Commenti e analisi dei testi PDF

Title Commenti e analisi dei testi
Author Caterina Garaffa
Course Letteratura italiana
Institution Università di Bologna
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La Gerusalemme liberata – canto I – Riassunto Personaggi: Goffredo di Buglione, l’Arcangelo Gabriele, tutti cavalieri crociati, Pietro l’Eremita, Aladino, re di Gerusalemme Il canto inizia con proposta del poeta di cantare l’impresa di Goffredo di Buglione che liberò il Sepolcro, difendendosi da tanti nemici e lottando con grande valore. Quindi invoca la musa cristiana che risiede in Cielo tra i cori dei Beati affinché inspiri ed il suo canto illumini, chiedendole anche scusa se per necessità artistica aggiungerà alla verità storica qualche ornamento o qualche finzione amorosa. Infine, dichiara di dedicare l’opera al duca Alfonso II d’Este. Quindi inizia il racconto. Da sei anni, i Crociati si trovano in Medio Oriente per combattere contro gli Infedeli ed hanno già conquistato Nicea ed Antiochia. Un giorno, Dio volge il suo sguardo verso la Palestina e vede che, mentre Goffredo lotta per cacciare gli Infedeli dalla Terra Santa, suo fratello Baldovino si mostra avido di onori, Tancredi è tutto preso da una passione amorosa, Boemondo è tutto impegnato nella gestione del suo regno di Antiochia e Rinaldo desidera solo la gloria. Quindi, decide di inviare l’arcangelo Gabriele presso Goffredo per incitarlo a riprendere la guerra e a mettersi a capo dell’esercito. L’ Arcangelo Gabriele, sotto le sembianze di giovinetto biondo, si presenta davanti a Goffredo per annunciargli la volontà di Dio. Goffredo convoca i suoi compagni; tutti si presentano eccetto Boemondo. Egli dice loro che lo scopo della guerra in atto è riconquistare il Santo Sepolcro e non la ricchezza terrena. Tutto quello che è stato fatto fino ad ora avrebbe valore se si lasciasse perdere la guerra. Ormai la via verso Gerusalemme è aperta e anche la stagione è propizia; d’altra parte se si dovesse indugiare gli Infedeli potrebbero ricevere aiuto dal re d’Egitto. Prende la parola Pietro l’Eremita per sottolineare che l’attuale situazione di stallo è dovuta al fatto che l’esercito dei Crociati manca di una guida e tutti proclamano Goffredo capo supremo. Goffredo per nulla insuperbito dall’alto incarico, il giorno seguente decide di passare in rivista tutto l’esercito. Segue pertanto una lunga descrizione dei cavalieri crociati fra cui emergono Roberto duca di Normandia, Tancredi, Rinaldo e Raimondo di Tolosa. Di ognuno, lo scrittore descrive le origini, le imprese ed i pregi. Terminata la rassegna e saputo che il re d’Egitto si sta muovendo verso Gerusalemme, Goffredo manda un ambasciatore al principe dei Danesi, ormai arrivato a Costantinopoli e all’imperatore greco stesso Alessio Comneno per sollecitare gli aiuti promessi. Il mattino seguente, tra squilli di trombe e rullio dei tamburi, l’esercito comandato da Goffredo si mette in marcia, segue dalla flotta alleata composta da navi

veneziane, genovesi, inglesi, olandesi e siciliane. Intanto, a Gerusalemme, è giunta notizia dell’arrivo dei Crociati. Il re di Gerusalemme, Aladino non solo teme i nemici, ma anche i suoi sudditi poiché una minoranza pè costituita da Cristiani su cui grava il peso dei tributi. Teme che essi si alleino con i Crociati e che aprano a questi ultimi le porte della città e quindi medita vendette e uccisioni nei loro confronti: abbatte le case di campagna, incendia i campi e fortifica la città dal lato nord che è quello più debole.

