Il concetto di Gestaltlosigkeit in Robert Musil PDF

Title Il concetto di Gestaltlosigkeit in Robert Musil
Author Giorgia Corazza
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Università Ca’ Foscari di Venezia Corso di Laurea in Filosofia Tesi di Laurea Il concetto di Gestaltlosigkeit in Robert Musil Relatrice Ch.ma Prof.ssa Cecilia Rofena Laureanda
 Giorgia Corazza Matricola 858252 Anno Accademico 2018 / 2019 INDICE INTRODUZIONE p. 3 CAPITOLO I: DISSOLUZIONE E SALVATAGGIO...


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Università Ca’ Foscari di Venezia

Corso di Laurea in Filosofia Tesi di Laurea

Il concetto di Gestaltlosigkeit in Robert Musil

Relatrice Ch.ma Prof.ssa Cecilia Rofena Laureanda
 Giorgia Corazza Matricola 858252 Anno Accademico 2018 / 2019

INDICE

INTRODUZIONE p. 3 CAPITOLO I: DISSOLUZIONE E SALVATAGGIO DELL’IO

1.1 Il Möglichkeitssinn o «senso della possibilità» p. 8



1.2 Il Wirklichkeitssinn o «senso della realtà» p. 18



1.3 Il «Principio di ragion insufficiente» p. 32

CAPITOLO II: TRA GESTALTLOSIGKEIT E FUNKTION

2.1 Dal De natura hominum al «Teorema dell’informità umana» p. 63



2.2 Dalla sclerosi razioide all’uomo matematico p. 87



2.3 «Vivere come si legge» o l’ironia del saggismo p. 115

CONCLUSIONI p. 139 BIBLIOGRAFIA p. 142

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INTRODUZIONE «La filosofia mi irrita»1. È con queste parole che Robert Musil il 13 maggio 1905, tre anni prima di conseguire il dottorato in filosofia all’Università di Berlino con una tesi sulle teorie del fisico e filosofo austriaco Ernst Mach, confessa con tono perentorio la difficoltà dei suoi rapporti con la disciplina. L’occasione della confessione è offerta dall’espediente di un’intervista immaginaria, utopica. È fuori discussione che la personalità di Musil, ad un sguardo che cerchi di afferrarla e di circoscriverla sotto l’egida del tertium non datur, sembri attraversata da un’inestricabile rete di contraddizioni tra le cui pieghe pare specchiarsi quella Vienna «città dei paradossi» che fece da sfondo a parecchi anni della sua vita2. Musil fece della contraddizione il perno della sua esistenza e non poté fare altrimenti, o se non altro sarebbe stato alquanto difficile per chiunque si fosse trovato a poggiare i piedi sul suolo instabile apertosi con l’avvento di quella «bancarotta metafisica» che si produsse al tramonto del XIX secolo. Anima ed esattezza, ragione e sentimento, razionalismo ed irrazionalismo, scienza e letteratura: sono solo alcune delle categorie tanto care al sapere occidentale quanto insopportabilmente anguste per uno spirito informe come

Robert Musil, Diari 1899-1941, a cura di Adolf Frisé, introduzione e trad. it. di Enrico De Angelis, 2 voll., Torino, Einaudi, 1980, I, pp. 236-237. D’ora in avanti: Diari. 2 Robert Musil nacque il 6 novembre 1980 a Klagenfurt, capoluogo della Carinzia. Fin dall’infanzia la sua vita fu segnata da un continuo sradicamento, in cui rintraccerà una delle ragioni del suo mancato successo letterario. Nei Diari dirà di sé di essere stato un bambino piuttosto difficile: «assai taciturno» ma con improvvisi accessi di loquacità, «egoista» ma solo su certi punti, «ingrato» e «impeccabile in ciò che è quotidiano» ma incline ad un «superiore immoralismo», testardo ed energico ma anche timido, violento e pugnace come la madre tuttavia anche ipersensibile. Il padre, Alfred Musil, era un uomo «assai chiaro», ma privo di orgoglio e di ogni aspetto «vulcanico». La madre, Hermine Bergauer, irosa e piuttosto irritabile, esplodeva facilmente con violenza che poi trapassava in crisi di pianto. Nei Diari Musil racconterà di quando all’età di cinque anni, durante una passeggiata con i genitori, finì con i piedi in una pozzanghera e per punizione fu frustato dal padre, su ordinazione della madre. Da bambino troverà riparo da queste vicende e dal pesante clima domestico nel rimuginare nella malinconia della propria stanza: è qui che comincerà a familiarizzare con quel «pensare altrimenti», secondo una linea di sviluppo che lo allontanerà sempre più dalla realtà e che sconfinerà nell’elaborazione di quel raffinato «senso del possibile» attorno a cui ruota tutta la sua opera. Per gli approfondimenti biografici si è fatto riferimento a: Enrico De Angelis, Robert Musil. Biografia e profilo critico, Torino, Einaudi, 1982. 1

