlio naturale del suo padre adottivo, si fece influenzare dalle parole del filosofo Areio “non è bene che vi sia una moltitudine di Cesari” (la frase è una citazione metrica dell’Iliade in cui vi era la parola “capi”) e lo uccise nel 30 a.C, temendo che questi potesse pretendere una successione iure sanguinis. Dal 27 a.C. assume dunque il titolo di IMPERATOR CAESAR AUGUSTUS, che consacra definitivamente il nome gentilizio dei Cesari a Roma. CAPITOLO III Cesare, ad Ilerda in Spagna nel 49, parla di fronte al suo esercito e a quello di Pompeo schierati, accusando Pompeo e gli optimates di diversi abusi e illegalità.

Cesare rimproverava infatti a Pompeo di aver mandato in Spagna sei legioni e di averne arruolata sul luogo una settima, senza che vi fosse un effettivo bisogno, essendo quella regione da tempo pacificata, se non perché fossero sfruttati contro Cesare. Per lo stesso motivo Pompeo aveva istituito due imperia che gli avevano permesso di restare capo del governo a Roma e nel contempo reggere le province (le due Spagne) senza però mettervi piedi, inviandovi dei legati che però erano persone private perché decadute delle cariche da almeno un quinquennio (lex Pompeia de provincis ordinandis -> c.d. intervallum). Cesare dunque sostiene di aver iniziato la guerra civile penetrando in Italia non per compiere malefatte ma per restituire la libertà a sé e al popolo romano. Inoltre la lex Pompeia de iure magistratuum sanciva l’obbligo della presenza a Roma per potersi candidare per cui annullava l’accordo di Lucca del 56 che avrebbe consentito a Cesare di potersi candidare a Roma senza dover deporre l’imperium proconsulare sulle Gallie. Cesare avrebbe potuto citare a danno di Pompeo casi ben più gravi di quelli che addita quali violazioni dei principi di democrazia ed eguaglianza cioè la violazione dell’imperium ex lege Gabina ed ex lege Manila de Bello Mithridatico, ma non le richiamò, non solo perché lo stesso Cesare aveva approfittato di imperia proconsolari straordinari nelle Gallie ma soprattutto per il fatto che questi casi erano piuttosto obsoleti (perciò non convenienti politicamente). Cesare dunque rimprovera a Pompeo, nel solo intento di danneggiarlo, di aver creato imperia di un genere mai visto, che contraddiceva il principio di divisione dei poteri e il divieto di cumulo delle cariche dell’ordinamento repubblicano degli ultimi quarant’anni, per cui il titolare dell’imperium consolare non poteva anche avere l’imperium proconsolare nelle province e, restando a Roma, esercitarlo attraverso legati. [Pompeo aveva dunque avuto un mero rispetto formale della costituzione

repubblicana ad es. riunendo il senato fuori del pomerium, nel portico del suo teatro]. Tali circostanze devono essere ovviamente inserite nel contesto storico in cui si sono verificate perciò le violazioni “costituzionali” rimproverate a Pompeo non ci sembrano contradditorie poiché Cesare non aveva ancora proceduto a fare ciò che rimproverava a Pompeo (successivamente infatti nominerà Lepido magister equitum che gli consentirà di amministrare la Spagna e la Gallia per legatos). CONTRADDIZIONE dell’Adlocutio di Ilerda: Cesare prima rimprovera a Pompeo di aver trovato pretesto per volgergli contro nuove legioni di pacificare le Spagne, che erano invece assolutamente quiete, ma dall’altro gli rimprovera di esser stato assente da quelle provincie ispaniche benché fossero bellicose.

