Cesare Salvi - Il contenuto del diritto di proprieta PDF

Title Cesare Salvi - Il contenuto del diritto di proprieta
Course Diritto civile i
Institution Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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RIASSUNTO LIBRO CESARE SALVI "IL CONTENUTO DEL DIRITTO DI PROPRIETA'" per l'esame a tor vergata...


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Salvi, Il contenuto del diritto di proprietà. 1. La proprietà nel periodo liberale L’art.436 del codice civile del 1865 definisce la proprietà come il “diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”. Caratteristica fondamentale di tale diritto è la sua pretesa assolutezza (è un diritto inviolabile della persona e non alienabile): in realtà già essa appare un mito all’interno degli stessi sistemi liberali. Tanto la formula definitoria quanto la disciplina contenuta nei codici e nelle leggi successive danno ampi spazi ad interventi riduttivi, posti nell’interesse generale o in quello di altri privati. L’enfasi posta su tale carattere esprimeva, più che la volontà di definire un carattere strutturale del diritto di proprietà, la necessità di rompere con il passato (e quindi contro l’organizzazione appropriativa preborghese) e di circoscrivere le fonti e la portata degli interventi restrittivi, pur istituzionalmente previsti: prima infatti vi era un regime giuridico dei beni nel quale non era dato rinvenire una forma unica di proprietà, ma una pluralità di situazioni differenziate aventi ad oggetto il medesimo bene. Il code civil francese (di cui il codice italiano del 1865 è una fedele copia) prevede invece una forma tendenzialmente unica di proprietà, fortemente individualistica. Infatti l’esigenza di consolidare l’assetto borghese dei rapporti sociali è alla base di un progetto che non solo abolisce le varie figure di appropriazione signorile o collettivo-contadina proprie dell’ancien regime, ma intende anche precludere ogni possibilità di ricostruzione di esse, dopo la loro eliminazione durante il processo rivoluzionario. L’assolutezza indica innanzitutto la tendenziale assenza di limiti o pesi derivanti dalla coesistenza sul medesimo bene di più situazioni reali: tale eventualità è circondata da numerose cautele, che si traducono soprattutto nel principio che circoscrive i diritti reali alle figure esplicitamente tipizzate dalla legge (principio del numero chiuso dei diritti reali). In questo primo significato, l’assolutezza si presenta come esclusione di tutti i soggetti privati, diversi dal titolare, dal bene riservato alla sua libertà d’azione: gli interessi di altri soggetti sono rilevanti in quanto tipizzati negli schemi degli iure in re aliena. Su un altro versante, l’assolutezza ha una funzione garantista nei confronti dei pubblici poteri. Restrizioni e limiti sono istituzionalmente previsti nella stessa norma definitoria, ma possono consistere solo in uno specifico divieto di uso; inoltre la fonte che pone il divieto può essere solo la legge o il regolamento. Si esclude così la rilevanza di una fonte (come la consuetudine) che non è diretta espressione dello Stato, nonché la possibilità di un controllo giudiziario sull’esercizio del diritto. Il carattere dell’assolutezza assume nella concezione liberale il valore di principio normativo, che definisce il rapporto tra libertà del proprietario di utilizzazione e sfruttamento del bene ed interventi restrittivi, come un rapporto tra regola ed eccezione. Si tratta di un rapporto di derivazione giusnaturalistica: da un lato la proprietà infatti appare come un’entità prenormativa, come sfera della libertà del singolo di cui l’ordinamento prende atto; dall’altro vi è il contingente e specifico intervento restrittivo. Presupposti di tale concezione liberale: -stretta connessione tra proprietà privata e libertà personale; -centralità del bene terra in un’economia prevalentemente agraria; -la funzione garantista, in un’economia autoregolata dal mercato, svolta dallo Stato, del quale sono diretta emanazione le fonti autorizzate ad introdurre eccezioni al principio dell’assolutezza. 