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quello dell’autore della «smisurata e poliedrica enciclopedia spirituale»3 che è L’uomo senza qualità. È così che per avvicinarsi a quello che Franz Blei nel Bestiario letterario definì un «animale nobile dalla corporatura possente e armoniosa», la cui abitudine è quella di «andare in letargo, nonostante appartenga alla piccola famiglia dei daini, dove non si riscontra tale consuetudine»4, è necessario disfarsi delle seducenti quanto convenzionali categorie a cui ci ha abituato la razionalità occidentale e aprirsi a nuove ossimoriche possibilità di comprensione. Fin qui la nostra condizione non appare poi tanto dissimile da quella di uno sfortunato gruppo di mosche rimaste invischiate nella materia «viscosa, tossica e gialla» della carta moschicida Tangle-foot5, le quali, inseguendo in volo rassicuranti principi di stabilità e regolarità — primi fra tutti il principium individuationis e il principio di non-contraddizione — hanno finito in realtà col negare esse stesse quella vita che volevano preservare e col veder svanire per sempre ogni possibilità di riprendere il volo. Su questi temi e sulle alternative prospettate da Musil per scongiurare un tale irrigidimento reificante si avrà modo di tornare nel corso della trattazione di questo elaborato. Proseguiamo con l’intervista. Ciò che ci preme chiarire è il motivo di tale antipatia di Musil nei confronti della filosofia. È lui stesso, conversando tra sé, a precisare tale insofferenza in una pagina del Quaderno 11 datata 13 maggio 1905: 13 maggio. Parliamo un po’ fra noi, signor Musil. Dunque lei ha dei giorni in cui non ama gli artisti? Sì. E anche giorni nei quali evita i filosofi?

Claudio Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, Einaudi, 1988, p. 301. Franz Blei, Bestiario letterario, a cura di Lorenza Rega, Parma, Diabasis, 2019, p. 88: «Per ogni anno vissuto in modo impetuoso il Musil dorme per cinque anni in una foresta inaccessibile. Il letargo sorprendentemente lungo sembra essere giustificato non solo dalla straordinaria forza della sua muscolatura, ma anche dall’ipersensibilità della vita nervosa del Musil durante gli anni di veglia». 5 Robert Musil, La carta moschicida, in Pagine postume pubblicate in vita, trad. it. di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1970, pp. 15-17. 3 4

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Infatti. Ora gli uni sono per me troppo poco filosofici, ora gli altri troppo poco umani. […] Devo confessare che — sebbene creda di essere un artista — non so che cosa sia. La filosofia mi irrita. Soffro di questa mescolanza. Soffro realmente. Il mio concetto di filosofo ha messo su maggiori pretese; fa suo quel che finora vedevo come essenziale dell’artista. Già una volta lei ha alluso a questa questione. Diceva che il filosofo non dà spazio all’artista profondo. Sì, è così. La profondità non può essere profonda a sufficienza, esatta a sufficienza. Ma tale obiezione varrebbe in primo luogo soltanto per i vari Maeterlinck, Hardenberg, Emerson e simili. Costoro non rendono giustizia alle loro trovate, se ne lasciano affascinare troppo e via dicendo. Poeta è invece chi pone un tale pensiero in un uomo, ne descrive l’effetto nei rapporti umani e simili. Al filosofo manca il talento per fare una cosa simile, no? Certamente; però al poeta manca il pensiero. Egli non può formare fino in fondo un pensiero con la finezza che il gusto del filosofo esige 6.

