Esame sociologia: la violenza sulle donne PDF

Title Esame sociologia: la violenza sulle donne
Author Francesca Mulè
Course Sociologia Generale
Institution Università degli Studi di Parma
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Gli aspetti psicologici e culturali della violenza sulle donne...


Description

La violenza sulle donne è un tema molto discusso negli ultimi tempi, sia in tv che attraverso i social network, ed è proprio grazie all'interesse dei mass media se oggi se ne sente parlare così spesso. Un argomento del genere va trattato con la massima delicatezza ma non va assolutamente ignorato. Nella nostra società e all'interno della comunità italiana, grazie ai dati fornitici dall'ISTAT, sappiamo che ogni anno muoiono 100 donne per mano di mariti o compagni che dicevano di amarle, e cioè una vittima ogni 3 giorni, e sono quasi 7milioni di donne quelle che dichiarano di aver subito, almeno una volta nella vita, una violenza. Sono dati sconcertanti, che ci mettono sotto gli occhi una realtà crudele, dove le donne sono viste come oggetti, e che molto spesso per paura non trovano il coraggio di denunciare queste violenze. La violenza ed i femminicidi colpiscono la gran parte della società femminile, senza esclusione di età, poiché moltissime delle vittime sono minorenni, o poco più che maggiorenni. Ma perchè, in una società moderna e consapevole come la nostra, aumentano i casi di violenza sulle donne? La risposta si può trovare proprio nel cambio radicale che sta avendo la nostra società, dove i valori etici e morali stanno perdendo la loro importanza, e dove la crisi e questo espandersi continuamente della tecnologia sta inghiottendo tutti noi in una tale maniera che la psiche non ha il tempo di accettare e comprendere questi cambiamenti. Si sta manifestando una sorta di regresso psicologico, in quanto l'uomo sta ritornando indietro, a quando la donna era sottomessa a lui, a lui doveva obbedire e non aveva il diritto di replica, proprio come nel Medioevo, quando le donne venivano accusate di stregonerie solo perchè osavano dire quello che pensavano, andando contro gli ideali maschili, o venivano costrette a sprofondare nel silenzio più assoluto. Per millenni, l'uomo è stato considerato un essere superiore alla donna, e quindi giustificato per ogni azione compiuta, ma oggi in una comunità dove l'emancipazione femminile è stata realizzata quasi in pieno, sembra paradossale la presenza di così tanti casi di violenza sulle donne e di donne che non denunciano, che sperano in un cambiamento da parte del compagno. Spesso alla base di queste violenze c'è un atteggiamento da parte dell'uomo di aggressività e ostentazione della propria virilità, e non c'è da stupirsi se molti di questi uomini provengono da una famiglia violenta o con problemi comunicativi. Il carnefice si sente molto spesso poco amato, o porta dentro di se un trauma, risalente all'infanzia, che lo ha segnato particolarmente e che non riesce a superare. Ovviamente nulla giustifica una violenza, che al contrario non deve mai essere accettata e perdonata, perchè un uomo che picchia una donna, non la ama. Una donna, succube e sottomessa a delle violenze è chiamata "vittima", che etimologicamente deriva dal latino "victima", “victus” che rappresenta cioè il cibo che veniva offerto in sacrificio agli Dei. Ma questo termine ha faticato ad affermarsi e a diffondersi nel linguaggio pubblico ufficiale, ed inizialmente veniva utilizzato per descrivere una condizione di sofferenza propria del soggetto che ha subito un torto. In passato, da un punto di vista penale, si nota come le violenze non siano state oggetto di dibattiti comuni e che solo dopo il XVII si comincia a coinvolgere lo Stato in qualità di arbitro dei torti e delle dispute. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale però si vedranno dei documenti internazionali in materia come la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo, siglata a New York nel 1948 che stabilisce l’universalità dei diritti affermati, rivolti al mondo intero, essendo radicati nell’inalienabile concetto di dignità umana, diventato oggi documento internazionale e che propone una definizione di vittima ampia, e riconosce soprattutto i traumi psichici, dammi morali e sofferenze emotive; la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950. In seguito, grazie alla pubblicazione di un libro nel 1948 da parte di un pedagogista polacco, Hans van Hentig, “The criminal and his victim”, dove dedica il capitolo finale ad una riflessione sulla figura della vittima, ci si interroga sul ruolo della vittima nelle dinamiche criminose e grazie a Mendelsohn che si fece promotore di un'azione politica e sociale in favore dei diritti delle vittime, si diede vita ad una

garanzia delle vittime. Ma trattando l'argomento sotto un aspetto psicologico, sappiamo che l'esperienza traumatica della violenza si realizza quando la donna si discosta dai modelli o dai ruoli tradizionali e ciò non viene accettato dal partner, che comincia ad infastidirsi di questo cambiamento ed inizia ad essere violento e opprimente. Però questo atteggiamento "provocatorio" attribuito alle donne, fa ricadere proprio su di esse la responsabilità dei comportamenti, anche violenti, assunti dal loro partner, poiché da questo senso di responsabilità, scaturisce nelle donne il senso di colpa, e la visione fallimentare della propria missione di "cura" nei confronti del compagno. Il carnefice può spesso essere un uomo gentile, stimato, cordiale, in particolar modo al di fuori del contesto familiare e nei primi mesi di relazione, e dato che l'atteggiamento violento può manifestarsi dopo diverso tempo dall'inizio della storia e che al di fuori della coppia l'uomo mostra caratteristiche positive, la donna può pensare di essere lei la causa di certe reazioni del partner. Questa doppia modalità dell’uomo, che emerge piano piano, è una delle cause per cui non si riconosce la violenza per quella che è ma si tende a minimizzarla, e quindi, la decisione di interrompere la relazione viene rimandata. Non sempre gli atti di violenza sono continui, spesso sono di tipo intermittente e questo spinge alcune donne a giustificare il compagno in quanto convinte che sia un aspetto passeggero, dovuto allo stress o a qualche motivazione rintracciabile nei vissuti familiari del compagno. Generalmente la violenza si suddivide in tre fasi ben distinte che riguardano una prima parte dove si assiste ad una situazione di forte tensione con comportamenti ostili, cambi di umore e atteggiamenti scontrosi e maltrattamento verbale da parte dell’uomo, ed è in questa fase che la donna cerca di controllare lo stato di tensione andando incontro alle esigenze del partner per cercare di calmarlo e controllarne la rabbia ed il partner invece può apprendere che la violenza può essere un modo per ottenere ciò che vuole. Nella fase successiva vi è l'esplosione di rabbia e violenza vera e propria. Nell'ultima fase vi è un momento di calma in cui l’uomo chiede perdono promettendo che certe situazione non accadranno mai più. Vi possono essere comportamenti di forte affetto e attenzione nei confronti della donna. In quel momento l’uomo attribuisce la responsabilità degli episodi violenti allo stress, al lavoro e altre difficoltà di vario tipo, cause sempre di tipo esterno. Solitamente però, dopo poco tempo il ciclo riparte dal momento di tensione e poi con successive manifestazioni di rabbia e violenza che tendono ad essere via via sempre più violente rispetto al ciclo precedente. Non bisogna pensare che tali situazioni si creino dal giorno alla notte ma sono circoli viziosi a volte lenti e non chiaramente identificabili se non fino al momento della violenza esplicita. L'elemento costante nelle vittime di violenza è la paura, che porta la donna in uno stato di stress fisico ed emotivo, perché si trova dinanzi un uomo che alterna momenti di dolcezza a momenti di ira, e che la tiene in costante tensione e timore che da un momento all’altro possa scatenarsi l’inferno, vivendo una perenne condizione di sottomissione a tali variabili imprevedibili. La donna viene così confinata all’interno di un processo di vittimizzazione che produce una grave esperienza di impotenza che a sua volta da luogo ad un processo