2. Il modello pandettistico La crisi di tali presupposti comporta, già nella seconda metà del XIX secolo, una revisione della concezione liberale, che consente di salvaguardare la logica individualistica del modello, rendendola però compatibile con i dati nuovi. Il nesso tra proprietà e libertà non è più idoneo a fornire una giustificazione extrapositiva della proprietà assoluta, perché è sempre meno socialmente condiviso e contraddetto dalla realtà della fabbrica. La proprietà agraria tende a perdere la sua posizione economicamente dominante a favore di quella dei mezzi di produzione industriale e ciò si riflette su un modello costruito intorno all’appropriazione della terra. Si apre così un duplice problema: da un lato il conflitto tra la “vecchia” e “nuova” proprietà; dall’altro la ristrutturazione delle tecniche di difesa proprietaria, per estendere alla seconda le garanzie apprestate alla prima. La legislazione speciale diventa sempre più numerosa e complessa; la risposta della scienza giuridica

consistette nell’elaborazione di quel modello formale di proprietà, prototipo della categoria di diritto soggettivo, destinato a grande fortuna fino ai nostri tempi. Il modello pandettistico si caratterizza per la formalizzazione e positivizzazione del rapporto tra poteri del titolare ed ordinamento generale, che si riflettono sul profilo dell’assolutezza e della limitabilità. Dal primo punto di vista, l’assolutezza viene sostituita dalla “pienezza del diritto sulla cosa”; dal secondo, alla nozione di proprietà come pienezza del diritto sulla cosa è giustapposta una generale nozione giuridica di limite, cui vengono ricondotte tutte le ipotesi normative che contraddicano il principio per il quale la volontà del proprietario è decisiva rispetto alla cosa nella totalità dei rapporti. La dottrina più fedele al modello legislativo ricorre alla nozione di limite in un senso non tecnico, per lo più per descrivere i rapporti di vicinato: il limite tende a coincidere con il confine del fondo e la proprietà fondiaria è limitata perché ha per oggetto una porzione di suolo, non l’intera superficie terrestre. Nei pandettisti la nozione di limite è invece tecnico-formale, con una funzione centrale nella ricostruzione della disciplina proprietaria: innanzitutto il limite è categoria positiva, nel senso che è l’effetto di una norma che sottrae talune facoltà al contenuto del diritto, e non delle caratteristiche naturali della cosa. Inoltre il limite diventa coessenziale alla struttura della proprietà, ovvero consiste in un regime giuridico che riduce la pienezza del diritto, costituendo il modo di essere della proprietà nell’ordinamento: essa è pur sempre concepita come negazione della limitazione, ma è istituzionalmente limitata. Naturalmente c’è una contraddizione tra il limite come regime “normale” della proprietà e l’idea di tale diritto come tendenzialmente illimitato: questi elementi vengono conciliati attraverso il connotato dell’elasticità (se la restrizione viene meno, la proprietà esplica di nuovo tutta la sua pienezza). Nelle codificazioni che aprono il XX secolo, come il Codice civile tedesco, la disciplina proprietaria viene organizzata secondo il profilo del contenuto del diritto, ma la descrizione dei poteri del proprietario è tale da non far venir meno quel rapporto di regola a eccezione che intercorre tra il potere di lui di disporre della cosa a suo piacimento ed i limiti legali. Però la formalizzazione del modello proprietario consente di depurarlo da ogni residuo giusnaturalistico e di ricondurre il diritto soggettivo nell’ordinamento positivo. La proprietà cessa di essere un qualcosa di preesistente alla disciplina, per risolversi nell’attribuzione di un bene al titolare, come oggetto del suo diritto. Nel modello pandettistico l’attribuzione è statica: una volta stabilita, attraverso la tecnica del limite, la misura del potere attribuito, l’ordinamento si disinteressa del modo in cui questo è esercitato. Sotto il profilo dell’attribuzione, ci si inizia ad interrogare sulle ragioni di essa e quindi sulla tutela che è accordata al proprietario: e tali ragioni vengono identificate nel concreto interesse del titolare (quindi ancora una logica individualistica), ma in tal modo è possibile assegnare rilevanza giuridica al modo con cui il diritto viene esercitato. La ricostruzione della tutela intorno all’interesse del titolare non determina quindi una frattura netta del modello liberale, in quanto rimane indiscusso che l’interesse pratico del proprietario prevale, in assenza di diversa previsione di legge, su ogni altro. 