Geodemografica - riassunti e commenti saggi (NEODEMOS) PDF

Title Geodemografica - riassunti e commenti saggi (NEODEMOS)
Course Geografia
Institution Università degli Studi di Siena
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riassunti e commenti saggi (NEODEMOS)...


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GEODEMOGRAFIA — 15 scritti per comprendere meglio il mondo 1) Le conseguenze demografiche della Prima Guerra Mondiale — Massimo Livi Bacci Riguarda l’anniversario dei 100 anni dal Trattamento di Versailles (28 giugno 1919), che pose fine alla Grande Guerra e al maggior trauma che la Politica avesse inferto all’Europa nei corso dei millenni. Una politica fatta di guerre, conflitti, migrazioni forzate. M. Livi Bacci nel suo saggio ci mostra alcuni dati riguardati le morti causate dal conflitto, ma non solo quelle militari (dirette), bensì anche quelle civili (mediate/indirette). Tratta quindi di tutte quelle morti causate da carestie, esodi di massa, prigionie, distruzioni di case/edifici, oltre che dalla pandemia influenzale della “spagnola”. Per quanto riguarda le stime delle perdite militari, Livi Bacci spiega come queste siano abbastanza affidabili, seppur ogni paese abbia raccolto i dati in modo diverso. In Italia per esempio sappiamo che i miliari morti furono un totale di 651.000, di cui la maggior parte in azione, mentre il restante a causa di malattie o a causa di invalidità causate dalla guerra. Ci sono però difficoltà a conteggiare i militarti morti in prigionia o i dispersi. In generale, nella media possiamo dire che i decessi furono 2,1 per 100 abitanti. Per quanto riguarda invece le perdite civili è difficile fanne un conteggio. Molti morirono a causa della fame e delle carestie, oltre che alla recrudescenza delle malattie infettive, alla crisi dei sistemi sanitari o agli spostamenti forzati. Oltre a queste perdite è importante aggiungere quelle causate dall’epidemia influenzale della spagnola che tra il 1918 e il 1920 ha causato migliaia di morti. Secondo la Lega delle Nazioni l’insieme delle perdite civili e militari ammonta ad una media del 4% per 10 paesi considerati (Regno Unito, Francia, Italia, Belgio, Serbia e Montenegro, Romania, Grecia, Portogallo, Germania, Austria-Ungheria), con picchi del 9% in Romania e del 23% in Serbia. Oltre a questi dati, la Lega delle Nazioni ha fatto una stima anche del “deficit” di nascite causato dall’eccesso dei decessi provocato dalla guerra. Ovviamente è difficile poterne fare un calcolo corretto poiché non è detto che le nascite siano causa solo e unicamente dei decessi, in quanto il contenimento delle nascite è una risposta razionale alla guerra perché rafforza la capacità di sopravvivenza della collettività. Quindi sì, il deficit è dovuto direttamente dalla guerra, ma indirettamente anche dalla decisione volontaria di evitare di fare figli in una fase molto vulnerabile. Il deficit di nascite calcolato è pari a circa 12 milioni e, aggiungendo le perdite militari e civili, possiamo dire che la stima della perdita di potenziale demografico è stato pari a 22,9 milioni (l’8,8% della popolazione del 1914) — lo shock demografico è stato indubbiamente fortissimo. 2) Come sarà la terra quando saremo 10 miliardi? — Steve S. Morgan (Verso la fine del secolo) Si tratta di una messa a punto sulle tendenze della popolazione del mondo fino al 2100, come desumibili dalla revisione delle proiezione demografiche delle Nazioni Unite. In esso si mette in evidenza come la soluzione a molti problemi globali, il riscaldamento globale in primis, sarebbe reso più angelo da uno sviluppo demografico più lento, sicuramente a portata di mano con politiche sociali più efficienti di quelle attualmente in atto nei paesi ad alta crescita demografica. Egli riflette su “Come sarà la terra quando saremo 10 miliardi”. Una previsione ragionevole che ormai si fa è che saremo 8 miliardi nel 2023; 9 miliardi nel 2036 e 9 miliardi e mezzo intorno al 2050 (quasi 11 miliardi nel 2100). Si stima che già nei prossimi anni che il tasso di incremento scenderà dall’1,1 allo 0,5 (arrivando allo 0,5 nel 2050 e allo 0,1 nel 2100). Il problema principale è l’aumento di popolazione nei paesi meno sviluppati/in via di sviluppo (aree più povere) al 98%: di questo 98%, più del 50% si avrà nell’Africa Sub-Sahariana e il 38% nel Continente indiano. Per quanto riguarda le restanti parti del mondo, un maggior aumento della popolazione lo si vedrà nelle aree urbane e nelle fasce costiere che sono più fragili. Ovviamente il traguardo di 9,7 miliardi per la popolazione nel 2050 dipende all’effettiva diminuzione della fecondità che, per l’insieme della popolazione mondiale, dovrebbe scendere da un numero medio di 2,5 figli per donna a 2,2. Questo enorme numero della popolazione non sarà semplice da sostenere tendendo conto del cambiamento climatico e degli squilibri ambientali che causerà.

