Capitolo 1 e.Gilson la fil nel medioevo PDF

Title Capitolo 1 e.Gilson la fil nel medioevo
Author Giuliana Colajanni
Course Storia della filosofia medievale
Institution Università degli Studi di Palermo
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Summary

riassunto del primo capitolo del GILSON...


Description

Introduzione

Il cristianesimo è una religione; gli scrittori sacri, servendosi talvolta di certi termini filosofici per esprimere la loro fede, cedevano a una necessità umana, ma al significato filosofico di questi termini ne sostituivano uno religioso. Ridotta all’essenziale, la religione cristiana si fonda, ai suoi inizi, sull’insegnamento dei Vangeli, cioè sulla fede nella persona di Gesù Cristo. I Vangeli di Matteo, di Luca e di Marco annunciano al mondo una buona novella: un uomo è nato in circostanze meravigliose, aveva nome Gesù; ha insegnato che egli era il messia annunciato dai Profeti d’Israele, il Figlio di Dio, e l’ha provato con i suoi miracoli. E Gesù ha promesso la venuta del regno di Dio per tutti quelli che osserveranno i suoi comandamenti. Gesù Cristo stesso è morto in croce per riscattare gli uomini; la sua resurrezione ha provato la sua divinità ed egli verrà di nuovo per giudicare i vivi e i morti e regnare con gli eletti nel suo regno. Non una parola di filosofia in tutto questo. Il cristianesimo è una dottrina della salvezza e per questo è una religione. La filosofia è una scienza che si rivolge all’intelligenza e le dice quel che le cose sono, la religione si rivolge all’uomo e gli parla del suo destino. Per questo, d’altronde, le filosofie greche, influenzate dalla religione greca, sono filosofie della necessità, mentre quelle influenzate d alla religione cristiana saranno filosofie della libertà. Il momento critico si porrà verso la fine del XIII secolo, quando il mondo occidentale dovrà scegliere tra il necessitarismo greco di Averroè e una metafisica della libertà divina. Nel principio del Vangelo di Giovanni vediamo comparire tutta una serie di concetti le cui risonanze filosofiche sono innegabili, e, innanzitutto, quello di λόγος (lόgos) o Verbo. In principio era il Verbo; egli era presso Dio; tutto è stato fatto da lui; in lui era la vita e la vita era luce degli uomini. Questo concetto greco di λόγος è manifestatamente di origine filosofica ed era stato già utilizzato da Filone d’Alessandria. Ma qual è il suo significato all’inizio del IV Vangelo? Si può ammettere, come spesso si è sostenuto, che un concetto filosofico greco si sostituisce al Dio cristiano, imponendo così allo sviluppo del pensiero cristiano una deviazione iniziale che esso non sarà più capace di correggere. Il momento è quindi decisivo: Ellenismo e cristianesimo sono da allora in contatto; quale dei due ha assorbito l’altro? Partendo dalla persona concreta di Gesù, oggetto della fede cristiana, Giovanni si rivolge ai filosofi per dir loro che quello che essi chiamano λόγος è Lui, che il λόγος s’è fatto carne e ha vissuto tra noi. Dire che Cristo è il λόγος non era un’affermazione filosofica, ma religiosa. Il solo fatto che la religione cristiana s’appropriasse di un concetto filosofico di questa importanza fin dall’epoca del IV Vangelo costituisce, nondimeno, un avvertimento decisivo. Da allora, ed è di gran lunga il fatto più importante, la rivelazione cristiana stessa, prima di ogni speculazione teologica o filosofica, non solo legittimava, ma imponeva tali appropriazioni. Per questo doveva uscirne necessariamente una speculazione teologica e filosofica. Ciò che è vero per il Vangelo di Giovanni lo è anche per le Epistole di san Paolo. Egli conosce l’esistenza della sapienza dei filosofi greci, ma la condanna in nome di una nuova sapienza che è follia per la ragione: la fede in Cristo: Gli Ebrei cercano i miracoli e i Greci cercano la sapienza; non predichiamo un Cristo crocefisso, scandalo per gli Ebrei e follia per o Gentili, ma per i chiamati, Ebrei o Greci, potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché la follia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini e la debolezza di Dio è più forte delle forze degli uomini (I Cor. I 22-25)

Questa denuncia della sapienza greca non era, tuttavia, una condanna della ragione. Subordinata alla fede, la conoscenza naturale non viene esclusa.