L’irritazione di Musil — qui quasi filosofo reo confesso — nei confronti della filosofia è da intendersi dunque non tanto come un rigetto della disciplina in toto quanto piuttosto come dichiarazione di una volontà determinata a prendere le distanze da un certo modo di fare filosofia, che poco sembrava aver giovato ad un’umanità che di lì a poco sarebbe andata incontro al disastro di due guerre mondiali. Il carattere poco umano dei filosofi risiederebbe, agli occhi di Musil, in quella loro tendenza ad intrappolare il reale nella soffocante camicia di forza dell’univocità del concetto e della necessità di leggi fisiche e morali. Questi filosofi troppo poco umani, dietro il volto serafico di redentori dell’umanità dal caos

Diari, pp. 236-237. Il discredito musiliano sulla filosofia, o su un certo modo di trattare di cosiddette cose propriamente filosofiche, emerge anche in un passo del saggio L’Europa abbandonata a se stessa, in cui Musil scrive: «Non voglio mettermi a filosofare — Dio me ne guardi, in tempi tanto seri». Cfr. Robert Musil, L’Europa abbandonata a se stessa, in Saggi e lettere, a cura e con un’introduzione di Bianca Cetti Marinoni, trad. it. di Andrea Casalegno, Bianca Cetti Marinoni, Lalli Mannarini, Roberta Malagoli, Magda Olivetti, 2 voll., Torino, Einaudi, 1995., I, p. 63. 6

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informe, altro non avrebbero fatto che disporre, in ogni angolo di realtà, quanti più centimetri di carta moschicida possibili, per poi accorgersi di essere rimasti a loro volta invischiati nella stessa materia tossica e gialla con il resto della comunità di mosche, posatesi sopra «non per avidità ma per conformismo, perché ve ne sono già attaccate tante altre» 7. Dall’altro lato, Musil è ben consapevole che sarebbe poco auspicabile per la comunità di mosche sorvolare con indifferenza sulle vaste distese di quel materiale appiccicoso, per tuffarsi nelle più ben più fluide correnti dell’irrazionalismo e del sentimentalismo degli artisti; ciò rappresenterebbe nient’altro che una semplicistica via di fuga, adottata da ogni personalità incapace di farsi carico e di risolvere in maniera rigorosa le antinomie della vita. La soluzione auspicata, qui come altrove, da Musil, è quella di una sintesi: il filosofo deve vestire i panni dell’artista, l’artista quelli del filosofo. Il primo è chiamato ad infondere nell’immobilità dei propri sistemi paralitici e paralizzanti nuova linfa vitale, a ristabilire quel contatto soffocato tra personale e impersonale, tra soggetto e concetto. Il secondo, invece, dovrà adoperarsi nella direzione contraria, adottando un quantitativo di rigore ed esattezza sufficiente a trasformare le proprie proposte da meri vagheggiamenti utopici e nostalgici, che rischiano di sfumare nel nulla dell’indeterminatezza, a possibilità reali. È attorno al concetto di possibilità [Möglichkeit] che si gioca tutta la proposta di Musil, ingegnere e filosofo, allorquando egli si trova a fare i conti con la situazione in cui versavano tutta l’Europa e l’umanità agli inizi del Novecento. «L’uomo moderno», scrive Carlo Salzani, «è pervaso dalla disincantata consapevolezza di aver perduto i saldi punti di riferimento a cui si aggrappava la sua identità in altri tempi, di aver smarrito le categorie “forti” a cui si legavano le possibilità dell’agire e del comprendere, e si trova naufrago e scacciato dal paradiso della sicurezza»8. Al volgere del XIX secolo, l’impianto categoriale di cui la razionalità occidentale si era servita per dominare il reale ha finito col mostrare il proprio carattere fittizio e artificioso. Il determinismo fisico ha ceduto il passo ai nuovi modelli della scienza statistica, la soggettività cartesiana si è Ibidem. Carlo Salzani, Crisi e possibilità. Robert Musil e il tramonto dell’Occidente, Bern, Peter Lang, 2010, p. 239. 7 8

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dispersa in una nube di qualità impersonali in cui è pressoché impossibile distinguere qualcosa di personale, di proprio, riconducibile a quell’ego cogito, ergo sum, sive existo. Che ne è dunque dell’uomo? Si può ancora parlare propriamente di un io? L’intento di questo lavoro è quello di mostrare come per Musil sia ancora data all’uomo la possibilità di istituire un rapporto di senso in un mondo che sembra esserne totalmente privo. Per fare ciò, ci serviremo tanto di riferimenti ai saggi, scritti da Musil in un arco temporale che si estende dal 1911 al 1931, quanto di riferimenti al romanzo, rimasto incompiuto quasi da programma, L’uomo senza qualità, come banco di prova, romanzo-sperimentale, delle sue stesse proposte.