Egli spiega inoltre che nel 1950 erano quattro i paesi europei tra i primi dieci paesi più popolosi al mondo assieme agli USA e al Giappone, ma di questi solo gli USA rimarranno nel gruppo di testa nel 2050, a conferma del declino dell’Occidente nella geodemografia del mondo. Nessun paese africano si trovava tra i primi dieci, mentre nel 2050 si prevede che Nigeria, Repubblica Democratica del Congo ed Etiopia saranno nel gruppo di testa, mentre l’India salirà al primo posto al posto della Cina. Morgan mostra due cartine e un grafico: • una sulla variazione percentuale (previsione nel caso in cui i livelli produttivi restano quelli di oggi) della popolazione tra il 2019 e il 2050 — la popolazione varia in percentuale maggiore nella zona del Continente indiano e dell’Africa Sub-Sahariana e in gran parte dell’Europa, anche se per opposti motivi (nella prima zona la variazione è legata ad una crescita, nella seconda zona la variazione è legata ad una decrescita). • sul numero medio dei figli per donna (tasso di fertilità) nel quinquennio 2015-2020 — si può vedere come nella zona dell’Africa Sub-Sahariana, in particolare nel Niger, il tasso di fertilità è molto alto; mentre nel resto del mondo il tasso varia e non è molto alto. • un grafico sul numero medio di figli per donna nelle regioni del mondo tra il 1950-2020 (con previsione di quello che accadrà tra il 2020 e il 2100) — si può osservare che il numero sta notevolmente calando e che si prevede che intorno al 2100 la situazione si stazionerà più o meno ovunque. 3) Clima, spazio e popolazione — Massimo Livi Bacci Discute sul rapporto tra crescita demografica e cambio climatico, dell’incidenza di questa sull’utilizzo dello spazio, dell’antropizzazione del pianeta. In esso Livi Bacci ci parla di come con l’aumento della popolazione la terra sia stata quasi del tutto antropizzata, circa il 70% delle terre, una proporzione che tende a crescere in funzione dell’aumento della popolazione, una popolazione che secondo le ultime stime dovrebbe aumentare di oltre tre miliardi. Secondo l’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) più della metà dei 134 milioni di kmq delle terre emerse è antropizzato direttamente o indirettamente. Questa estensione e intensificazione dell’antropizzazione pone a rischi aree vitali per gli equilibri ambientali, quali le grandi foreste pluviali o le aree fragili costiere/umide. Egli ci dice che la terra è un “pozzo” naturale che assorbe i gas serra mediante vari processi, ma è anche produttrice di questi gas ogni qual volta che la vegetazione brucia o si decompone — quindi le emissioni sono prevalentemente dovute alla deforestazione, ma anche l’agricoltura è responsabile di circa la metà delle emissioni di metano indotte dall’uomo ed è la principale fonte di protossido di azoto, due gas ad effetto serra molto potenti. Questo significa che i processi di antropizzazione possono alterare gli equilibri tra i vari ecosistemi con effetti sia positivi che negativi. Sempre rifacendosi al rapporto IPCC, parla di come la temperatura del globo è aumentata di quasi un grado rispetto alla media del 1850-1900 e che diventerà un grado e mezzo verso la metà del secolo. Per frenare questo un passo importante è la modifica delle diete alimentari della popolazione, in particolare un minore consumo di carni rosse e maggiore invece consumo di vegetali e frutta. Il rapporto infatti dice che con questo cambio di alimentazione si potrebbe ridurre di molto la produzione di gas serra e si potrebbe liberare un’area compresa tra i 4 e i 25 milioni di kmq al 2050. Questo ovviamente è quasi impossibile da applicare nei paesi poveri dove il consumo di carne è più economico rispetto a quello di frutta e verdura (perché più semplice da trovare). Inoltre, M. Livi Bacci fa presente come i contenuti dell’ultimo rapporto siano stati veicolati in modo distorto nell’opinione pubblica, dicendo che il cambiamento climatico aumenterà la fame e le migrazioni. In realtà