CAPITOLO IV C’è da chiedersi se ad Ilerda Cesare avesse già in mente o meno il progetto di una autocrazia. In concreto Cesare adattò il suo agire alle circostanze senza venir meno a talune costanti di fondo e dunque a un disegno politico complessivamente coerente, ma quale disegno? Nel 49 egli afferma di non aspirare ad alcun extraordinarius honor, nonostante successivamente tale affermazione non sarà rispettata, e anzi esorta ai senatori di assumere il governo dello stato e amministrarlo insieme a lui, se loro non vorranno lui l’assumerà da solo. Lemaire osserva dunque come Cesare ostenta una parvenza di moderazione ma in realtà aspira alla dittatura e ciò lo si rinviene dalle confidenze che egli faceva ai suoi, da noi conosciute grazie all’epistolario ciceroniano. Inoltre è ben noto come Cesare non si faccia problemi a definire pubblicamente lo Stato repubblicano come un vuoto nome, nihil esse rem publicam, appellationem modo sine corpore ac specie.

Possiamo dunque credere che Cesare abbia avuto, probabilmente non dall’inizio della sua attività politica, ma almeno fin dal suo primo consolato, un intimo disprezzo della res publica senatoria e delle sue forme, ma è da rigettare la tesi dell’esistenza ab origine di un preciso piano politico di eversione di quel sistema e di una sostituzione. Addirittura Cesare sembra non aver concepito neanche l’ineluttabilità della guerra civile, che egli intraprese solo per salvare se stesso dalla morte, almeno politica, e che lo portò a restare padrone assoluto della situzione e a maturare, solo allora, repentinamente, un vasto ed organico disegno di riassetto dello Stato romano. Ed è in questo quadro che si inserisce anche la misericordia o clementia Caesaris, strumento di attrazione per gli incerti e per i nemici, sicuramente segno dei modelli morali di clementia e moderatio, che Cesare apprende dalla filosofia epicurea.

CAPITOLO V Sintomatica di un nuovo potere personale in bilico fra tradizione romana e concezioni alessandrine fu la monetazione del dittatore. Nel ’44 infatti si ritiene che gli fu concesso da un senatus consultum di riprodurre il suo ritratto sulle monete, ciò che mai era avvenuto prima per alcun uomo in vita. E’ però più probabile che il senato gli abbia conferito solo l’epiteto “pater patriae” con il diritto di riportarlo sulle monete e che, avendo dalla sua i monetales, questi abbiano preso l’iniziativa di rappresentarne il volto, poiché nessuna legge lo vietava per il semplice fatto che fosse impensabile. Questa iniziativa, comunque, non fu sgradita a Cesare, forse addirittura sollecitata. Altro importante riferimento monetale è quello relativo alla dea Venere, da tempo propagandata come progenitrice della gens Iulia. Nei denari cesariani Venere è infatti raffigurata non come dea dell’amore ma, del

tutto insolitamente e per la prima volta, come dea marziale, con il seno scoperto, non più per evocarne la sensualità (Venus Genetrix) ma per sottolineare l’abbigliamento amazzonico, che lo portavano scoperto per avere maggiore libertà di movimento in battaglia. La dea dunque, pur restando Genetrix, è qui dea combattente in prima persona, novità iconografica sicuramente dovuta all’iniziativa di Cesare, che probabilmente volle superare una precedente raffigurazione di venere nel tempio edificato sul teatro di Pompeo, in cui l’immagine non era armata essendo la vittoria discretamente allusa da una palma. Infine nella monetazione, al posto del globo liscio, si trova una sfera armillare, chiara allusione alla cosmocrazia del dittatore ma anche alla riforma del calendario da lui elaborata. Tutti riferimenti che si possono inserire in un programma ideologico figurativo di una monarchia di tipo alessandrino, di cui mai Cesare si fece in prima persona portatore, ma giustificate come iniziative dei suoi seguaci.

CAPITOLO VI Cicerone, che non perde occasione per esaltare Cesare, era però uno di quelli che avevano usufruito della misericordia, avendo scelto di non rinunciare alla vita per conservare quella dignitas, che nell’ideologia senatoria era data solo dalla libertà politica, come aveva invece dimostrato con coraggio Catone dandosi la morte a Utica, ricevendo per questo l’appellativo di Uticense. Ma Catone intende esaltare la libera civica degli optimates, avendo un pregiudizio di minorità nei confronti del popolo. Minorità politica che invece Cesare attribuiva proprio al senato, rappresentandosi verso i patres conscripti con atteggiamento paternalistico (pater patriae).