-La Parentesi Idillica di ErminiaLa Parentesi Idilliaca di Erminia è un brano tratto dal Canto VII della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Questo brano è suddivisibile in tre parti: nella prima parte viene descritta la fuga di Erminia, nella seconda il suo incontro con dei pastori e nella terza la sua vita nell’ambiente pastorale. Erminia fugge poiché aveva visto dalle mura di Gerusalemme il duello di Argante con Tancredi, del quale ella era innamorata segretamente; durante questo duello Tancredi viene gravemente ferito. Allora Erminia, travestita da Clorinda, cerca di raggiungere il suo amato andando verso uno dei campi dei cristiani, ma viene vista da dei crociati e quindi si dà alla fuga. Ella fugge in un bosco, che rappresenta un ‘locus amoenus’, poiché rappresenta il luogo perfetto e tranquillo. Erminia è una principessa pagana ed essa, a differenza di Angelica, non è più l’appetito sessuale dei paladini, ma una donna che si sacrifica per il suo amante, disposta anche a morire. Quindi Erminia non è più una donna tentatrice e peccatrice, ma come una donna quasi santa, quindi una donna AntiAriostesca ed eroina anticonformista, anche perché Tasso mette in secondo piano l’aspetto estetico della donna, portando alla luce la bellezza e purezza interiore.

canto XVI All’inizio del canto, il poeta descrive il palazzo in cui vive Armida. Il muro esterno circolare, racchiude una serie di portici tortuosi quanto un labirinto che al loro interno racchiudono un meraviglioso giardino. Per accedere, esistono cento ingressi, ma Carlo ed Ubaldo entrano da quello principale. Attraverso i loro occhi, il poeta descrive i bassorilievi di cui sono ornati i due battenti che rappresentano scene in cui gli eroi sono stati in qualche modo attratti dalle bellezze femminili (Ercole e Iole, Antonio e Cleopatra). Quindi, i due giovani entrano nel labirinto in cui riescono a districarsi facilmente grazie alla pianta dell’edificio che il veglio d’Ascalona ha dato

loro. Arrivati nel giardino, vedono ciò che di più bello può creare l’arte come se la natura e l’arte si confondessero una con l’altro: piante, erba, fiori, ruscelli, frutti, uccelli che gorgheggiano. Un pappagallo, ricorrendo all’immagine della rosa che appena fiorita, quasi subito sfiorisce, invita i due giovani ad approfittare delle dolcezze dell’amore finché l’età lo permetta. In questo concetto ritroviamo il tema del “carpe diem” di Orazio, ripreso da Ronsard e da Lorenzo il Magnifico. In mezzo a tale spettacolo intravedono Rinaldo ed Armida: il giovane è in ammirazione della donna, a cui sta cospargendo le chiome di fiori, temendole uno specchio affinché essa possa specchiarsi. Terminato l’abbigliamento, Armida rientra nel palazzo a studiare le sue carte e Carlo ed Ubaldo ne approfittano per avvicinarsi a Tancredi. Alla vista delle armi, Rinaldo risveglia in sé lo spirito guerriero. Come convenuto con il veglio, Ubaldo lo fa rispecchiare nello scudo di diamante: Tancredi prende allora coscienza del suo stato effeminato e prova vergogna: Ubaldo lo rimprovera di starsene inoperoso fra le braccia di una donna mentre in Terra Santa si sta combattendo una guerra per liberare Gerusalemme. Tancredi reagisce strappandosi le vesti e si affretta a partire. Armida, trovando ucciso sulla porta del palazzo il suo fido guardiano, capisce che Rinaldo è fuggito. Invano, cerca di ricorrere alle sue arti magiche; allora, fidandosi ancora della sua bellezza, corre dietro a Rinaldo, noncurante del gelo e dell’asprezza della montagna. Ubaldo, udite le disperate invocazioni della donna, invita Rinaldo a fermarsi perché in questo modo la sua forza d’animo diventerà più robusta. Rinaldo ascolta il consiglio, ma in presenza di Armida tace e volge lo sguardo altrove, preso dal rimorso e dalla vergogna, atteggiamento che la donna interpreta come un segno di una battaglia amorosa non ancora persa e per questo ricorre di nuovo alle sue arti ammaliatrici. Comincia a sospirare ed ad implorare affinché Rinaldo la ascolti non tanto come amante, ma come nemico. Gli chiede di condurla con sé come una preda che segue il proprio vincitore in mezzo alla folla dei nemici; per lui, essa sarà il suo scudo o il suo scudiero. Tuttavia, Rinaldo non si lascia convincere e preso da pietà le risponde di non odiarla e che, anzi conserverà sempre un dolce ricordo dei momenti passati insieme; inoltre, compatibilmente con i suoi doveri di crociato, egli dichiara che non mancherà di concedergli sempre la sua protezione. Armida ha capito che non più nulla da fare e prorompe in ingiurie, promettendosi di perseguitarlo come una delle Furie, giurando vendetta e morte. Pronunciate queste parole, la donna cade svenuta. Rinaldo incerto se partire o trattenersi per aver cura di Armida, alla fine si imbarca sulla nave e parte velocemente. Ripresi i sensi, Armida prorompe nuovamente in minacce ed imprecazioni, promettendo di dare in dono se stessa e

