Dispense Filosofia del diritto 14 PDF

Title Dispense Filosofia del diritto 14
Course Giurisprudenza
Institution Sapienza - Università di Roma
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Dispense Filosofia del diritto complete ...


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Giuseppe Lorini La cultura è diritto? A proposito del termine ‘multiculturalismo’ Relazione al convegno: Giudici e multiculturalismo Cagliari, lunedì 18 novembre 2013, ore 15

1. “La cultura è diritto?” “La cultura è diritto?” In altri termini: “La cultura può essere anche diritto?” Questa domanda mi sembra illuminante quando si indaga la rilevanza della categoria del multiculturalismo per le decisioni e le argomentazioni giudiziali. Più in particolare, mi sembra utile per indagare la struttura logica di un fenomeno che è stato recentemente tematizzato dalla dottrina penalistica sotto l’etichetta ‘reati “culturalmente motivati”’. Vari esempi di reati culturalmente motivati li troviamo nel recente libro di Ilenia Ruggiu che ha un titolo brillante e programmatico: Il giudice antropologo. Ricordo, ad esempio, il caso a tutti noto dell’omicidio d’onore di Hina, una ragazza di origine pakistana uccisa nel 2006 a Sarezzo (Brescia) dal padre Mohammed Saleem aiutato dal cugino e dal cognato. Ma partiamo dalla domanda: “La cultura può essere anche diritto?”.

Ma partiamo dalla domanda: La cultura può essere anche diritto? . 1

Per rispondere a questa domanda, accoglierei alcune suggestioni ed alcune sollecitazioni che provengono dalla sensibilità antropologica. Vorrei riflettere insieme a voi su tre brevi documenti.

1. Primo documento. Vorrei partire da una riflessione del famoso civilista e comparatista piemontese Rodolfo Sacco sul diritto giapponese e sul diritto cinese. Nel saggio Il diritto muto, edito esattamente 20 anni fa, nel 1993, Sacco osserva che alcuni studiosi occidentali interpretano “le regole dei rapporti privati operanti in Cina e Giappone” non come diritto, ma come mera filosofia. Si potrebbe dire non come “diritto”, ma come mera “cultura”.

“Secondo tanti osservatori occidentali, le regole dei rapporti privati operanti in Cina e Giappone sarebbero regole non giuridiche e dovrebbero invece discendere direttamente dalla filosofia, dalla tradizione e dalla convenienza sociale, perché vengono gestite senza corti, senza giuristi professionali, senza intervento dell’autorità, senza regole scritte. A me pare di non andare troppo lontano dal vero se congetturo che le regole dei rapporti privati operanti in Cina e Giappone siano invece regole giuridiche, gestite senza che il potere centralizzato se ne interessi”. [Sacco 1993, p. 698.]

“Se le cose sono così il diritto penale cinese recepisce e giuridicizza regole di famiglia e proprietà tratte da un altro sistema di fonti, cioè da quel diritto consuetudinario che gli occidentali scambiano per un etica filosofica”. [Sacco 1993, p. 698.]

2. Secondo documento. Nel 1994 i due antropologi di Berkeley, Alan Dundes e la figlia Alison Dundes Renteln, pubblicano una monumentale antologia in due volumi (di 1037 pagine) dal titolo: Folk Law. Essays in the Theory and Practice of Lex Non Scripta.

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L’impressione che è alla base del progetto è che “folk law tends to be neglected by both law school curricula and by folklore institutes”. Ma è importante segnalare, in relazione alla nostra domanda, che Dundes e Renteln vedono il “folk law as a part of folklore”. Il folk law, il diritto popolare, sarebbe una parte del folklore negletto sia dagli antropologi, sia dai giuristi. Una direzione di ricerca molto interessante a questo proposito consiste nella ricostruzione e nell’esame dei “proverbi giuridici” che sono enunciati anonimi tradizionali che danno voce a norme e a istituti giuridici che caratterizzano certi diritti popolari. Ricordo, ad esempio, gli studi nella prima metà del ’900 dell’antropologo calabrese Raffaele Corso (1883-1965). Un famoso e conciso proverbio giuridico calabrese che dà peraltro il titolo ad una raccolta di proverbi giuridici è: ’U ventu sparti (alla lettera: “Il vento fa le parti”). Il titolo completo del libro di Umberto Di Stilo è ’U ventu sparti. Norme giuridiche della civiltà contadina contenute nei detti e nei proverbi calabresi (Mongiana, A.C.R.E., 1995).

3. Terzo documento. Nel libro Primitive Culture, 1871, l’antropologo britannico Edward B. Tylor propone la sua celebre definizione del concetto di cultura, che, come sostiene Ugo Fabietti, “è venuto a costituire, pur tra consensi e dissensi, il tema attorno al quale ruota il ragionamento dell’antropologo” [Storia dell’antropologia. Bologna, Zanichelli, 2001, p. 17]:

“La cultura […], intesa nel suo senso etnografico più ampio, è quell’insieme complesso che include la conoscenza [knowledge], le credenze [beliefs], l’arte [arts], la morale [morals], il diritto [law], il costume [customs] e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società.”