CAPITOLO VII Si comprende quindi al meglio la sostanza monarchica del suo regime, per cui in Oriente questi non fece altro che accogliere le spontanee manifestazioni di riconoscimento della sua divinità, in Occidente, invece, attraverso la strada delle allusioni i suoi monetales ne esaltarono la generi divina e l’origine “provvidenziale” della sua fortuna militare, piegando gli strumenti tipici della propaganda politica alle sue esigenze autocratiche. Da qui la c.d. dicotomia Siberiana, per cui Cesare sarebbe stato solo un dictator per l’Italia e per Roma ed invece un monarca orientale nelle province e in Oriente, come Dio Rivelato. Sebbene questa dicotomia è riferibile non tanto a Cesare, per cui la divinizzazione è un fatto meramente spontaneo, ma ad Augusto. Per questo motivo i moderni considerano Augusto il primo imperatore sebbene nelle fonti, in Svetonio, si fa iniziare le “vite dei 12 Cesari”, dalla figura di Cesare, quel Divus Iulius, che aveva dato il proprio cognomen come gentilizio dei principi. Tuttavia l’assunzione della dittatura perpetua nel 44 a.C. quando solo da due anni possedeva quella decennale, non aveva alcuno scopo pratico ma solo un valore politico ed ideologico di rottura e superamento della tradizione della res publica senatoria. Cosìcche quella che prima si poteva alludere fosse destinata, extra ordinem gerendorum honorum, al ripristino della libertas senatoria, assumeva inequivocabilmente la forma di una nuova autocrazia. Questa pretesa autocratica, unita alla sua notoria clementia che aveva risparmiato i suoi maggiori nemici politici, lo portò irrimediabilmente alle Idi di Marzo del 44 a.C.

CAPIYOLO VIII Il 23 Settembre del 44 mentre si celebravano i giochi in onore di Venere indetti da Cesare prima della morte, comparve nel cielo di Roma una

stella straordinariamente luminescente per ben nove giorni. Si pensò trattarsi dunque dello spirito del dittatore assunto in cielo fra gli dei. La stella prese il nome di Sidus Iulium e fu subito aggiunta alle monete con il ritratto di Cesare. Sebbene attribuita per credenza popolare a Cesare, Plinio il vecchio riporta che secondo la credenza popolare fu l’anima di Cesare ad essere stata assunta in cielo, Ottaviano, dentro di sé, era convinto fosse nata per lui e che lui nascesse in essa, essendo sorta nel suo giorno natale, sanciva dunque la sua nascita politica. Intimo pensiero che riflette la natura stoica di Augusto, profondamente diverso dall’epicureo Cesare. Vi è una incongruità riguardo la data in quanto in alcune fonti si rinviene che la data sia anticipata al 20 Luglio, questo è però comprensibile per il fatto che i giochi erano stati indotti dallo stesso Cesare due anni prima di morire, nella data del 23 Settembre e che solo dopo entrò in vigore la riforma del calendario da lui stesso elaborata che probabilmente ne anticipa la data al 20 Luglio.

CAPITOLO IX Il dibattito sulla natura tirannica o “repubblicana” del Principato passa anche da un passo delle Res Gestae (XXXIV 1), in particolare a seguito del ritrovamento di un frammento nel Monumentum Antiocheum da parte di Paola Botteri. Prima, infatti, si riteneva vi fosse “per consensum universorum [potitus reru]m om[n]ium” ma, a seguito del ritrovamento, è stata corretta in “[po]tens re[ru]m om[n]ium”. Sebbene, a mio avviso, si debba sostituire il “potens” con “potiens”, non solo avendo riguardo all’aspetto epigrafico, ma anche, e soprattutto, al significato letterale. Superato dunque il “potitus”, tesi a lungo sostenuta dal Mommsen, che avrebbe significato un “impadronirsi del potere”. L’abbandono di questo