tutti i suoi averi a colui che decapiterà Rinaldo. Quindi dopo aver invocato tutti gli spiriti infernali, con la sua magia fa sparire il castello e con un carro incantata vola fino sulle rive del Mar Morto e successivamente decide di recarsi presso l’esercito del re d’Egitto per incitare i guerrieri più potenti contro Rinaldo.

MARINO ADONE CANTO III

Mentre passeggia tra i boschi Venere punge il proprio piede con la spina di una rosa bianca che, bagnata dal suo sangue, diventa per sempre di colore rosso. Quindi, la dea si avvicina ad una fonte per bagnarsi e pulirsi la ferita, ma lì vede il bellissimo Adone addormentato e si innamora. Al risveglio. il giovane Adone vorrebbe fuggire, tuttavia Venere lo prega di curare il suo piede ferito. Perciò Adone medica la sua ferita e da questo contatto nasce anche in lui amore. In queste sei ottave, la dea Venere si rivolge alla rosa, attraverso una personificazione della stessa, tessendone l’elogio in quanto, anche se indirettamente, è stata lei a causare il suo innamoramento e perciò la proclama "regina dei fiori". Nella tradizione lirica, il fiore è sempre simbolo della persona amata e qui, dunque, dello stesso Adone. L'intero testo appare come un concentrato di figure retoriche volte ad impreziosirne i versi: la personificazione di Amore e Cielo; la paronomasia di rosa e riso, termini che differiscono solo per le vocale a ed i; l’allitterazione tra rosa e riso d'Amor; il chiasmo, che avvicina i termini Amor e Ciel e alla estremità del verso riso e fattura. Attraverso queste figure retoriche, dunque, il poeta intende far apparire la natura come vivificata, animata e personificata. Analisi del testo: L’elogio della rosa è pronunciato da Venere nel terzo canto dell’Adone, poema in cui sono narrati gli amori di Venere e Adone e la morte di quest’ultimo, ucciso da un cinghiale aizzatogli addosso da Marte geloso di Venere. Il brano contiene i tratti peculiari della poesia di Marino e della poesia barocca in genere: l’esigenza di descrivere la realtà fin nei suoi minuti particolari; Languidezza pervasa di dolcezza; L’abbondanza di metafore; Il ritmo musicale.

PARINI ODI LA CADUTA Metro: strofa di tre settenari e un endecasillabo a rime piane alternate. Schema abaB L'opera si apre con la descrizione della caduta del vecchio Parini mentre attraversa le strade di Milano durante il periodo invernale, rese scivolose dal fango e considerate zone di pericolo a causa del passaggio delle carrozze, incuranti dei passanti. Il poeta, ormai anziano, viene soccorso da un passante che, dopo averlo riconosciuto, lo elogia per la sua bravura e per essere l'orgoglio della città stessa. Il signore che soccorse Parini è espressione dell'opinione pubblica di quegli anni, quando nella città di Milano si andava formando una borghesia servile e subalterna alla classe aristocratica. Egli invitò il vecchio poeta, atttraverso le sue parole, che erano anche una sorta di adulazione per ottenere vantaggi personali, a recarsi presso un signore potente che potesse offrirgli la sua protezione, preservando così il suo corpo, ormai privo di forze e di giovinezza, dai pericoli quotidiani del mondo esterno. In questo contesto egli consiglia a Parini di abbandonare la sua arte e ispirazione poetica, o meglio, di modificarne lo stile e le tematiche, soffermandosi maggiormente ed elogiando quelli che sono i principi, i privilegi e le virtù dei più potenti, ottenendo così una loro maggiore ammirazione che gli avrebbe consentito di entrare nel loro mondo, traendone così, oltre che protezone, anche vantaggi personali. Quando il signore finisce di parlare, Parini lo assale, rimproverandogli ogni parola affermata. Egli infatti dice che tutto ciò che da lui gli era stato proposto, altro non era che una profonda umiliazione del suo animo, e lo accusa di non essere giusto perché una persona giusta non avrebbe proposto né pensato tutto ciò. Il buon cittadino infatti, per Parini, indirizza le proprie inclinazioni naturali nella direzione segnata dalla propria indole naturale sin da guadagnarsi la stima della patria, in modo giusto e dignitoso. Quando poi vecchio ed in caso di necessità chiede a testa alta e da persona onesta ciò di cui ha bisogno e se gli uomini indifferenti gli voltano le spalle, egli avrebbe provveduto da solo al suo futuro, non umiliando se stesso per il dolore, né tanto meno lasciandosi esaltare per l'orgoglio. Dicendo queste cose lasciò solo colui che l'aveva aiutato, allontanandosene e con grande gratitudine per l'aiuto prestatogli, riufiutando sdegnosamente il suo suggerimento, privo di rimorsi, ritornò col piede incerto a casa sua. Concludendo possiamo affermare con grande ammirazione che quella caduta subita dal vecchio poeta che doveva rappresentare il declino della sua grandezza e popolarità, si dimostra invece essere motivo e dimostrazione di una sua vera e autentica grandezza interiore.

