IL Problema DELL\'UOMO PDF

Title IL Problema DELL\'UOMO
Author Samyra Maucione
Course Teoria del soggetto e dell'alterità
Institution Università degli Studi di Perugia
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Riassunti libro "il problema dell'uomo" - Martin Buber...


Description

“IL PROBLEMA DELL’UOMO” – Martin Buber Introduzione

Genesi del testo: antropologia e sociologia Quest’opera di Buber fu pubblicata per la prima volta nel 1943 in ebraico a Tel Aviv con il titolo: “Il problema dell’uomo: le teorie nella sua storia”. Il sottotitolo dava la possibilità al lettore di capire che l’opera consisteva nella redazione di un corso tenuto a Gerusalemme nell’università ebraica nel 1938: era questo il primo corso svolto da Buber presso tale Università. Il testo fu poi pubblicato nel 1947 in lingua inglese e in tedesco. Si tratta di un’opera la cui genesi è rintracciabile in due elementi: 1) Dall’evoluzione del pensiero buberiano che si è sempre più interessato alla tematica

antropologica concentrandosi conseguentemente dello Stato.

sul discorso dei fondamenti della società e

2) L’esigenza, la necessità di Buber di svolgere il suo insegnamento di “filosofia della società”

o “filosofia sociale” nell’aprile 1938, anno in cui giunse dalla Germania in Palestina. Entrambi questi aspetti, che spiegano la genesi dell’opera, emergono dall’epistolario di Buber nel periodo che va dall’ascesa del nazionalsocialismo alla sua emigrazione. In molte di queste lettere, Buber testimonia di essere fortemente impegnato nella lettura di testi riguardanti il nesso tra teologia e politica e nella stesura di un suo testo su quest’argomento. Questo sarà pubblicato nel 1936 e ad esso egli darà il nome di “La questione del singolo”. Il problema affrontato in questo testo sarà quello di ricercare un’idea di essere umano che si contrapponga alle concezioni che vedono questo essere come una creatura immersa nella storia, nella natura, o nel peccato perciò priva di libertà come capacità di trascendere veramente con le sue sole forze l’esistenza. Il secondo aspetto – quello che riguarda la sua chiamata presso l’Università ebraica come docente - si manifesta nella corrispondenza che egli ha tra il 1933 e il 1938 con Gerard Scholem, Jehuda Magnes, Hugo Samuel Bergmann, allora residenti a Gerusalemme. Occupò così la cattedra di Filosofia sociale nel 1935. La scrittura di questo corso viene intrapresa nel 1937; rappresenta per lui un lavoro difficile e penoso poiché si trovò a dover utilizzare per la stesura materiale da lui scritto in tedesco e che traduce egli stesso in ebraico, un ebraico però insufficiente per poter trascrivere al meglio il suo pensiero. Non poteva nemmeno far affidamento sul revisore della sua opera poiché questa avrebbe cambiato lo stile del suo modo di scrivere. Presenta questo problema a Simon, e attraverso uno scambio di lettere gli chiede di

aiutarlo affiancandogli una persona che sappia si l’ebraico ma che non sia “stilista”. L’opera “il problema dell’uomo” rappresenta dunque non solo l’esposizione del punto di vista da lui raggiunto a proposito dell’interrogazione sull’uomo ma anche la testimonianza di una fase cruciale della sua vita, quella che vede l’emigrazione del filosofo dall’area geografica di lingua tedesca alla comunità ebraica in Palestina.

Prospettive del testo: il «tra» come «categoria primordiale» della «realtà» umana. L’opera “Il problema dell’uomo” rappresenta un elemento di novità nel percorso intellettuale dell’autore: mentre nello scritto “Io e Tu” Buber aveva posto l’accento sui diversi modi in cui l’io entra in rapporto con il tu e con l’esso, fino a giungere al tema del “Tu eterno”, e negli scritti successivi si era soffermata sulle varie forme in cui può presentarsi la relazione, sull’applicazione di quest’ultima nel campo pedagogico, e sul rapporto “io-Tu eterno” nelle fonti ebraiche e nel Chassidismo, in quest’opera per la prima volta egli presenta in modo dettagliato, confrontandola con quella di altri pensatori, la sua idea della condizione umana sottostante alla sua dottrina filosofica. Buber ritiene che l’uomo si differenzi da tutti gli altri esseri viventi poiché si configura come un essere sociale, la cui socialità non è mediata dall’interesse, utilità, ne dal sentimento della compassione o simpatia, ma è un “a priori” universalmente valido che pone immediatamente in contatto l’io e l’altro in modo gratuito, privo di egoismo, e nella reciproca disponibilità. Tale a priori è innato nell’uomo non tanto nel senso che esso vi è sempre stato fin dall’inizio della civiltà (sebbene Buber non escluda la sua presenza anche in fasi remote dell’evoluzione dell’uomo), quanto nel senso che, una volta comparso nella storia dell’umanità, assume l’aspetto di momento tipico, dotato di valore per ogni essere umano, in qualsiasi ambiente questi si trovi a vivere. La socialità ha luogo nel «tra» (interrelazione), categoria primordiale dell’esistenza umana attraverso la quale è possibile giungere alla realtà, a un mondo consistente ed effettivo . Nel sostenere questa sua posizione nel campo dell’antropologia Buber si richiama in questa opera a Platone, Kant e Husserl, filosofi ai quali si è ispirato per costruire il suo concetto di mondo del tutto nuovo rispetto a quelli affermati nel passato, e in tal modo modifica anche la percezione che l’uomo ha di sé come parte del mondo.  Di Platone Buber ricorda l’idea che il mondo naturale non può rappresentare il