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CAPITOLO I: DISSOLUZIONE E SALVATAGGIO DELL’IO 1.1 Il Möglichkeitssinn o «senso della possibilità» Ma sopra tutti gli altri attirò la mia attenzione questo pensiero: che non vi è mai tanta perfezione nelle opere composte di pezzi fatti da artefici diversi quanta in quelle costruite da uno solo. Gli edifici, ad esempio, cominciati e condotti a termine da un solo architetto, di solito, son più belli e meglio ordinati di quelli che sono stati riadattati più volte servendosi di vecchi muri tirati su per un altro scopo. Così le città antiche, che un tempo erano borghi, e si sono col tempo sempre più ingrandite, appaiono ordinariamente tanto mal proporzionate a confronto di quelle costruite da un ingegnere secondo un piano da lui immaginato, che, sebbene gli edifici, separatamente considerati, siano talora anche più belli, tuttavia a guardare come sono disposti, qui uno grande, là uno piccolo, e come rendono le vie storte e ineguali, si direbbe che non alla volontà di uomini razionali, ma al caso si deve la loro composizione 9.

Il teorico della soggettività come substantia autofondata sul proprio cogitare, René Descartes, vedrebbe senz’altro dissolversi ogni possibilità d’instaurare un ordine in sé coerente, qualora si trovasse a mettere piede, anche solo per breve istante, nel castelletto che l’ingegnere e matematico Ulrich, alter ego di Musil nonché protagonista de L’uomo senza qualità, decide ad un certo punto di acquistare, grazie ad un contributo offertogli malvolentieri dal padre, per farne la sua abitazione. Nel capitolo §2 del romanzo, intitolato Casa e abitazione dell’uomo senza qualità, il castelletto di Ulrich viene presentato come dotato di un aspetto piuttosto bislacco, simile all’immagine che si otterrebbe sovrapponendo diverse fotografie. In esso, infatti, si trovano a coesistere: un giardino del diciottesimo o addirittura del diciassettesimo secolo, alcune strutture del Seicento, un parco e un piano superiore settecenteschi e una facciata restaurata e guastata nell’Ottocento. René Descartes, Discorso sul metodo, a cura di Gallo Galli e Armando Carlini, Bari, Laterza, 1954, p. 133. 9

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La ragione per cui si è deciso di partire proprio da questo espediente romanzesco è l’impressione che da esso sia possibile ricavare tanto un bilancio della situazione di crisi in cui versava l’Europa fin de siècle quanto uno dei concetti centrali per mettere a fuoco il progetto utopico e sperimentale con cui Musil intende «inventare l’uomo interiore»10. La situazione in cui si viene a trovare Ulrich, allorquando egli deve restaurare il suo castelletto, lo pone direttamente al centro delle vorticose implicazioni discendenti dal quel raffinato «senso della possibilità» [Möglichkeitssinn], che fa di lui un’eccezione tra tanti uomini dotati solo del senso opposto, il «senso della realtà» [Wirklichkeitssinn]. Dalla ricostruzione fedele fino alla libertà assoluta si offrivano alla sua scelta tutte le soluzioni, e alla sua mente si proponevano tutti gli stili, dall’assiro al cubista. Che cosa decidere? L’uomo moderno viene al mondo in una clinica e muore in una clinica: per conseguenza deve anche abitare in una clinica! Questo era l’assioma di un architetto di grido, e un altro riformatore dell’ambientazione esigeva che nelle case vi fossero pareti mobili, per il motivo che l’uomo dalla vita in comune deve imparare la fiducia nell’uomo, e non gli è lecito isolarsi con spirito separatistico. Era incominciata allora una nuova èra (ne comincia una ad ogni minuto) e un’èra nuova ha bisogno di uno stile nuovo. Per fortuna di Ulrich il castelletto, così com’era, aveva già tre stili sovrapposti, cosicché non si poteva davvero farne tutto quello che la moda voleva; nondimeno egli era assai turbato dalla responsabilità di costruirsi una casa, e si sentiva pender sul capo la minacciosa massima letta sovente nelle riviste d’arte: «dimmi come abiti e ti dirò chi sei»11.