difensivo in cui predominano i seguenti meccanismi: senso di impotenza, negazione, meccanismo di onnipotenza, senso di colpa. Di conseguenza, nel tentativo di comprendere la violenza e quindi giustificarla, la donna tenderà ad andare alla ricerca di quale sia stata la sua parte di colpa, quale incidenza abbia avuto la sua colpevolezza ed incapacità di comprendere la situazione e magari poterla anche prevedere ed evitare, finendo così col sentirsi responsabile di ciò di cui non ha in realtà nessuna colpa. Nella relazione, poi, tra il maltrattante e la donna che subisce, proprio in virtù del fatto che la violenza avviene in una relazione affettiva e familiare, la donna si trova dentro ad una situazione ambigua, in cui il piano dell’abuso e quello affettivo si confondono e in cui essa sperimenta una confusione tra quello che sente come giusto, e quello che le impone il maltrattante e che lei fa suo per sopravvivere. La donna perde piano piano la

capacità di leggere in modo corretto il suo rapporto con il partner, ma soprattutto, in questa confusione, perde la percezione di sé come persona capace di leggere e fronteggiare le situazioni. Si assiste ad una perdita sempre più marcata di autostima che viene segnalato attraverso il corpo. Molte donne vittime di violenza lamentano una serie di disturbi somatici come la depressione, tachicardia, insonnia, difficoltà a deglutire, il sentire “un nodo alla gola”, disturbi gastrointestinali, un silenzio interno e un’ansia costante. Le vittime si sentono vuote, stanche, prive di energia. Niente le interessa più. Non riescono a pensare o concentrarsi, nemmeno su attività molto banali. La vergogna nasce dall’umiliazione originata dalla disconferma del proprio esserci, sentendo di avere un valore sociale inferiore rispetto a quello che si aveva in precedenza. Il senso di colpa, è rafforzato dall’atteggiamento di colpevolizzazione espresso dal contesto sociale. Questo incoraggia l’adesione ad una percezione di se svalutata, denigrata. Altro sentimento provato dalla vittima può essere l’indignazione che costituisce una risposta morale all’oltraggio subito, che incoraggia a trasformare il dolore in una rivendicazione dei diritti violati. L’esperienza del dolore e della sopraffazione possono poi diventare fonte di altruismo, trovando nell’impiego sociale e nel mettersi a disposizione della collettività motivo di gratificazione, incoraggiamento. Le violenze fisiche poi possono arrivare, nei casi più gravi, all’uccisione, ed il fatto prende il nome di ‘femminicidio’, termine utilizzato per la prima volta nel 1990 dalla docente femminista Jane Caputi e dalla criminologa Diana Russell. Questi comportamenti violenti non possono essere compresi se non si considera la complessità dei fattori che ne sono alla base, come quelli biologici che spesso non vengono presi in considerazione, come se la cultura non agisse su una base biologica. Spesso sono gli abiti a nascondere cicatrici e ferite, ma i danni psicologici non può nasconderli nessuno. Una mente maltrattata obbliga a mostrarsi per la donna ferita che si è, e poiché non esiste una tipologia di donne-vittima, è difficile anche identificarla come tale. Lesioni, dolori, sterilità, sono tutte conseguenze di una violenza. Una vittima o un carnefice possono non rendersi conto di essere tali, visto che vi sono atteggiamenti che insinuano progressivamente nella coppia, a tal punto che la donna non sa fino a che punto quella che sta subendo sia definibile come “violenza”. Non è raro che l’uomo diventi violento in concomitanza della prima gravidanza della compagna. Per alcuni uomini, la donna è “un oggetto complementare a se stesso che deve essere posseduto per mantenere l’illusione dell’onnipotenza narcisistica”. Il trauma è generato dall’incapacità del soggetto di rispondere adeguatamente a un evento della sua vita: età, condizioni psicologiche e ambiente influenzano. Il trauma è un incremento di stimoli che portano un aumento di tensione, l’alterazione di uno stato e l’impossibilità di ripristinare l’equilibrio precedente attraverso la scarica nei normali circuiti. Tornare ad uno stato “normale” comporta compiere azioni che vanno contro il soggetto, ma che sono le uniche possibili. Secondo le ultime ricerche la violenza del partner nell’ultimo anno è associata con il dormire male, emicrania, forme di alcolismo, dolori cronici, vomitare, abbuffarsi, avere un serio problema alimentare ed altri disturbi generali, e anche se la violenza del partner non provoca ferite perché non è di tipo fisico, l’impatto sulla salute generale della donna è sicuramente più deleterio. Gli effetti della violenza possono abbracciare più aree come quella corporea, che manifesta il trauma attraverso dolori muscolari, vertigini, palpitazioni, problemi respiratori, alopecia. Nell’area cognitiva la violenza subita determina una difficoltà di concentrazione e di attenzione, perdita della memoria quindi amnesia, o al contrario fissazioni su eventi traumatici ed impossibilità ad elaborarli. Se il sonno è turbato la donna finisce per faticare a dormire o se dorme lo fa male, svegliandosi continuamente durante la notte a causa di incubi. Nell’area sociale troviamo situazioni difficili come la perdita del lavoro, l’isolamento familiare e sociale, assenza di comunicazione con l’esterno, perdita di relazioni amicali anche importanti, sfiducia nel genere maschile che genera difficoltà a mantenere rapporti con il sesso opposto.

Nell’area psichica si riscontrano fobie, perdita dell’autostima, difficoltà comunicative, attacchi di panico, instabilità emotiva, auto colpevolizzazione, sentimenti di vulnerabilità. La tensione della violenza subita genera stress e di fronte ad una situazione stressante l’organismo reagisce mettendosi in uno stato di allerta, produce sostanze ormonali, deprime il sistema immunitario e modifica i neurotrasmettitori celebrali. Quando lo stress è circoscritto e l’individuo riesce a gestirlo, tutto rientra nella normalità rapidamente, ma quando la situazione si protrae e va oltre la capacità di adattamento del soggetto, si possono avere disturbi cronici. Questa situazione di stress cronico può determinare l’insorgere di un disturbo d’ansia, accompagnato da uno stato di allerta e di ipertensione. L’ansia è vista come una risposta ad una situazione di pericolo che vive la vittima. Il vissuto di violenza può portare la donna a trascurare se stessa, finendo per cadere in disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia e questo non fa altro che peggiorare lo stato della donna che, vedendo un peggioramento della propria immagine, precipita sempre di più verso il baratro della depressione. La risposta depressiva può essere letta come la conseguenza di una situazione in cui la donna si sente o è realmente impossibilita a sfuggire al controllo del proprio partner. Gli stati depressivi sono caratterizzati dall’abbassamento della vitalità, dall’abbassamento in negativo dell’umore, dal pessimismo e dalla tristezza vitale, dall’autolesionismo, dalla perdita della stima di se e chiusura relazionale. L’abuso di sostanze quali droghe, alcool, tabacco, analgesici, è un disperato e maldestro tentativo di nascondere o di provare a gestire l’ansia, la depressione e la violenza. Le donne vittime di violenza, nelle forme più gravi, possono presentare un quadro clinico molto preoccupante, con stati di confusione mentale, presenza di pensieri deliranti o paranoici e alterazioni del livello di coscienza. Nella sfera sessuale numerose donne hanno turbamenti, reazioni di disgusto, rigetto o addirittura rifiuto di qualsiasi tipo di rapporto intimo. L’impatto con la violenza è devastante, anche quando la persona sembra aver superato apparentemente il trauma e si rifugia nella rabbia. A volte possono esser passati molti anni, ma è come se il corpo e soprattutto la mente fossero rimasti là, immobilizzati davanti quello scenario. In genere dietro la rabbia c’è il dolore, un grande e immenso dolore, che rischia di diventare infinito se non lo si affronta quando arriva. E cristallizzare la rabbia di certo non aiuta, perché rinvia questo momento oltre i limiti consentiti. Purtroppo ancora oggi troppe donne reagiscono alla violenza con il silenzio e la vergogna. Per uscire da una situazione