punto di partenza del filosofare poiché questo è costituito dall’uomo in quanto non si sente più a suo agio nel mondo che è sua casa: Platone ha l’intento di vedere come l’uomo, che si interroga su se stesso poiché non ha più un rapporto armonioso con l’esterno, appartenga innanzitutto a un altro mondo rispetto a quello dato, e come sia necessario in secondo luogo riflettere sulla relazione tra tali due mondi.

 Buber cita Kant come il filosofo che oltre ad porre la domanda sull’uomo colse il

nesso tra la finitezza umana e l’infinito, che si stabilisce sul piano dell’etica, e non sul piano della conoscenza teorica dell’essere.  Del pensiero di Husserl, Buber menziona 4 punti: Il primo di questi riguarda il fatto che Husserl attribuì la più grande importanza alla ricerca filosofica che l’uomo compie su se stesso, e che egli considerò tale ricerca come il presupposto necessario per un rinnovamento della cultura e una guarigione dai mali di quest’ultima – ovvero la perdita della razionalità nelle scienze, il risorgere della persecuzione nei confronti della filosofia, il dominio della tecnica sul pensiero rivolto alla pura conoscenza. 1)

Il secondo punto si riferisce al fatto che Husserl sottolineò lo stretto legame esistente tra la filosofia e colui che filosofa, dunque tra la verità e l’esistenza. 2)

Il terzo punto si riferisce alla forte convinzione di Husserl della naturale socievolezza dell’uomo. 4) Il quarto punto si riferisce al fatto che Husserl si oppose a ogni divisione dell’essere umano in “materia” e “spirito”, sensibilità e ragione, poiché mirava ad indagare l’essere umano, nella sua multilaterale realtà e nelle sue possibilità ulteriori, in quanto unità. Buber in quest’opera tiene anche conto di Einstein poiché ne accetta la cosmologia costruita su idee matematiche e non più su idee che possono ancora avere un legame con la rappresentazione o l’immaginazione, come al contrario avveniva nella visione copernicana dell’universo: se per Einstein è vera l’espressione “imago mundi – nova imago nulla”, allora, osserva Buber, l’uomo contemporaneo è il primo a non avere davvero alcun appoggio nel mondo e deve trovare solo in sé e nell’altro i suoi principi e le sue certezze. 3)

Buber manifesta apprezzamento anche per altri filosofi – Agostino, Pascal, Spinoza, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Scheler – ritendendo i loro pensieri validi e degni di essere meditati (come la sofferenza del giusto e la felicità dell’ingiusto, l’amore verso Dio da parte dell’uomo, il rapporto tra esseri umani in quanto esseri corporei e insieme spirituali, le origini della morale, la relazione tra lo spirito e la realtà storica…), sebbene non ne condivide le soluzioni che ciascuno di loro dà a tali problemi. Ci sono due filosofi da cui Buber prende le distanze: Hegel e Heidegger. Hegel viene criticato per aver visto l’unico mondo dell’uomo nella storia così come essa si è svolta fino al presente, come se fosse possibile agli esseri umani, che non sono puro pensiero, ma anche sentimenti – osserva Buber – rinunciare all’azione in base a un ideale, un programma, un dover essere, e acquietarsi semplicemente in ciò che è.