termine perciò non comporta un mero dettaglio lessicale ma produrrebbe la caduta dell’idea dell’ammissione di un “colpo di Stato” da parte di Augusto, cioè dell’acquisizione del suo potere in modo irregolare ed in un unico momento storico. Il passaggio a “potens” o, ancora meglio, a “potiens” non lasciano dubbio sul significato di onnipotenza, comunque conseguita, del tutto indipendentemente dalla fonte e dalla legittimazione del potere. Anzi, in molte fonti notiamo come potiens rerum viene associato ad una situazione di fatto considerata perfino illegittima. E’ per questo che Augusto sente l’esigenza di dichiarare che egli è onnipotente sì perché la vittoria gli ha lasciato in mano tutto l’impero, ma ciò comunque per universale consensus. Egli, facendo ricorso a tale espressione, e marcandola con l’aggiunta di omnium intendeva accentuare la generosità e l’eccezionalità del gesto d’aver restituito al senato ed al popolo quel potere sullo Stato, che si era concentrato in lui del tutto casualmente, dopo la morte di Antonio, con cui l’aveva prima condiviso. Questo perché tutti gli eserciti, italici e provinciali, che l’avevano portato alla vittoria, insieme all’intero universo romano, acconsentivano all’assolutezza del suo potere (monarchico, nel verso senso della parola) di cui era rimasto l’unico padrone. La nuova lettura “potiens” contrasta con il problema della restitutio rei publicae, rivisitato grazie alla scoperta dell’aureus di Augusto in cui si legge leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, con cui si ritiene che Ottaviano abbia proclamato il “ripristino dei poteri al popolo Romano”. L’aureus dichiara che Ottaviano ha restaurato (restituit) leges et iura del popolo romano, mentre le Res Gesta affermano che ha trasferito (transtuli) la res publica dal suo potere alla discrezione del senato e del popolo romano. Nei due testi è diverso non solo il verbo, ma anche l’oggetto: nelle Res Gestae Ottaviano vuole esprimere l’idea della

riconsegna delle funzioni decisorie agli organi di governo tradizionali, senato e popolo, mentre nell’aureus menziona solo il popolo. In R.G. XXXIV 1, Augusto, afferma che il trasferimento della res publica al senato ed al popolo avvenne nel suo VI e VII consolato, trattandosi dunque di un’operazione comportante due atti distinti che si svolsero sia nel 28 sia nel 27. Ciò lo si evince anche dall’iconografia dell’aureus in cui vi è Ottaviano con in mano un papiro che si è ritenuto stesse leggendo, ma si nota come la capsa sia chiusa e dunque sia in atto la restitutio di leges et iura. Svetonio, infine, riporta come Augusto due volte meditò di restituire la Repubblica: la prima dopo la morte di Antonio (datata dunque tra il 30-28 a.C.) e la seconda durante una lunga malattia (quasi certamente quella che colpì Augusto nel 23 a.C.). A me sembra però contraddittorio che Augusto nel 28-27 a.C. doveva ancora reddere la res pubblica perciò si deve riconoscere nel 27 a.C. il termine post quem non per la datazione dell’editto svetoniano. La dottrina del XX secolo si è interrogata spesso sulla natura del principato augusteo, talora identificandolo con una diarchia senato-principe (questi come tutore della plebe), talora con un protettorato del princeps sull’ordinamento repubblicano o ancora con un vero e proprio dominato o una monarchia. Il principato di Augusto però non si presta ad essere ridotto a schemi: esso appare come una condivisione ineguale (a favore del principe) del potere fra l’uterque ordo e l’imperatore. Si presenta dunque come una forma particolarmente complessa di governo, più di qualsiasi alyta storicamente determinata da pecuiliari fattori contingenti e che portarono ad avere una lenta e graduale evoluzione verso forme di dispotismo illuminato, ottimamente colte dalla figura di Augusto. Si nota infatti come, nel 28 a.C., Augusto, ancora condizionato dalla presenza nell’esercito e nell’ordo equester di quei populares cesariani, dai

