Evoluzione concetto di popolo, in breve parla di come nel tempo sia cambiato il concetto di popolo PDF

Title Evoluzione concetto di popolo, in breve parla di come nel tempo sia cambiato il concetto di popolo
Author Rachele Rodano
Course Storia della filosofia
Institution Università degli Studi di Catania
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Summary

È un saggio sull’evoluzione del concetto di popolo durante il corso della storia, che accezione gli è stata data in passato e come lo intendiamo oggi...


Description

L’evoluzione del concetto di popolo nella storia

La categoria del popolo non è qualcosa di ovvio: il termine popolo ha infatti un significato e un’estensione che variano notevolmente secondo i contesti. In generale, intendiamo per popolo il complesso degli individui di uno stesso paese che, avendo origine, lingua, tradizioni religiose e culturali, istituti, leggi e ordinamenti comuni, sono costituiti in collettività etnica e nazionale, o formano comunque una nazione, indipendentemente dal fatto che l'unità e l'indipendenza politica siano state realizzate. Però la parola popolo non ha sempre avuto questa definizione, infatti vedremo nel corso della storia quali evoluzioni ha avuto. Se facciamo un passo indietro fino all’età antica, in particolare in Grecia, troviamo il demos che come dimostra Moses Finley, voleva significare sia il corpo civico nel suo complesso, sia la gente comune includendo anche i poveri. Una situazione parallela si verificò nell’Impero Romano, il populus infatti, oscilla tra due significati: per un verso l’insieme degli abitanti di uno stato, dall’altro la plebaglia. L'identificazione del populus della Roma arcaica con l'esercito fa sorgere innanzitutto il problema della sua composizione. Nel secolo scorso ha prevalso la tesi che giudicava l'esercito formato dai soli patrizi e di conseguenza escludeva la plebs dal populus originario. In particolare tale idea venne approfondita all'inizio dell'Ottocento da Niebuhr, affermò che nei primi tempi di Roma la città era abitata dai patres e dai loro clienti, mentre la plebs risiedeva in campagna: in origine l'esercito sarebbe stato composto dai soli patres, mentre a partire da Servio Tullio la necessità di rafforzare le milizie avrebbe indotto i patres a concedere la cittadinanza ai loro clienti; la plebs, che abitava fuori della città e non rientrava nella clientela delle famiglie patrizie, sarebbe invece rimasta al di fuori dell'esercito e, quindi, del populus. Nell'ordinamento repubblicano viene richiamata la testimonianza di Polibio, che nel VI libro delle sue Storie descrive l'ordinamento istituzionale romano del suo tempo, individuandone un'articolazione in tre parti - i magistrati, in primo luogo i consoli, il Senato e il popolo - tra loro strettamente connesse e reciprocamente integrate al punto da conferire alla costituzione dell'Urbe un carattere del tutto originale, difficilmente incasellabile nelle forme di governo monarchico, aristocratico o democratico. Spostandoci nell’età medievale, il popolo indicava la comunità residente in un luogo nella sua totalità. Nei comuni medievali italiani, la designazione di popolo fu data alle organizzazioni di cittadini reclutati su base professionale, o territoriale (come le società armate nelle quali si raggruppavano gli abitanti delle stesse zone); tali organizzazioni in alcuni comuni (Firenze, Bologna) si unirono in società generali dotate di organi propri: consigli allargati, ristretti, come gli anziani, che ne costituirono il governo stabile, un capitano del popolo eletto a imitazione del podestà del comune. In alcuni centri urbani le associazioni di popolo accrebbero il loro potere di condizionamento della vita politica cittadina affiancandosi agli organismi del comune e giungendo in taluni casi a esautorarli. Il vescovo francese Adalberone da Laon affermava che la realtà della fede è una sola, ma gli stati di vita sono tre. La legge umana distingue due condizioni: il nobile e il servo non sono governati da una legge identica, questi sono guerrieri, protettori delle chiese, difendono tutti gli uomini del popolo, grandi e piccoli, e ugualmente difendono sé stessi. L'altra parte è quella dei servi: questa razza non possiede nulla senza dolore. Ricchezze e vesti sono fornite a tutti dai servi, infatti nessun uomo libero può vivere senza i servi. Questi tre ordini vivono