L'ode è costituita da strofe di quattro versi, tre settenari piani e un endecasillabo. La rima utilizzata è quella alternata ( AB-AB ). Spesso un verso comunica con l'altro attraverso un embajament, per eliminare in tal modo il cantabile facile del settenario. L'immagine che si delinea attraverso i consigli offerti "dall'uomo di strada" è la versione involgarita della figura tradizionale del letterato italiano. Parini infatti sdegna la funzione comune ai suoi tempi di un letterato cortigiano che per vivere prostituisce la sua intelligenza, vagheggiando una funzione del tutto nuova, quella dell'intellettuale indipendente che non è più costretto a vendersi, ad adulare i potenti, ma che può esprimere liberamente ciò che sente nell'intimo, proponendosi come depositario dei valori morali e civili più alti. Non ci sono però ancora le condizioni materiali che consentono all'intellettuale l'indipendenza economica e così l'affermazione dell'indipendenza intellettuale viene scontata con la povertà e l'isolamento. Si delinea così una netta opposizione tra due figure intellettuali: quella del Parini e quella del letterato comune ed emerge ugualmente un'altra opposizione tra l'intellettuale indipendente, portatore di un'alta dignità umana e l'uomo di strada, che non sa apprezzare quella dignità poiché rispecchia la mentalità corrente; è proprio attraverso queste due opposizioni che Parini si isola e chiude in una profonda solitudine, allontanandosi dal volgo non giusto. L'ode analizzata diventa così una celebre testimonianza che il poeta erige a se stesso, una celebrazione di sè come uomo esemplare, immune dalle bassezze della società del tempo. Di conseguenza il discorso si fa sempre più aristocratico anche da un punto di vista formale: le ariditezze stilistiche, il lessico scientifico, i termini atti a suscitare grandi sensazioni, vengono sostituiti da un classicismo sempre più impeccabile, solenne e composto. IL GIORNO, IL MATTINO Il Mattino delinea le occupazioni che seguono il risveglio del nobile ozioso. Tutto si concentra in una monotona ripetizione; si ha la rappresentazione di un mattino impossibile, nel quale il protagonista non tira fuori nemmeno una parola, e appare come un'inerte marionetta. Questa poesia inizia con la personificazione di due parti del giorno: il Mattino e l'Alba. E' Mattina: l'alba imbianca il cielo e preannuncia il sorgere del Sole che, quando appare grande e luminoso, nel cielo suscita i colori delle cose e allieta il mondo. Il contadino, alle prime luci del giorno, si alza dal caro letto, dove riposò insieme con la fedel sposa e i figli più piccoli per riprendere il lavoro nei campi. Poi portando sulle spalle gli arnesi agricoli, che Cerere e Pale diedero per prime agli uomini, se ne va nel suo campicello spingendo innanzi a se il bue lento. Il contadino passando lungo il picciol sentiero fa cadere dai rami le stille di rugiada che luccicano al sole con ridiscenza di gemme preziose.