3. I cambiamenti del XX secolo e la codificazione del 1942 Alla base della nuova codificazione italiana vi sono due correnti: quella liberale e quella pandettistica, che è centrata anch’essa sulla pienezza del diritto ma aperta ad una rinnovata concezione dell’esistenza di un complesso di limiti legali come regime “normale” della proprietà. Al tempo stesso sono molte le sollecitazioni verso una radicale revisione della normativa codicistica: ricordiamo alcuni dei fattori che contribuiscono, nel XX secolo, all’evoluzione della proprietà. In primis la trasformazione della composizione di classe della società (nascita di uno Stato pluriclasse); poi il peso crescente di diverse culture politiche e filosofiche che criticano la centralità della proprietà (pensiero socialdemocratico, il pensiero cristiano); inoltre la nascita dello Stato sociale, soprattutto dopo la crisi del 1929, che iscrive tra i compiti preminenti dell’ordinamento il perseguimento di finalità di ordine sociale piuttosto che la tutela dell’inviolabile diritto di proprietà, anche a costo del sacrificio di quest’ultimo; il forte interventismo dello Stato nell‘economia. Si comprende quindi come settori non secondari della cultura giuridica italiana ritengano negli anni Trenta che una moderna codificazione debba recepire gli elementi di novità piuttosto che quelli tradizionali, e che tale risultato possa conseguirsi inserendo, nella norma sulla proprietà, il riferimento ad una nozione come quella di funzione sociale.

Alla codificazione di tale concetto non si giunse: non per la sua evanescenza, ma al contrario per la rottura che si sarebbe determinata nella logica individualistica ancora preminente nell’organizzazione del diritto privato tradottasi nel codice del 1942. La funzione sociale è un termine che intende descrivere una trasformazione della struttura proprietaria: questa non appare più concettualizzabile nei termini tradizionali del diritto pieno ma limitato, modificando la struttura del diritto soggettivo. Inoltre la funzione sociale ha anche una portata potenzialmente normativa: non intende solo descrivere la mutata struttura del diritto a seguito del regime positivo, ma anche ricondurre questo regime ad un principio generale, per il quale i poteri del proprietario non possono essere esercitati se non nell’ambito della funzione sociale stessa. Questa duplice valenza è presente nell’art.18 del progetto della Commissione reale per la riforma: “la proprietà è il diritto di godere e disporre della cosa in modo esclusivo, in conformità della funzione sociale del diritto stesso”. Il diritto del proprietario non è né assoluto né pieno: è istituzionalmente subordinato alla funzione sociale. Successivamente però si decise di abbandonare questa formula, che avrebbe comportato la ridefinizione su basi funzionali della disciplina proprietaria. Un tale esito infatti sarebbe stato in contrasto sia con le tecniche normative del regime fascista, sia con i caratteri degli interessi da questo effettivamente privilegiati. Sotto il primo profilo, la funzione sociale avrebbe assunto una portata normativa notevole, se posta come criterio di valutazione della legittimità del comportamento del proprietario: una tecnica di intervento tale da consentire il controllo immediato degli atti di esercizio del diritto ad opera del giudice o della p.a. non rispondeva al disegno istituzionale del fascismo, che privilegiava un modulo organizzatorio del rapporto tra società e Stato fondato sul principio di legalità. Sotto il punto di vista degli interessi tutelati, l’intervento legislativo del fascismo non è ispirato a finalità antiproprietarie: un’integrazione della funzione