2. Multiculturalismo o pluralismo giuridico?

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Riflettiamo ora sul concetto di “multiculturalismo” alla luce di questi tre documenti. Questi tre documenti suggeriscono un’interessante ipotesi ermeneutica: sotto l’etichetta “multiculturalismo”, sotto l’idea di una pluralità di culture, si potrebbe celare il fenomeno del “pluralismo giuridico”, già teorizzato dal giurista italiano Santi Romano nella celeberrima opera L’ordinamento giuridico, 1917. Dietro alla pluralità di culture si potrebbe nascondere una pluralità di ordinamenti giuridici, una pluralità di diritti. Vorrei ora mettere alla prova questa ipotesi ermeneutica, esaminando un fenomeno che è stato recentemente tematizzato dalla dottrina penalistica sotto l’etichetta “culturally motivated crime”, generalmente tradotta in italiano con ‘reato “culturalmente motivato”’, traducibile in italiano anche con l’espressione ‘reato “culturalmente orientato”’ (Luca Monticelli) o ‘reato compiuto per ragioni culturali’.

Il termine si deve, credo, al giurista belga Jeroen Van Broeck, il quale lo ha introdotto nel saggio Cultural Defence and Culturally Motivated Crimes (Cultural Offences) apparso sullo “European Journal of Crime, Criminal Law, and Criminal Justice” nel 2001. [http://jthomasniu.org/class/781/Assigs/vanbroeck-cultdef.pdf] Il termine e il tema sono stati recentemente ripresi dalla dottrina penalistica italiana. Ricordo almeno tre recenti libri di tre penalisti sul tema:

(i)

Cristina de Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali. Pisa, ETS, 2010.

(ii)

Fabio Basile, Immigrazione e reati ‘culturalmente motivati’. Il diritto penale nelle società multiculturali europee. Padova, CEDAM, 2008, 2010.

(iii)

Alessandro Bernardi, Il “fattore culturale” nel sistema penale. Torino, Giappichelli, 2010.1

Anteriormente erano già apparsi due saggi esplicitamente sul tema: Paola Parolari, Reati culturalmente motivati. Una nuova sfida del multiculturalismo ai diritti fondamentali “Ragione pratica”, 2008; Ciro Grandi, I reati culturalmente motivati nella giurisprudenza italiana: una categoria negletta? In: O. Giolo, M. Pifferi, Diritto Contro. Meccanismi giuridici di esclusione dello straniero. Torino, Giappichelli, 2009. 1

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Van Broek considera l’espressione “culturally motivated crime” un sinonimo di ‘cultural offence’. Ecco come van Broek definisce il concetto di “culturally motivated crimes”:

“an act by a member of a minority culture, which is considered an offense by the legal system of the dominant culture. That same act is nevertheless, within cultural group of the offender, condoned, accepted as normal behavior and approved or even endorsed and promoted in the given situation”;

“un atto compiuto da membro di un gruppo culturale di minoranza, che è considerato reato [offense] dall’ordinamento giuridico [legal system] della cultura dominante. Questo stesso comportamento è, tuttavia, all’interno del gruppo culturale dell’offensore, condonato, accettato come comportamento normale e approvato, o addirittura appoggiato e incoraggiato in una certa situazione”.

Come ho detto il termine “reato ‘culturalmente motivato’” è stata recentemente introdotto nella dottrina penalistica. Ma se il nome è nuovo, non lo è lo studio del fenomeno. Ad esempio è proprio un caso di “reato culturalmente motivato” ad essere al centro dell’opera di Antonio Pigliaru La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, apparsa nel 1959. Pensiamo all’omicidio per vendetta. Credo che l’opera di Pigliaru possa dare spunti fecondi per l’indagine della categoria dei “reati culturalmente motivati”.

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3. La vendetta barbaricina come “reato culturalmente motivato”. All’origine dell’indagine sulla vendetta barbaricina compiuta da Pigliaru, v’è il fenomeno che viene descritto con l’etichetta ‘banditismo sardo’. Ecco le parole con le quali Pigliaru introduce la sua riflessione all’inizio del libro La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico:

“Chi fermi l’attenzione su quel complesso fenomeno che è il banditismo sardo, cercando di conoscerne tutti i termini e le componenti essenziali, non può ignorare che la pratica della vendetta costituisce un aspetto molto importante ed essenziale del fenomeno medesimo, del quale costituisce per così dire un tema fondamentale.” 2

La centralità della pratica della vendetta per quel complesso fenomeno chiamato “banditismo sardo”, non deve però ingannare:

“Se però la pratica della vendetta, all’interno di un fenomeno complesso come il banditismo sardo, appare in subita evidenza a chiunque osservi con corretta metodologia l’andamento storico del fenomeno medesimo, erroneo sarebbe concludere da tale circostanza che la pratica della vendetta in Barbagia si esaurisce nel quadro del banditismo come una pratica fatalmente connessa alla pratica stessa del banditismo.”3

2 Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, 1975, 2000,

p. 52. 3 Antonio Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, 1975, 2000,

pp. 53-54.

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