Anche per il fabbro è ora di alzarsi per riprendere il lavoro nell'officina per finire i lavori che non aveva ultimato il giorno precedente. Egli prepara chiavi complicate, difficili da falsificare per rendere sicuri scrigni e forzieri al ricco che teme di essere derubato dai ladri, oppure cesella gioielli d'argento e d'oro per ornare le spose o vasi preziosi destinati alle gioiose feste dei ricchi. Il poeta dopo aver presentato il risveglio dei contadini e degli artigiani si rivolge al giovin Signore, cioè il nobile, il quale sentendo parlare di gente che di buon mattino riprende il lavoro si è sentito rizzare i capelli dallo spavento. Il poeta rivolgendosi nuovamente al nobile gli dice che lui al tramonto del sole non si era seduto a tavola per consumare una semplice cena e subito dopo non era andato a dormire in uno scomodo letto, per niente soffice, come fecero il buon villano (contadino) e l'umile volgo (il fabbro). Ma Giove benigno ha fissato un destino ben diverso da quella della povera gente, infatti gli aristocratici non si vogliono confondere con la massa del popolo; e quindi il poeta che ha il compito di insegnare loro e dove comportarsi in maniera differente considerandoli come semidei terreni. Il nobile è stato sveglio quasi tutta la notte, è stato al teatro ad ascoltare musica e canti è andato a giocare al tavolo con gli amici, perché è la sua passione. Infine stanco com'è sale nel suo cocchio che va veloce, come se partecipasse ad una corsa, per ritornare nei suoi appartamenti. Siamo nel Settecento; è notte fonda, e siccome non esiste illuminazione nelle strade i nobili che uscivano di notte si facevano precedere dai lacché, servitori, che portavano torce luminose. Il poeta paragona il nobile giovin Signore, che di notte passa sul fragoroso cocchio davanti al quale corrono i servitori agitando le torce fiammeggianti; è paragonato a Plutone (dio delle tenebre) che innamorato di Proserpina (figlia di Cerere) la rapì per portarla nel suo regno. In quel momento il suolo di Sicilia rimbombò cupo, dallo Ionio al Tirreno al passaggio del carro davanti al quale splendevano le tede (fiaccole) delle Furie infernali (dee vendicatrici dei delitti di sangue) che avevano occhi di fiamma e serpenti al posto dei capelli. IL MERIGGIO, La vergine cuccia Non a caso “La vergine cuccia” raggiunge il culmine della poesia del Parini perché in essa si fondano tutti i motivi del poema in una immagine nitida. Quest'episodio è visto con lo sguardo e con l'animo di una dama che mette in rilievo la leggiadria, la grazia della cagnetta, le sue moine, quel morso lieve ingentilito dal dente d'avorio, tutto ciò in contrasto con la rozzezza del serve addirittura empio, sacrilego ed audace, agli occhi della dama pur sempre appartenente al mondo plebeo. Ora ricorda quel giorno, oh, giorno, quando la giovane cagnetta allevata dalle Grazie, scherzando quasi infantilmente, morse il piede spregevole di un servo,

lasciando lieve segno col suo dente d'avorio; ed il servo osò mandarle un calcio che la fece rotolare tre volte, e per tre volte scosse il pelo e dalle narici delicate soffiò la polvere irritante. Quindi incominciò a guaire come se dicesse aiuto. L'Eco impietosito fa risuonare l'invocazione nelle volte dorate; dalle stanze situate più basse i servi addolorati salirono, dalle stanze più alte si precipitarono le damigelle. Tutti accorsero, spruzzarono di essenza il volto della dama già svenuta; quando rinvenne era ancora presa dall'ira contro il servo, dal dolore per la cagnetta, fulminando il servo con lo sguardo, chiamò tre volte con flebile voce la cuccia: questa le corse al seno e col suo linguaggio sembrò chieder vendetta; e lo avesti vergine cuccia allevata dalle Grazie. Il servo empio tremò rendendosi conto dell'accaduto e udì ad occhi bassi la sua condanna. Non gli valsero a niente vent'anni di servizio esemplare e lo scrupolo con cui adempia ai suoi incarichi per lui invano si pregò e si promise; se ne andò privo di livrea che un giorno lo rendeva più privilegiato rispetto alla massa. Invano sperò in un nuovo padrone, perché le dame inorridiscono l'autore di una cosa tanto crudele. L'ex servo ridotto a giacere su una strada con la moglie e i figli a chiedere l'elemo...


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