sociale come norma giuridica con il produttivismo avrebbe aperto la via all’idea che la proprietà abbia funzione sociale in quanto (e solo se) produttiva, conseguenza estranea alla natura sociale del fascismo. Quindi la radicale revisione del modello tradizionale, derivante dall’adozione della formula della funzione sociale, sembrava del tutto immatura al momento della codificazione. Infatti, nella fase finale della redazione del Codice, si registra l’unanimità contro il suo inserimento nella norma sulla proprietà. Le ragioni di tale rifiuto sono chiare per i giuristi legati alla tradizione liberale, che vedono nella riforma l’occasione per un ritorno alla prevalenza del Codice sulla legislazione speciale. Invece i fautori della codificazione fascista e del ruolo primario dell’ordinamento corporativo declinano la funzione sociale in quanto formula indeterminata, inidonea ad esprimere il valore dell’interesse superiore alla produzione nazionale. Una terza corrente è composta dai sostenitori di un’integrale riscrittura del codice, per fondarsi piuttosto sul ruolo delle leggi speciali nella determinazione del regime proprietario: essi vedono nella funzione sociale un elemento distorsivo rispetto al rapporto primario tra potere privato e norma di legge. Questa è la posizione che prevale nella stesura del libro della proprietà, in quanto la più vicina alla logica organizzatoria del rapporto tra società e Stato fondata sul principio di legalità formale. L’art.832 del Codice del 1942 recita: “il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Un elemento di novità è proprio il riferimento all’ordinamento giuridico che segna il passaggio da una concezione della proprietà come dato prenormativo ad una concezione integralmente positiva, che si fonda sulla contestualità tra attribuzione e disciplina del potere. La fonte dei limiti e degli obblighi non è più solo la legge o il regolamento ma appunto il complesso dell’ordinamento giuridico: ciò implica un ruolo più ampio degli interventi legislativi ma anche delle valutazioni dell‘interprete, chiamato ad interrogarsi su una realtà che non si esaurisce nella legge scritta. Tale dato nuovo consente di porre le basi per il superamento della dialettica regola-eccezione tra libertà di azione del titolare e restrizioni legali. Il fulcro della disciplina si sposta dunque dalla norma generale alla norme di legge che disciplinano l’utilizzazione delle varie categorie di beni: si spiega così la tendenza ad inserire nel corpo del Codice la legislazione speciale, talvolta in modo diretto, più spesso mediante una statuizione di principio accompagnata dal rinvio a leggi di settore; inoltre aumentano le ipotesi in cui la concreta regolazione delle situazioni proprietarie è posta non direttamente dalla legge ma dall’atto

amministrativo discrezionale (ruolo centrale delle fonti subprimarie). Un altro aspetto da segnalare è il ruolo dell’istanza produttivistica nella disciplina proprietaria: significativa è l’emersione dell’autonomia normativa dell’impresa, separata dalla proprietà con la creazione di un nuovo libro, “del lavoro”. In conclusione, le esigenze della nuova formulazione erano le seguenti: 1) riconduzione della disciplina della produzione ad un solido impianto privatistico; 2) esprimere un nuovo modo di essere dei rapporti tra pubblico e privato, derivante dalla trasformazione del capitalismo da sistema che si autoregola attraverso il mercato a sistema fortemente organizzato dall’intervento dei pubblici poteri. Questa duplice esigenza viene soddisfatta ristrutturando il rapporto tra poteri proprietari ed ordinamento, senza però un’integrale revisione della categoria che sarebbe derivata dall’inserimento della funzione sociale. Ne emerge una formulazione dell’art.832 che circoscrive l’ambito del godimento pieno ed esclusivo attribuendo carattere generale alla delimitazione dell’esercizio di esso “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Caduto il fascismo, la dottrina privilegia un’interpretazione piuttosto conservativa del nuovo articolo, proponendo un’inalterata continuità con il modello