quali aveva avuto appoggio, seguiva ancora la traccia ideologica del dittatore defunto, battendo le monete con su scritto “Libertatis populi Romani vindex”; ma oltre quarant’anni dopo, quando quella generazione si era ormai estinta, redigendo il suo testamento politico nel 13, il vecchio principe sostituisce con astuzia Libertas rei publicae a Libertas populi Romani, accentuando sottilmente la connotazione senatoria della definizione. Augusto, dunque sintetizza perfettamente i diversi valori ideologici del termine libertas, riprendendo in chiave propagandistica tanto l’accostamento alla respublica, tipico degli optimates, quanto il riferimento alla libertas populi Romani, peculiare dei populares. Il nuovo Cesare, perciò, da triumviro si guardò bene dal perseguire quella linea di misericordia, che aveva mal ripagato il vecchio. Ma, diventato Augusto, dispensò con ogni larghezza le dichiarazioni propagandistiche (nella monetazione e nelle Res Gestae) di una clementia così scarsamente praticata. Così egli, rifiutando la dittatura e le magistrature offertegli “contra mores maiorum” ed ostentando sommo rispetto per il senato, pretende d’aver restaurato la democrazia senatoria repubblicana ma in realtà persegue, con un cinismo che Cesare non aveva dimostrato, l’opera del grande dictator perpetuus nello svuotarne i contenuti e nel ridurne a pura forma l’effettività del potere. Augusto instaura una ipocrisia ed un conformismo di stato che, al contrario di Cesare, lo faranno morire nel suo letto. Alla sua morte, sebbene volesse cooptare Marcello, Tiberio e perfino Agrippa, in una “scelta del migliore”, premortigli, prescelse, i giovani nipoti Gaio e Lucio Cesari, segno di una volontà del princeps di una successione dinastica. Ma una atrox fortuna, che gli strappò i due nipoti adottati come figli, lo costrinse a cooptare Tiberio nella tribunicia potestas.

CAPITOLO X Il nuovo Cesare, appresa la lezione del cesaricidio, accettò solo modalità oblique di culto divino, almeno in suolo italico, dimostrandosi sempre attento al rispetto delle forme repubblicane. Il principato augusteo adottò infatti l’ideologia della libertas repubblicana, che pretese di aver restaurato. Dal 31 al 23 il principe rivestì ogni anno il consolato e fino al 28 mantenne il titolo, ormai paradossale, di triumviro. Il 13 gennaio 27 dichiarò in senato di ritenere di aver adempiuto al suo compito, deponendo i poteri eccezionali che la coniuratio totius Italiae, il giuramento di fedeltà prestatogli dall’Italia intera per la guerra contro Antonio e Cleopatra, gli aveva consegnato e desiderava di tornare a vita privata perché il governo poteva essere meglio esercitato da molti che da uno solo. Un senato servile lo supplicò di conservare il potere di governo. Augusto provvide dunque a costruire la sua immagine in coerenza con questa farsa, differenziandone gli attributi secondo il luogo e il pubblico a cui questa era destinata. Da qui la definizione di Grande Camaleonte, confrontatosi: - ad Alessandria, nel 30, con Alessandro come solo kosmokrator e theos. - in Grecia, a Nicopoli, facendo costruire un tempio che riprende la morfologia architettonica dell’Altare a Pergamo per celebrare la vittoria di Eumene II contro i Galati. Ma nello stesso monumento di Nikopolis, Augusto, non esita ad evocare anche Pericle, nell’immaginario collettivo riconosciuto come il campione della democrazia, ritenendosi campione della repubblica. - anche nelle province, in particolare in quella parte d’Italia che era stata la Magna Grecia, Augusto sfruttò il fatto che il suo bisnonno era nato a copia Thurii (oggi in Calabria), città anticamente fondata da Pericle nel 444 a.C., riprendendo nelle sue monete il toro

scalpitante e cozzante, simbolo della città, per esaltare l’origine turina del fondatore del principato. - a Roma il prin...


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