il rapporto quasi neppure ne parla delle migrazioni. Difatti non è il cambiamento climatico in sé a creare questi “problemi” ma un insieme di tanti fattori che partono però dal riscaldamento globale, il quale crea desertificazioni e condizioni di maggiore stress per le popolazioni che vivono in aree particolari del mondo, uno stress che può alimentare i conflitti (conflitti generati però da innumerevoli fattori). Ovviamente questo non significa che il riscaldamento globale non abbia conseguenze demografiche, anzi sono circa 3 miliardi gli abitanti che vivono in zone aride e si stima che 1/6 della popolazione delle sone aride viva in zone in cui è in atto la desertificazione, fenomeno che colpisce i settori principali di questi paesi, quali la pastorizia e l’agricoltura.

Un altro campo che viene toccato è quello della salute, la quale si passa possa subire dei danni a causa del cambio climatico. In particolare vengono toccati questi punti: (a) aumento dei rischi per la salute dovuti a più intense ondate di calore ed incendi; (b) maggiori rischi di denutrizione per una diminuita produzione agricola in alcune regioni povere; (c) minore capacità di lavoro e perdita di produttività in popolazioni vulnerabili; (d) un aumento di rischi per malattie causate da microbi diffusi per via aerea o idrica, o da altri vettori. 4) Malthus forever? — Massimo Livi Bacci Massimo Livi Bacci, riprendendo le parole di un saggio di Malthus, concorda e afferma che il limite definito per la crescita della popolazione è rappresentato dallo spazio, in quanto la coltivazione dipende dal terreno, così come i pascoli/l’allevamento/la caccia, ma anche l’energia e in generale la sussistenza. Secoli fa la mancanza di spazio non era neppure un problema, ma ai giorni nostri le limitazioni dello spazio sono ben visibile (lo spiega suddividendo l’umanità in gruppi composti da 1000 abitanti, chiamati demoi, e calcola in base alla popolazione e alla superficie terrestre quanto spazio avrebbe a disposizione ogni gruppo). La dispersione della popolazione e la sua crescita hanno determinato un graduale processo di antropizzazzione del pianeta. Degli studi recenti che usano le immagini dei satelliti hanno estimato che i campi coltivati e le foreste coprono circa il 47% della superficie; i pascoli e i prati il 26%; mentre le aree soggette a deforestazione o artificialmente ripiantante l’8%. Aggiungendo al 47% gli spazi dove l’azione umana sta radicalmente cambiando la faccia della Terra arriviamo ad un totale del 54% che corrisponde al totale dell’area direttamente usata o trasformata dalle attività umane. Egli conclude dicendo che sono in atto 3 processi globali che si intrecciano tra loro: a) la crescita della popolazione e la sua dispersione; b) l’occupazione e l’antropizzazione dello spazio; c) la crescente inidoneità del restante territorio incontaminato o semi-incontaminato per l’insediamento e le attività umane (28% ricorda da boschi e il 19% non possibile da sfruttare perché congelato o descritto o comunque situato ad alta quota). In generale più umani occuperanno questa Terra e più l’ambiente diventerà inospitale, perché seppure l’uomo ha l’ingegnosità e la tecnologia, queste non possono fare veri e propri miracoli. 5) Four compelling reasons to fear population growth — Massimo Livi Bacci La rapida espansione della popolazione mondiale ha quattro principali conseguenze, strettamente collegate a questioni ambientali sensibili che diventano critiche man mano che procederemo verso la fine del secolo, quando la crescita della popolazione mondiale, secondo un consenso piuttosto ottimistico, si prevede che arriverà ad essere vicino allo zero: a) l'intrusione umana nelle foreste, e in particolare nelle foreste pluviali, la cui integrità è garanzia dell'equilibrio bio-naturale — deforestazione: processo che ha accompagnato la crescita demografica dalla diffusione iniziale dell’agricoltura. Le foreste in generali hanno un ruolo molto importante nel