insieme e non possono essere separati; il servizio di uno solo permette le azioni degli altri due; con alterne vicende si aiutano. Come è prevalsa la legge allora il mondo ha goduto la pace. Oggi le leggi si indeboliscono e già ogni pace sparisce; cambiano i costumi degli uomini, cambia anche l'ordine della società. Il termine 'popolo' nell'età moderna è stato usato in tutta una serie di significati, alcuni dei quali neutri (popolazione, gruppo etnico, gente) altri, invece, carichi di implicazioni politiche, spesso molto differenti. Ciò ha indotto, più di una volta, a ritenerlo talmente equivoco da risultare inutilizzabile “per ogni indagine realmente esatta", o ad espungerlo dai lessici politici, salvo poi inserirlo in unione ad altri concetti (per esempio popolo-nazione). Tuttavia, 'popolo' è stato usato quasi sempre pensando anche ad altre entità - repubblica, impero, Stato, patria - sicché il termine designa ora una realtà esistente, ora una aspirazione o addirittura un 'mito', ed è stato invocato dai conservatori e dai rivoluzionari, ciascuno dei quali riteneva di interpretarne le tendenze profonde proponendo un modello ideale, descrittivo e prescrittivo. Nel Settecento europeo, il secolo dei Lumi, nel quale nacque un sentimento politico del tutto differente rispetto al passato di rivolte di sussistenza, vi è una novità nella formazione di una volontà collettiva. Il primo ministro napoletano Bernardo Tanucci, commentava che il popolo aveva il bisogno fondamentale di praticare una religione ‘materiale’ e ‘mercantile’ come a dire ‘civile’. Sosteneva che si doveva attuare un programma in cui vi era la trasfigurazione delle classi sociali del regno e fondato sulla necessità di ‘nazionalizzare’ gli abitanti. in genere, il ‘popolo’ per Tanucci non era concepito come un’astrazione politica che designava uno spazio sociale preciso, ma, piuttosto, come il nome che definiva un insieme di esseri, una ‘natura’ particolare della specie umana. Nell'uso politico dell'età moderna 'popolo' designa, insomma, sia la fonte della sovranità, sia coloro sui quali il potere, derivante dalla sovranità, si esercita. Questo carattere bifronte era ben presente a Hobbes, che si sforzò di esorcizzarne le conseguenze introducendo una distinzione, che ha avuto molta fortuna, tra popolo inteso come "un certo numero di uomini" che vivono in un'area geografica (il popolo d'Inghilterra e il popolo di Francia) e popolo come portatore presunto o 'virtuale' della sovranità, lasciando impregiudicate le forme, o le persone, con le quali quest'ultima viene esercitata. È ovvio che la 'moltitudine' obbedisce a pochi, e questa constatazione apre la strada ad un'altra definizione di popolo, come insieme dei governati di cui però, propriamente parlando, non fanno parte coloro che si distinguono per rango e per ricchezza. Anche questa distinzione ha una lunga tradizione, da Machiavelli sin almeno alla fine dell'Ottocento; Nella di formula Bismarck, si scorge l'idea della "nazionalizzazione delle masse" (Mosse), cioè dell'amalgama, nello Stato moderno, di tutti i gruppi della popolazione. Eppure 'popolo' continua a mantenere il suo significato bivalente: nei testi costituzionali esso compare come il detentore della sovranità, ma viene presentato, anche, come colui cui è impedito, o almeno reso difficile, di esercitare davvero quella prerogativa. Con le guerre di religione cambiarono i termini del problema: non si trattava più di ricostituire un popolo, bensì di stabilire a chi spettasse, in esso, la sovranità, e quali fossero sia il fondamento che gli strumenti del diritto di resistenza. Una lunga tradizione storiografica indica in alcune correnti protestanti le fonti del liberalismo; ma si tratta di un rapporto tutt'altro che diretto. Per circa un secolo coloro che rivendicavano la libertà dell'individuo di professare pubblicamente le proprie convinzioni furono nettamente minoritari, e spesso proprio costoro restano volontariamente ai margini dello scontro armato. Per quelli, invece, che vi si impegnavano il popolo fu una importante figura teorica: il 'popolo di Dio', esemplato sull'antica Israele, la comunità dei credenti cui Dio ha affidato la sua