tradizionale. Infatti, tramontato in buona parte con la caduta del Fascismo il sistema del capitalismo organizzato che il regime tendeva a perseguire nei suoi ultimi anni e affermatasi anzi a partire dal 1947 la c.d. restaurazione liberista, gli elementi più innovativi del nuovo Codice sono privati del retroterra più significativo: non manca del resto chi intende la “defascistizzazione” del Codice come un ritorno al testo del 1865. Nella prima fase dell’esperienza repubblicana la lettura dell’art.832 viene ricondotta alla luce dello schema pandettistico e si vedrà a lungo la istituzionalizzazione del principio della funzione sociale come un dato irrilevante o riduttivo, se non addirittura da espungere perché in contrasto con la struttura proprietaria propria dell’elaborazione tradizionale. 4. La Costituzione del 1948 e la “funzione sociale” Lo Statuto Albertino (art.29) stabiliva che “tutte le proprietà, senza eccezioni, sono inviolabili”. L’enunciazione dell’inviolabilità esprimeva infatti l’impegno di non ingerenza dello Stato liberale nei confronti della proprietà, correlato alla riconduzione di questa nella sfera dei diritti di libertà. Si tratta di un’enunciazione fondata sul giusnaturalismo e sull’individualismo tipici dello Stato liberale, che si traduce in un’inviolabilità nei confronti dei pubblici poteri come espressione per indicare il principio di legalità dell’azione amministrativa sul diritto di proprietà: nulla di nuovo quindi nei confronti della concezione civilistica propria di quella fase storica, in cui lo Stato si poneva l’obiettivo di difendere l’ordine economico e sociale esistente (e a tale scopo era sufficiente il principio di legalità). Con le trasformazioni dello Stato contemporaneo la situazione cambia: l’avvento delle Costituzioni rigide offre uno strumento nuovo di tutela delle situazioni proprietarie. Il dato che accomuna i sistemi a Costituzione lunga del XX° secolo è la costituzionalizzazione di principi irriducibili alla concezione liberale della proprietà: nella nostra Costituzione è superato l'inquadramento del diritto di proprietà tra le libertà fondamentali. Ciò risulta sia dalla collocazione sistematica (la proprietà è considerata nell'ambito dei rapporti economici, le libertà nel titolo dedicato ai rapporti civili) sia dalla differente struttura della garanzia: la proprietà è configurata come effetto della legge, le libertà sono garantite mediante le solenni formule liberali (es. art.13 "la libertà personale è inviolabile"). La proprietà non è più un diritto inviolabile né un diritto fondamentale: già nel periodo di Weimar era colta la differenza della riserva di legge, a seconda che riguardi diritti inviolabili e fondamentali o la proprietà. Nel primo caso abbiamo una riserva forte, concernente possibili eccezioni o deroghe che la legge è autorizzata a disporre entro certi limiti e condizioni rispetto ad un diritto il cui contenuto è specificato dalla norma costituzionale; nel secondo caso abbiamo una riserva debole, che ha per oggetto la normazione conformativa del contenuto del diritto. Analoga è l'evoluzione della giurisprudenza della Corte Suprema, a partire dalla svolta dell'età roosveltiana, quando viene introdotto un duplice criterio di valutazione (c.d. double standard), distinguendo tra l'intensità della protezione accordata ai diritti di libertà in base al Primo Emendamento e quella assicurata ai diritti economici. Altre novità apportate dalla Costituzione italiana sono:

1) la disciplina dei rapporti economici pariordina in via di principio l'appropriazione privata dei beni economici a quella pubblica e assume come premessa l'esperienza del conflitto tra interesse privato ed interessi sociali, predisponendone gli strumenti di componimento anche autoritativo; 2) riferimento alla funzione sociale nel comma 2 dell'art.42 come obiettivo da perseguire nel compito, affidato al legislatore, di determinare i modi di acquisto e di godimento ed i limiti di quel diritto (rottura del nesso tra libertà e proprietà: la proprietà non rientra più tra le libertà fondamentali ma all...


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