Un altro passo dell’Epistola ai Romani imponeva, parimenti, di ammettere che ogni uomo trova nella sua coscienza la conoscenza naturale della legge morale; altri, infine, contenevano indicazioni di portata essenzialmente religiosa nel testo delle Epistole, ma le loro formule erano di origine stoica e le vedremo riprese da parecchi autori cristiani. Tale, soprattutto, la distinzione dell’anima (ψυχή, psiuché) e dello spirito (πνεῦ μα, pnéuma) che più innanzi sarà alla base di tante speculazioni psicologiche ispirate alla prima epistola ai Tessalonicesi, V 23. Così come san Giovanni dice ai pagani “il nostro Cristo è ciò che voi chiamate Verbo” san Paolo dice agli stoici “la nostra fede in Cristo è ciò che voi chiamate sapienza, ed è a Cristo che, senza saperlo, rende omaggio questa coscienza di cui tanto parlate”. Questi punti di contatto non permettono di scoprire l’introduzione di nessun elemento greco nella sostanza della fede cristiana: la figura di Cristo e il significato della sua missione non ne sono in alcun modo toccati.

I. I Padri greci e la filosofia La filosofia compare nella storia del cristianesimo soltanto nel momento in cui alcuni Cristiani prendono posizione nei suoi riguardi. Il termine “filosofia” presenta, fin da quest’epoca, il significato di “sapienza pagana”. Anche nel XII e XIII secolo i termini philosophi e sancti significheranno direttamente l’opposizione tra le concezioni del mondo elaborate da uomini privi di fede e quelle dei Padri della chiesa. È nondimeno vero che il cristianesimo ha dovuto assai presto prendere in considerazione le filosofie pagane e che i cristiani colti dei primi secoli hanno adottato nei loro riguardi atteggiamenti assai differenti. Certuni erano meno inclini a condannarla in blocco inquanto la propria conversione appariva loro come la fine di una ricerca di Dio iniziata assieme ai filosofi; i pensatori greci dei secoli passati apparivano loro come già impegnati sulla via di cui il cristianesimo aveva infine rivelato il termine. Altri, al contrario, assumevano un atteggiamento assolutamente negativo di fronte a dottrine che non destavano in loro alcun interesse. 1. I Padri apologisti Fin dal II secolo compaiono i Padri apologisti, o Apologeti, così chiamati perché le loro principali opere sono apologie della religione cristiana. Delle due apologie più antiche, quella di Quadrato non è mai stata ritrovata. Sembra che essa si sia appoggiata soprattutto sui miracoli di Cristo e nessuna testimonianza suggerisce che essa abbia preso posizione riguardo ai filosofi. Possediamo invece quella di Aristide. egli fa notare che ogni movimento regolato che regna nell’universo obbedisce ad una certa necessità, per cui l’autore di questo movimento è Dio immobile, incomprensibile e innominabile; questo Dio avvolge con la sua presenza l’universo che ha creato. La visione cristiana dell’universo è dunque fissata fin dal II secolo; senza inesattezza la si chiamerà “giudeo-cristiana” in quanto già presente nell’Antico Testamento; essa si è immediatamente imposta nelle menti dei primi scrittori cristiani e ciò è confermato dal fatto che la vediamo riportata nel Pastore di Erma (140-145) San Giustino Martire scrive contemporaneamente ad Erma. Le sue opere principali sono Apologia I, indirizzata ad Adriano, Apologia II, indirizzata a Marco Aurelio e il Dialogus cum Tryphone. Per il giovane Giustino la filosofia era “ciò che ci conduce verso Dio e a lui ci riunisce”. Il cristianesimo offriva una soluzione nuova ai problemi che i filosofi stessi avevano posto. Una religione fondata sulla fede in una rivelazione divina si mostrava capace di risolvere i problemi filosofici meglio della filosofia stessa; i suoi discepoli avevano dunque il diritto di rivendicare il titolo di filosofi. Questa pretesa non era, tuttavia, al riparo da ogni obbiezione. Innanzitutto, se si ammette che Dio ha rivelato la verità agli uomini (solo) attraverso Cristo, sembra che chi ha vissuto prima di Cristo non sia colpevole di averla ignorata. Giustino si impegna quindi a definire la natura della rivelazione cristiana e il suo posto nella storia dell’umanità. Il principio della soluzione che egli propone è preso in prestito dal prologo del Vangelo di Giovanni: “abbiamo imparato che il Verbo illumina tutti gli uomini che vengono in questo mondo e che, di conseguenza, tutto il genere umano partecipa del Verbo”. C’è dunque una rivelazione universale del Verbo divino, anteriore a quella prodottasi nel momento in cui il Verbo si è incarnato. Questa tesi sarà riesposta da Giustino in termini importati dallo stoicismo, quando dirà che la verità del Verbo è come una “ragione seminale”. poiché Cristo è il Verbo fatto carne, tutti gli uomini che sono vissuti secondo il Verbo, che siano ebrei o pagani, sono vissuti secondo Cristo. Ci sono stati dunque cristiani e anticristiani anche prima di Cristo. Se è così, il cristianesimo può assumersi la responsabilità di tutta la storia, ma ne pretende anche il vantaggio. Tutto ciò che di male s’è fatto, s’è fatto contro il Verbo; Tutto ciò che s’è fatto di bene,