legge, e che ne è la custode anche di fronte ai sovrani. In un testo famoso, si legge che "le città non consistono in un mucchio di pietre, ma in quello che chiamiamo popolo", il vero "proprietario" dello Stato, intendendo con ciò non l'intera popolazione, "quella bestia da un milione di teste", bensì i magistrati intermedi (cioè i notabili, ma anche i signori, purché, beninteso, seguaci della vera fede) che "rappresentano l'intero corpo del popolo". Occorre però aggiungere che la storia di un popolo incomincia prima che esso sia tale in senso politico: il momento giusto per istituirlo è quando esso è "giovane", ma più vicino alla maturità che alla fanciullezza; situazione ottimale sarebbe quella in cui fossero riunite "la solidità di un antico popolo" e la "docilità di un popolo nuovo". Non sarebbe corretto voler ricavare troppo da queste formule, ma è difficile contestare che, a caratterizzare il popolo, ci sia anche una memoria collettiva. In Italia, anni dopo, Mazzini, fece del popolo il 'dogma' della sua azione politica. 'Popolo', per lui, è "l'universalità degli uomini componenti nazione", e in esso sono comprese tutte le classi. Ma è facile rendersi conto che egli intende soprattutto la moltitudine dominata, che pure è distratta, "giacente", inerte. Soltanto in essa, infatti, si trovano gli elementi motori del progresso: a) l'istinto di "unità morale" (presente in tutti i popoli) che è la premessa dell'unità politica; b) la "vita latente che freme nella tradizione"; c) "l'istinto d'azione e l'immensa forza": è dal popolo che procede "l'iniziativa materiale", è esso "la sola vera forza rivoluzionaria". Tutte queste espressioni hanno corrispettivi in autori che si sono citati prima, che non è però obbligatorio considerare fonti di Mazzini. Ad indebolire il concetto di popolo contribuì anche la diffusione del socialismo scientifico. Sia Marx che Engels avevano esordito come democratici, e si erano serviti ampiamente del termine 'popolo', il quale sopravvisse, nell'uso pubblicistico, anche dopo la pubblicazione del Manifesto (1848).All'inizio della rivoluzione del 1848 essi chiedevano che il parlamento di Francoforte proclamasse la "sovranità del popolo tedesco", erano per la sovranità (nel senso di indipendenza) dei popoli, distinguevano il "popolo rivoluzionario" dai "lazzaroni", ovvero dal Lumpenproletariat (nel commento ai fatti di Napoli del maggio 1848). Ma bastarono poche settimane perché l'insurrezione operaia di Parigi (giugno 1848) imponesse un altro linguaggio: popolo è sinonimo di proletari, o di operai, e nello stesso tempo si registra che la Francia si è divisa in due campi, o in due nazioni, proletariato e borghesia; parlando dei contadini francesi (e tedeschi) Engels li definisce "barbari", esempi di "ostinata stupidità". Il concetto di popolo ha perso la sua unitarietà: occorre distinguere sempre tra "le diverse classi del popolo" e questo termine, comunque, non serve più come nome collettivo. La rassegna di teorie, o ideologie, sul popolo che si è esposta, conferma che 'popolo' designa una base prepolitica in procinto di, o che dovrebbe, diventare politica; ma anche che esso è un corpo che aspetta di ricevere forma, di essere compreso, riconosciuto, rigenerato. Nel significato di popolo come idea-forza sono compresi almeno tre connotati: a) la partecipazione; b) la forza; c) la permanenza, non sempre necessariamente presenti con la stessa intensità, né con le stesse sfumature. Anzi, ciascuno di essi è integrato con elementi tratti da altri paradigmi politici: per esempio la partecipazione può essere intesa, in chiave giusnaturalistica, come l'esercizio di un diritto originario dell'individuo a dare il proprio assenso alle leggi che lo governano, e a designare coloro che lo guidano; la forza segnala che vengono dal popolo gli uomini delle guerre e delle rivoluzioni, ma anche quelli del lavoro; la permanenza, a sua volta, può essere spiegata in base alla geografia (sono la natura e la disposizione del suolo a plasmare il carattere di chi vi risiede durevolmente, a prescindere dalle sue origini etniche), alla razza (ivi compresa la capacità di essa

di assimilare i nuovi arrivati), alla tradizione culturale, di cui espressione fondamentale è il linguaggio. Dunque, la diversità, all'interno del popolo, è un carattere positivo, in quanto consente ad ogni singolo di dare il meglio di sé, ma anche di vivere a proprio talento, senza la costrizione delle regole, artificiali, di uno Stato burocratico. C'è, in quasi tutte le ideologie popolari, anche in quelle che non predicano la rivoluzione, e magari la combattono, una forte carica antiautoritaria (se ne resero conto immediatamente i governanti che, in Germania e in Russia, non accettarono la collaborazione dei profeti del Volkstum e del narodnost); ma c'è, insieme, una altrettanto forte carica cesaristica, nel senso che chi si appella al popolo lo fa per contestare una oligarchia governante (nobiliare, proprietaria, burocratica, parlamentare) che ne usurperebbe i diritti, prospettando, in alternativa, un rapporto più diretto tra base e vertice, che economizzi, per così dire, sul costo e sui tempi della intermediazione. L'egualitarismo non si trova d’accordo all'idea di corpi intermedi autorinnovantisi, mentre il capo è il simbolo vivente dell'unità, legittimato dalla democrazia plebiscitaria, nella quale il popolo esercita, ogni volta, un ruolo costituente, che lo colloca sopra le leggi. Già Weber notava che "ogni democrazia ha questa inclinazione"; e non è un caso che molti avversari delle dittature del XX secolo abbiano rimpianto la legittimità andata in frantumi nel corso delle rivoluzioni, o abbiano proposto un 'ordine' senza popolo.

Bibliografia: • • •

Roberto Tufano, Popolo e populismo, Farò politica ‘’Jacques Delors’’, Prima edizione 2017; Pierre-André Tagguieff, L’Illusione populista, Milano, Bruno Mondadori,2002; Enciclopedia Treccani....


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