La difficoltà di Ulrich «uomo del possibile» [Möglichkeitsmensch] consiste nel fatto che, nonostante la varietà degli stili presenti sul mercato sia tale da poter soddisfare anche i più disparati gusti individuali, egli non sembra propendere per Robert Musil, Schizzo della conoscenza del poeta, in Saggi e lettere, p. 33. Robert Musil, L’uomo senza qualità, a cura di Adolf Frisé, introduzione di Bianca Cetti Marinoni, trad. it. di Anita Rho, Gabriella Benedetti, Laura Castoldi, 2 voll., Torino, Einaudi, 2014, I, §5, p. 17. D’ora in avanti: USQ, di cui si citerà il volume, il capitolo e la pagina. 10 11

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nessuno di questi in particolare. Agli occhi di Ulrich tutti gli stili si equivalgono: ognuno perde il suo carattere specifico e si riduce ad uno tra i tanti stili possibili, rispetto ai quali è sempre dato ad un uomo che sia abituato a «pensare altrimenti» concepirne di nuovi. È così che Ulrich, incapace di conformarsi ad uno degli stili già presenti, decide di mettere all’opera il proprio senso della possibilità. Tuttavia, nemmeno la ricerca e l’elaborazione di una propria alternativa sembrano andare in porto. Dopo aver lungamente consultato quelle riviste venne alla conclusione che la costruzione della propria personalità era meglio intraprenderla da solo e si mise a disegnare di sua mano i futuri mobili. Ma appena ideata una linea corposa e d’effetto, gli veniva in mente che si sarebbe potuta sostituirla benissimo con una linea funzionale e smilza; e incominciando ad abbozzare una forma in stile cemento armato scarnita dal suo stesso vigore, pensava alle magre forme marzoline di una fanciulla tredicenne e si metteva a sognare invece di decidersi. Era questa — in un campo che non gli stava seriamente a cuore — la ben nota discontinuità delle idee con il loro pullulare senza un nucleo centrale, incoerenza che contraddistingue il nostro tempo e ne determina la bizzarra aritmetica, la quale salta di palo in frasca senza unità 12.

Ciò che impedisce ad Ulrich di compiere una scelta in mezzo al pullulare delle idee è la totale assenza di una qualche «unità», di un «nucleo centrale», in altri termini di un io come principio ordinatore in grado di dominare la realtà fattuale e di porla in relazione al proprio sentire e alle proprie determinazioni interiori. A ben guardare, in questo secondo passaggio, la mancanza di un centro ordinatore si fa ancora più destabilizzante: se prima, infatti, il senso della possibilità si limitava a «saltare di palo in frasca», restando pur sempre circoscritto all’ambito di una sola sfera semantica, quella dell’architettura, ora esso sembra spingersi ben al di là di ogni definizione netta, di ogni confine

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Ivi, pp. 17-18.

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prestabilito, stabilendo connessioni tra sfere che apparentemente non hanno nulla a che vedere le une con le altre. Un ulteriore esempio di questo pensiero metamorfico 13 si ha allorquando Ulrich si reca per la prima volta in visita alla cugina Diotima, da lui soprannominata così, ma che all’anagrafe era Ermelinda Tuzzi, sebbene avesse poi deciso di mutare il proprio nome in Hermine, dato che per qualche ragione non meglio specificata «esso era risonato improvvisamente al suo orecchio spirituale come una superiore verità»14, di certo più confacente ad una donna di «indescrivibile fascino spirituale» nonché stimata la «più bella e più intelligente della nostra società», «una donna ideale!»15. Nel momento in cui le mani dei due cugini si incontrano, in quello che dovrebbe essere un normale segno di presentazione consolidato dall’uso in società, i pensieri di Ulrich si sciolgono dal proprio artefice per proseguire in maniera autonoma: Egli la trattenne un po’ troppo a lungo, i suoi pensieri non riuscirono a staccarsi subito da quella mano. Stava nella sua, come un petalo carnoso; le unghie appuntite simili a elitre sembravano sul punto di volar via con lei nell’irreale. Ulrich pensava sbalordito alla stranezza della mano femminile, un organo umano abbastanza impudico, in fondo, che si caccia dappertutto come il muso di un cane, ma ufficialmente è la sede della lealtà, della mobilità e della raffinatezza. Durante quei pochi momenti egli osservò che il collo di Diotima formava parecchi cordoni rivestiti di pelle finissima; i capelli erano appuntati in una crocchia alla greca che sporgeva com...


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