di violenza servono consapevolezza di essere in una situazione pericolosa e amore per se stessi. La soluzione potrebbe essere la fuga da tutto questo malessere, lasciare la persona che fa del male e ripartire da zero con una nuova vita. Ovviamente non si può pretendere che tutto si sistemi da un giorno all’altro, o che si possano mettere in atto rivoluzioni repentine ed immediate. Si deve andare per gradi e soprattutto si deve chiedere aiuto, poiché ammettere di avere bisogno di aiuto, è un atto di estremo coraggio. Il primo passo per riuscire ad uscire fuori da una violenza è quello di smettere di minimizzare o negare di avere un problema, ma riconoscerlo e iniziare ad affrontarlo. Ci si deve rivolgere a persone di cui si ha la massima fiducia, in modo tale da potersi sfogare e così alleggerire il peso emotivo, difficile da sopportare. Alla luce di quanto evidenziato, diviene fondamentale offrire uno spazio di ascolto e un percorso psicoterapeutico, volto a riconoscere e leggere le varie forme di violenza, ed a reagire. L’intervento presuppone l’accompagnamento della donna in un suo percorso di emancipazione dalla situazione di violenza, attraverso il rafforzamento personale e l’acquisizione di particolari strategie di sopravvivenza. Gli interventi, in questi casi, rappresentano un sollievo per vittima ed uno spiraglio di luce per una vita nuova. Una donna maltrattata può anche rivolgersi ad un Centro Antiviolenza. In Italia esiste poi un numero verde che raccoglie la richiesta d’aiuto e mette la donna in contatto con il centro più vicino a lei, a qualsiasi ora o momento della giornata. Si tratta di una rete, nata alle fine degli anni novanta, fatta di altre donne, che cerca di far

fronte a questa crescente richiesta di aiuto. In Italia, come in Europa, sono migliaia le associazioni che gestiscono questi centri dove il primissimo contatto è fondamentale, e la tempestività anche. Alla telefonata l’operatrice formata per l’occorrenza fa seguire l’accoglienza fisica, a tutti gli effetti. Serve del tempo e una strategia efficace per portare in salvo chi è stata violata, ma tante volte l’urgenza è il bisogno primario di mettere in sicurezza la donna. Così, quando una vittima non può tornare a casa senza rischiare la vita, il Centro attiva protocolli in emergenza, cerca un rifugio. Esistono una rete di strutture, disseminate nelle regioni.: non sono accessibili se non attraverso una procedura che coinvolge le forze dell’ordine. Le cosiddette case-rifugio sono luoghi di accoglienza che garantiscono un tetto e un pasto caldo alle vittime ed un ricovero che può durare anche dei mesi. Il centro, oltre che da volontari, è supportato anche da avvocati, che in caso di questioni legali, offrono il loro aiuto gratuitamente. Anche nel momento più duro, davanti al giudice penale, il Centro antiviolenza siede accanto alla vittima e la sostiene attraverso azioni che mirano ad essere insieme concrete e altamente simboliche. Tra tutte, c’è la costituzione di parte civile che è scelta precisa di chi decide di agire a tutela degli interessi di tutte le donne. Da sole, non sempre, le vittime troverebbero la strada migliore. Ecco che il volontariato, sperimentato ogni giorno da altre donne, finisce per essere il faro che illumina esistenze che si credevano perdute. Ogni centro inoltre promuove interventi di prevenzione, formazione e sensibilizzazione intervenendo attivamente per il cambiamento della cultura e delle convenzioni sociali che sono alla base della violenza maschile contro le donne. Presenti in tutto il territorio nazionale, i centri antiviolenza oggi sono più di 160. Le donne che si rivolgono a questi centri sono sia italiane che migranti, di tutte le provenienze socio-culturali, e di ogni età. Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in onore delle tre sorelle Mirabal, uccise brutalmente e considerate un esempio di donne rivoluzionarie. In Italia, solo dal 2005, alcuni centri antiviolenza hanno iniziato a celebrare questa giornata, appoggiati da una grandissima manifestazione di donne avvenuta a Roma, ch...


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