mantenimento degli equilibri ambientali attraverso la moderazione dell’effetto serra, proteggendo la biodiversità e le riserve idriche. Purtroppo però l’uomo le abbatte perché gli alberi danno più profitto quando vengono abbattuti e i pascoli/gli allevamenti hanno più valore delle foreste vergini. Questo è un effetto anche della crescita della popolazione perché essendoci più domanda servono più spazi per produrre e trovare risorse; b) l'intensificazione dell'insediamento umano negli habitat più precari, in particolare lungo le coste e sulle rive di fiumi e laghi — l’uso di queste aree è maggiore perché più vantaggiose non solo in termini di clima e paesaggio, ma anche per quanto riguarda le comunicazione e le molteplici opportunità economiche che offrono. Questa intensivo insediamento umano in queste aree vulnerabili perché ha avuto effetti negativi in termini di contaminazione dell’acqua, degrado di aree di vale ambientale, ma anche in termini di maggiori rischi naturali (come tsunami). Questi rischi sono destinati a crescere come conseguenza del riscaldamento globale (basti vedere il ripetersi di catastrofi naturali(tifoni e inondazioni di marea) nelle regioni del delta del fiume dell'Asia meridionale e sudorientale negli ultimi anni);

c) l'esplosione dei processi di urbanizzazione — secondo le stime delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale urbana ha ormai superato quella che vive in campagna (55% della popolazione totale). Nel 1950 esistevano 2 cosiddette "megalopoli" o agglomerati di oltre 10 milioni di abitanti; dal 1990, secondo le stime dell'ONU, c'erano 10 milioni e 33 nel 2018. La concentrazione demografica nelle aree urbane non è, in quanto tale, un fenomeno negativo, ma la velocità con cui è avvenuta ha provocato effetti negativi all'ambiente, primo tra tutti l’inquinamento dell’aria e la contaminazione dell’acqua, ma oltre a questo anche un accumulo di rifiuti e il degrado dello spazio. Considerato che i grandi agglomerati crescono più velocemente della popolazione urbana l’effetto negativo sull’ecosistema è destinato ad aggravarsi sempre di più; d) il riscaldamento globale — è stato dimostrato che (a causa della diminuzione della terra incontaminata e del deterioramento dello spazio, conseguenze dell’aumento della popolazione), l’aumento delle emissione di gas è alla radice del riscaldamento globale. Come si legge nel Quinto rapporto di valutazione dell'IPCC (International Panel on Climate Change): “Le emissioni di gas serra di origine antropica sono aumentate dall'era preindustriale, trainate in gran parte dall'economia e la crescita della popolazione, e sono ora più alte che mai ". Tra 1970 e 2010 c'è stato un aumento dell'80% del volume delle serre emissioni di gas. Pubblicazioni specializzate spiegano le complesse conseguenze geofisiche del riscaldamento globale, dallo scioglimento delle calotte polari all'innalzamento del livello del mare, la desertificazione di vaste regioni e i cambiamenti nelle correnti oceaniche, tutte cose che hanno grandi conseguenze per la società umana. Crescita della popolazione, dispersione degli insediamenti umani, sviluppo della tecnologia, crescente benessere sono le forze che riducono lo spazio disponibile in condizioni incontaminate e mette in pericolo la qualità di quello spazio, sia che si stabilisca o che sia sotto la impatto dell'attività umana. Lo spazio è, infatti, la risorsa ultima e il limite finale alla crescita. 