Heidegger viene introdotto come il fautore di un pensiero che, nel tentativo di mostrare la realtà così com’è (complessa, varia..) mette in rilievo solo alcuni determinati modi di essere dell’essere umano, separandoli ufficialmente dall’intero, e presenta così non l’uomo ma un homunculus. Il punto che allontana Buber da Hegel, come da Heidegger, è il disconoscimento dell'etica come momento primario dell’essere umano, poiché ambedue privilegiano l’essere o come essere storico o come essere a cui si apre l’esistenza nella sua struttura temporale. Buber, nel porre la tematica dell'interrelazione, individua il nesso dell'essere umano sia con altri esseri umani, sia con la natura, sia con l’Assoluto. Dedica soprattutto la sua analisi al rapporto tra l’uomo e l’altro uomo. Il suo modo di vedere questa connessione si oppone alla dottrina liberale, che assume come punto di riferimento iniziale l’individuo, e alla dottrina collettivista: l’una e l’altra dottrina derivano dall’effetto della crisi, che nell’età moderna, dissolse le antiche relazioni sociali fondate sulla famiglia patriarcale, sulla corporazione, sulla comunità di culto, rese indipendenti la politica, l’economia, separò nell’uomo l’affettivo, il naturale da ciò in lui appartiene al puro pensiero o alla pura volontà. Secondo Buber queste due dottrine non rappresentano tanto due forme di organizzazione economico-sociale quanto due atteggiamenti esistenziali: il primo è l’atteggiamento del singolo che non percepisce come evento naturale il suo incontro con un altro singolo come “tu”; il secondo è l’atteggiamento di chi non distingue se stesso da una massa anonima, condividendone tutte le opinioni ed emozioni. Seppur differenti le due dottrine ( liberale e collettivista) condividono una visione parziale dell’uomo (nella prima un uomo isolato, nella seconda un uomo come semplice elemento, senza identità e annullato nella massa). A queste Buber oppone una terza via della “ comunità vera”, caratterizzata da vive relazioni sociali tra persone che si distinguono per i loro caratteri particolari sulla base di ciò che egli chiama “fede”, la reciproca fiducia. Prima ancora che sorga la cultura e la sfera dei reciproci diritti e doveri, c’è “l’uomo con l’uomo”: egli pensa che senza lo stabilirsi la relazioni non possono verificarsi situazioni di conflitto tra esseri umani (dalla discussione puramente teorica su vari argomenti, fino all’aperta violenza). È questo evento il punto di partenza della sociologia buberiana, che si richiama da un lato alla “fede” (poiché prende posizione a favore della sfera del “tra nell’esistenza umana), dall’altro al “sapere” (non rinuncia all’osservazione distaccata per cogliere il modo in cui questa sfera si instaura, analizzandone le varie forme, spesso sfuggenti e complicate). → la “relazione” è il punto di partenza della sociologia buberiana.

Scopo del testo: il sociologo come profeta-filosofo Buber prima di iniziare il suo corso illustrò lo scopo del suo insegnamento “filosofia della società”. Il suo corso intendeva presentare idee che dovevano da un lato contribuire al chiarimento di obiettivi comuni a tutti i popoli e dall’altro discutere nuovamente sull’antico problema del rapporto tra l’ideale e il reale, spirito e potere. Egli voleva fungersi da stimolatore e da guida, suscitando dubbi ed interrogativi, invitando all’azione. All’inizio di questo discorso disse che la sociologia moderna ha avuto origine come una scienza critica ed esigente. Egli menziona a tal proposito Saint-Simon, Comte, dicendo che questi intendevano la rigenerazione sociale, necessaria per una società in crisi, come fondata su un rinnovamento mentale. Per Buber qui sorgono due difficoltà: 1. Il cambiamento sociale richiede, prima ancora di una trasformazione del pensiero, una trasformazione dell’atteggiamento dell’uomo, considerato nella sua integrazione di passioni e ragione; 2. Lo “spirito” che dovrebbe condurre a un nuovo ordine a un nuovo ordine sociale è esso stesso dell’ordine che si vuole superiore.Per superare queste due difficoltà occorre considerare lo “spirito” come espressione di tutto l’uomo , dall’altro come capace non solo di analizzare la realtà, ma anche di prefigurarla. «Il sociologo è l’uomo che vuole conoscere ciò che è da cambiare». Dunque il sociologo deve assumere l’aspetto dello scienziato e dell’educatore; dovrebbe non solo costruire la teoria ma anche alla realizzazione pratica di essa. In questo discorso Buber accusa quella sociologia che, nel tentativo di essere neutrale, si separa tanto dall’attività educativa quanto da quella politica. Il sociologo non è solo un conoscitore obiettivo della società, ma conosce veramente nella misura in cui partecipa alla vita sociale. Il paradosso del sociologo è che egli è nello stesso tempo “legato” e “libero”, ha “sogni” e “passioni” che condivide con la sua “comunità, ma si rivolge anche in modo “ascetico” (contemplativo), mediante il pensare, al suo oggetto. I due elementi formano quella che Buber chiama “verità umana”. Consapevoli del drammatico legame tra vivere e pensare si comprende il perché la filosofia e la profezia ebraica richiedano il nesso tra spirito e potere, pur distinguendoli nettamente. Buber parla di due rappresentanti dei rispettivi filoni: Platone, per quanto riguarda la filosofia, ritiene che il filosofo possa isolarsi dalla società nel caso che questa sia assolutamente corrotta, poiché egli può salvarsi attraverso la contemplazione del mondo delle idee; Isaia, per quanto riguarda la profezia ebraica, ritiene che la vita di colui