s’è fatto secondo il Verbo; dunque, conclude Giustino a nome dei Cristiani: “tutto ciò che è stato detto di vero ci appartiene” Dio è un essere unico e innominabile; Giustino dice “anonimo”. Chiamarlo Padre, Creatore ecc. indica meno ciò che egli è in sé che ciò che egli ha fatto per noi. Questo Dio nascosto è Dio Padre. Creatore del mondo, nessuno gli ha mai parlato, né lo ha mai visto, ma egli si è fatto conoscere dall’uomo inviando “un Dio diverso”. Questo altro Dio è il Verbo, che si è fatto vedere dai patriarchi e che illumina tutti gli uomini che vengono in questo mondo. Il verbo è “primogenito” di Dio, che lo ha posto e costituito prima di tutte le creature. Dunque, il Dio demiurgo occupa il primo posto; il Verbo che egli ha generato è anche Dio, ma di secondo grado. Quanto allo Spirito Santo, terza persona della Trinità, è Dio in “terzo luogo”. Giustino ha una concezione tripartita della natura umana (corpo, anima e spirito); egli non considera impossibile la morte dell’anima. Infatti, essa non è vita, ma riceve la vita da Dio; non è dunque immortale, ma dura tanto a lungo quanto piace a Dio di conservarla. Giustino non dubita che l’anima debba essere premiata o castigata nell’altra vita secondo i suoi meriti o demeriti; poiché la sua volontà è libera, l’uomo è responsabile dei suoi atti. Taziano, a differenza di Giustino, è più pronto a escludere invece che ad assimilare. La sua opera principale, l’Oratio at Graecos, è la dichiarazione dei diritti dei cristiani e del cristianesimo, contro gli Elleni e la loro cultura. Taziano ha usato spesso contro di loro un argomento che abbiamo già incontrato in Giustino: i Greci hanno attinto dalla Bibbia parecchie delle loro idee filosofiche. La deduzione prova che i primi pensatori cristiani erano consapevoli che una certa sfera di problemi era di competenza della giurisdizione dei filosofi e di quella dei Cristiani. Taziano non ha inventato l’argomento; tuttavia, egli ne ha generalizzato l’impiego ispirandosi a un violento sentimento antiellenico. Ciò che egli sosteneva è che i greci non hanno inventato nulla, nemmeno la filosofia. La “nostra filosofia” è più antica della civiltà dei Greci ed essi vi hanno attinto varie dottrine, senza peraltro comprenderle bene; pertanto, non si capisce quale superiorità i filosofi possano vantare. Taziano ha sviluppato per primo, in tutta la sua ampiezza, l’argomento delle “contraddizioni dei filosofi”. Le critiche da lui rivolte alla religione pagana non sono particolarmente originali: consistono soprattutto nel mettere in evidenza l’immoralità della mitologia greca e l’assurdità degli atti che essa attribuisce agli dèi; la sua critica all’astrologia ritorna a mostrare che essa è opera di demoni e che è inconciliabile con l’idea cristiana di responsabilità; le sue obbiezioni contro la magia sono dello stesso genere: le malattie vengono da cause naturali, ma i demoni si fingono capaci di guarirle ed è da qui che vengono le ricette magiche. Dopo la critica al politeismo e alla magia, Taziano ha particolarmente portato innanzi quella alla fatalità: il Cristiano non saprebbe essere sottomesso alla fatalità perché egli è padrone si sé stesso e dei suoi desideri. Il Dio di Taziano è unico, invisibile e puro spirito. Egli è, inoltre, “principio” di tutto ciò che esiste; non ha causa, ma è causa di tutto, non perché è causa immanente della materia, ma perché la domina. Poiché tutto deve a Dio il proprio essere, noi possiamo conoscere Dio partendo dalle creature. Prima della creazione del mondo, Dio era solo, ma tutta la potenza delle cose visibili e invisibili era già in lui. Tutto ciò che era in lui, vi si trovava “per mezzo del suo Lόgos”. Allora si produsse l’avvenimento: Dio ha proferito il suo Verbo senza separarsi da lui. È difatti il Verbo che ha prodotto la materia. Come dice Taziano, egli ha “operato” a titolo di “demiurgo”. Il Verbo di Taziano “proietta” la materia fuori di sé per una specie di radiazione. Immediatamente dopo aver descritto la creazione, Taziano ne trae argomento in favore della resurrezione dei corpi. Per chi ammette la creazione, la nascita di un uomo è esattamente ciò che sarà la sua resurrezione. Le prime creature sono gli angeli. Essendo creati, essi non sono Dio. Non possiedono dunque il Bene per essenza, ma lo realizzano con la loro volontà. Di conseguenza, essi meritano o demeritano, e possono essere giustamente ricompensati o puniti. La loro defezione si è prodotta perché un angelo venne il primo angelo si ribellò contro gli ordini di Dio. Altri angeli