6) C’è vita sull’Artico — Steve S. Morgan Affronta il tema delle popolazioni delle immensità artiche (10 milioni di abitanti), parlando del moderno sviluppo che sta ormai erodendo le etnie indigene e favorisce l’immigrazione, trainata dallo sfruttamento delle industrie estrattive. Inoltre affronta il fatto che il riscaldamento dell’Artico permetterà l’apertura di una rotta di navigazione polare con trasporti di merci tra il Pacifico e l’Atlantico più veloci ed economici, cosa che potrebbe determinare una rinascita delle città portuali del nord. Questi benefici però potrebbero causare allo stesso tempo degli squilibri ambientali. La regione artica, secondo quanto stabilito nell’Arctic Human Development Report (ADHR) è la regione che si estende oltre il circolo polare, comprendendo l’Alaska e i territori canadesi e russo ad esso adiacenti, ma anche ovviamente l’Islanda — definizione di natura ambientale e economico-sociale più funzionale per un’analisi di natura geo-demografica. Secondo questa definizione solo una piccola parte della popolazione è indigena, cioè legata da secoli o millenni alla regione, perché la grande maggioranza è di origine europeo-caucasica. Le sparse popolazioni artiche sono soggette a forze e condizionamenti ambientati che influenzano fortemente i modelli di insediamento e mobilità. Quest’ultimo sono influenzati inoltre dalle conseguenze delle politiche industriali dell’URSS e dalle nuove tecnologie che hanno permesso la ricerca e l’individuazione di giacimenti minerari prima inaccessibili, i quali attirano tecnici e manodopera. É importante comunque ricordare che le popolazioni indigene hanno caratteristiche diverse da quelle della maggioranza della popolazione — cosa che crea una coesione sociale problematica. Tra il 1990 e il 2018 la popolazione totale della regione è lievemente diminuita per effetto di un modesto eccesso di nascite sulle morti, e di sensibili pedate migratorie. Vi sono comunque forti differenze territoriali: in Nord America la popolazione è aumentata in modo considerevole così come in Islanda, in Svezia e in Norvegia invece di poco mentre in Groenlandia la popolazione rimane stazionaria. In Russia invece il forte declino demografico (-19%) è dovuto quasi interamente all’emigrazione, dovuta a sua volta alla crisi dei grandi complessi industriali insediati a Nord durante l’epoca sovietica e alla grave crisi demografica successiva al dissolversi dell’URSS. Queste forti differenze di andamento risentono dalla fase di evoluzione demografica nella quale si trova ciascuna popolazione, nonché dai potenti fattori economici generatori di flussi migratori.

\ Osservando i livelli di fecondità (TFT — tasso di fecondità totale o numero medio di figli per donna) attorno al 2010 possiamo vedere come tutte le regioni hanno una riproduttività inferiore al livello di rimpiazzo (2,1). Osservando invece la speranza di vita alla nascita nelle regioni artiche possiamo vedere come è evidente la discontinuità tra l’Artico russo e le altre regioni, europee e americane: in Russia la media è attorno ai 70 anni, nella parte europea e americana invece i livelli sono attorno agli 80 anni. Osservando la struttura per età delle popolazioni artiche (che dipende da vari fattori) possiamo vedere che le popolazioni più giovani (oltre il 24% dei giovani) sono quelle dei Northwestern Territories e Nanavut in Canada; le popolazioni più vecchie (oltre il 24% di +65enni) sono quelle del Québec in Canada e della parte più a nord della Scandinavia. Tuttavia in generale, dato il rapido declino della natalità, anche le aree più giovani stanno invecchiando rapidamente. Un aspetto interessante della struttura demografica dell’Artico è da-ta dal rapporto tra popolazione maschile e quella femminile. Tradizionalmente le popolazioni artiche indigene erano caratterizzate da un basso rapporto tra maschi e femmine, dovuto alla pericolosità delle attività della caccia, della pesca, e della navigazione in climi ostili. Oggi il rapporto tra maschi e femmine è molto basso in Russia, dovuta all’alta mortalità maschile per cause legate ai comportamenti che generano un’alta incidenza della malattie cardiovascolari. Questo però non è l’unico motivo del rapporto basso tra maschi e femmine, dovuto invece anche ad un nuovo modello legato alla migliore istruzione delle donne che si traduce in tassi più elevati di emigrazione. D’interesse sono anche le modalità di insediamento nell’Arti...


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