fecero di lui un Dio, ma il verbo “escluse dal suo rapporto” l’iniziatore di questa defezione e i suoi seguaci. Questo ritirarsi del Verbo fece di questi angeli altrettanti demoni, e gli uomini che li seguirono divennero mortali. Sappiamo che Taziano scompone ciò che noi chiamiamo anima in due elementi: la ψυχή, che assume una natura differente secondo le diverse specie di esseri che anima ed è materiali; lo πνεῦ μα, invece, è immateriale. È lì che risiede nell’uomo l’immagine e somiglianza di Dio. Presa nella sua natura l’anima è mortale; se essa non muore è grazie alla volontà di Dio. Ciò che più importava ai cristiani, però, non era stabilire l’immortalità dell’anima; ma, nel caso essa fosse mortale, di assicurarne la resurrezione e, se immortale, di accettare che essa non lo è per sé stessa, ma per la libera volontà di Dio. È in questa concezione dell’immortalità dell’anima che Taziano sembra aver trovato il principio della sua morale. In sé stessa, l’anima non è che tenebra, ma ha ricevuto dal Verbo luce e vita. Per la sua rivolta contro Dio, la vita si è ritirata da lei e le occorre compiere uno sforzo per congiungersi con il suo principio. Si produce una conversione in ogni anima che accoglie in sé nuovamente lo Spirito divino che ha cacciato il peccato. Melitone di Sardi sarebbe il primo che, andando più lontano dello stesso Giustino sulla via della conciliazione, “abbia visto nell’appropriazione del cristianesimo in seno all’impero un disegno provvidenziale”. Leggiamo nella Apologia indirizzata a Marco Aurelio: La nostra filosofia è fiorita prima presso i barbari; poi è sbocciata presso i popoli che tu governi […] ed è diventata un pegno di felice auspicio soprattutto per il tuo impero. Perché è soprattutto dopo di allora che la potenza dei Romani s’è fortificata e ha brillato. […] Ciò che meglio prova l’utilità che ha avuto per l’inizio felice dell’impero ka coincidenza dello sviluppo della nostra dottrina è che dal regno di Augusto non s’è verificata calamità alcuna.

La sua argomentazione poggiava non di meno sull’idea, allora nuova, che doveva rivelarsi feconda: la fede cristiana deve diventare la filosofia dell’Impero Romano. È quello che sant’Agostino sosterrà più tardi nel De civitate Dei e che diventerà un fatto compiuto al tempo di Carlomagno. Non si può dubitare che Melitone di Sardi abbia concepito come possibile una certa alleanza della filosofia e del cristianesimo. Quale filosofia avrebbe egli stesso scelto, non si sa. Arriviamo così alla seconda metà del II secolo e alla famosa Legatio pro Christiani, composta da Atenagora verso il 177. Essa è da lui indirizzata come un discorso consolare all’imperatore Marco Aurelio e a Commodo. Le circostanze erano sconcertanti per i cristiani. A partire dal regno degli Antonini, l’impero romano godeva di un’amministrazione saggia ed ordinata; eppure sotto il migliore di questi imperatori, Marco Aurelio, i cristiani furono crudelmente perseguitati. Questo sovrano stoico non ha visto nella forza d’animo dei martiri che un’ostinazione di forsennati. I cristiani si dichiaravano cittadini di un impero che non era di questo mondo e soggetti a un Dio che non era l’imperatore. Dovevano dunque giustificarsi dall’accusa di ateismo, e l’Apologia di Atenagora porta il segno di questa preoccupazione. La Legatio non dimostra, verso la filosofia greca, né la calorosa simpatia di Giustino, né l’ostilità di Taziano; essa constata semplicemente che, su un certo numero di punti, regna l’accordo tra i filosofi e la rivelazione. Atenagora non spiega questi punti d’incontro, ma ne fa la condizione per mostrare, ad esempio, che, avendo Aristotele professato il monoteismo, l’ostilità dei Cristiani contro il politeismo non andrebbe loro imputata come un’innovazione criminale. Notiamo una netta definizione dei rapporti tra fede e ragione. La fonte di ogni salda conoscenza di Dio è Dio stesso, cioè la rivelazione. Ma, fatto questo, si può riflettere sulla verità rivelata e interpretarla con l’aiuto della ragione. È ciò che Atenagora chiama “dimostrazione della fede”. Egli stesso dà subito l’esempio di quello che con ciò intende, tentando di giustificare dialetticamente il monoteismo contro il politeismo:

Se, in principio, ci fossero stati molti dèi, o si sarebbero ritrovati nel medesimo luogo, cosa impossibile perché non potevano essere della medesima natura, o si sarebbero trovati ciascuno in un luogo separato. Ma in questo caso, sarebbero ognuno creatore e Dio di un mondo diverso, ma non possono esserci diversi mondi. Non c’è dunque che un solo e unico Dio, che fu fin dall’inizio autore del mondo e che solo veglia sulla sua creazione. Sulla teologia del Verbo, Atenagora è avanti rispetto ai suoi predecessori. Egli insiste fortemente sull’eternità del Verbo nel Padre e non parla più di lui come di un “altro Dio”, ma conserva il concetto di una generazione del Verbo come persona distinta prodottasi in vista della creazione. Trattando dello Spirito santo, il suo pensiero rimane molto oscuro. Atenagora se lo rappresenta come “emanante dal Padre e a lui riveniente come un raggio di sole”. Nel De resurrectione mortuorum l’autore stabilisce che la resurrezione dei corpi non è impossibile. Dio può infatti compierla perché chi ha potuto creare può restituire la vita a ciò che ha creato, e può inoltre volerlo perché nulla vi è in ciò di ingiusto, né indegno di lui. Questo primo momento di ogni apologia è quelli che Atenagora chiama parlare “in favore della verità”; il secondo momento consiste nel parlare “sulla verità”. Nel presente caso, questo secondo momento consiste nel mostrare che la resurrezione dei corpi essa effettivamente avrà luogo. Tre argomenti fondamentali lo provano. Primo, se Dio ha creato l’uomo per farlo partecipare a una vita di sapienza e rimanere nella contemplazione delle sue opere, la causa della nascita dell’uomo ci garantisce la sua perpetuità e quindi la sua resurrezione. Il secondo argomento di Atenagora si ricava dalla natura dell’uomo che è composto di anima e di corpo. dio non ha creato delle anime, ma degli uomini. Occorre dunque che la storia e il destino dei due elementi siano i medesimi. Questo principio ha condotto Atenagora a formulare la seguente idea: l’uomo non è l’anima, ma il composto dell’anima e del corpo. il corpo fa dunque parte della natura umana e bisognerà collegarsi quindi a un’antropologia di tipo aristotelico piuttosto che platonico. Se si ammette dunque un dio creatore, provvidenza degli uomini e giusto, bisogna anche ammettere un giudizio giusto e quindi sarà necessario che il corpo resusciti perché l’uomo, tutto intero, sia premiato o punito.

2. lo gnosticismo del II secolo e i suoi avversari Il II secolo d.C. è un periodo di fermento religioso. Da tutte le part...


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