che accoglie il messaggio dell’Eterno possa essere concepita solo stando a contatto con la vita del popolo. Per Platone lo spirito è una proprietà dell’uomo, per Isaia lo spirito è un evento che porta l’uomo dove esso stesso vuole; il primo ha una visione determinata e articolata dello Stato ideale, il secondo guarda ad una gloria di Dio che partecipa con lui e che gli indica solo di risvegliare il suo popolo ai comandamenti divini; inoltre Platone considera se stesso come portatore di una verità universale, mentre Isaia percepisce se stesso entro una situazione. Tuttavia secondo Buber i due sono accomunati dal fatto che entrambi esigono la connessione tra il dover essere e l’essere, dopo averli chiaramente distinti. Ambedue commisurano perciò il potere esistente a una realtà ideale – sia questa uno Stato esattamente configurato, come avviene in Platone, sia questa un’era di pace e giustizia, come avviene nel profeta. Buber presenta se stesso come filosofo sociale erede in parte della tradizione platonica e in parte a quella che si richiama ad Isaia come figura esemplare: dalla prima egli riprendeva soprattutto la nozione di sociologia come scienza, dalla seconda la nozione dell’impossibilità per l’individuo di separarsi dal mondo. Filosofia greca e Bibbia ebraica – le due fonti di luce del pensiero occidentale – si univano nel suo orientamento e confluivano nella sua idea dell’uomo come unità di “ragione” e “cuore”, universalità e singolarità, rivolto ad un “Tu” immediatamente percepito, ma anche pensato a partire da tale immediatezza. Lo scopo che Buber si prefiggeva con le sue lezioni era quello di invitare l’ascoltatore alla fiducia e alla speranza e all’esercizio della critica razionale.

Cap. 1: “L’itinerario del problema”

1.1 Le domande di Kant Anche Kant si occupa di antropologia filosofica, parte della filosofia che indaga le caratteristiche essenziali dell’uomo, che lo distinguono da tutti gli altri esseri. Kant distingue due tipi di antropologia: quella fisiologica, che studia l’uomo in quanto essere appartenente al mondo della natura; quella pragmatica, che si occupa dell’uomo in quanto distinto e autonomo dalla natura, cioè in quanto essere libero. Il campo della filosofia si può riassumere per Kant in tre/quattro domande fondamentali: 1. 2. 3. 4.

Che cosa posso conoscere? (domanda speculativa, conoscitiva) → metafisica Che cosa debbo fare? (domanda pratica) → morale Che cosa mi è consentito sperare? (domanda speculativa e pratica) → religione Che cos’è l’uomo? → antropologia

La metafisica risponde alla prima domanda, la morale alla seconda, la religione alla terza, l’antropologia alla quarta. Kant riconduce le prime tre domande alla quarta, in quanto possono rientrare nell’antropologia dal momento che si rapportano all’ultima. Kant considera questa domanda come il problema fondamentale. Si parla di antropologia filosofica proprio perché la meditazione filosofica qui si concentra nel trattare il problema della natura umana. L’antropologia di Kant però fallisce, nonostante egli abbia raccolto numerose osservazioni sull'uomo: egli si chiede “che cos'è l'uomo” ma non riesce a dare una risposta, egli fa solo osservazioni sulla conoscenza dell'uomo, sull'egoismo, sulla sincerità, la menzogna, le malattie mentali. Ma il problema di che cosa sia l'uomo non è neppure sollevato, come non sono sollevate questioni implicate in questo problema: la posizione particolare dell’uomo nel cosmo, il suo rapporto con il destino, la sua relazione con il mondo delle cose, la comprensione dell’altro (…). Nessuno di questi problemi è seriamente toccato. La totalità dell’uomo non rientra in questa antropologia. È come se Kant, dopo aver enunciato il problema come problema fondamentale, avesse avuto poi dei dubbi nel porselo in filosofia, ed è quindi come se egli non avesse nemmeno provato a rispondere a questa domanda. Heidegger1 ricerca la spiegazione di tale contraddizione nel suo scritto “Kant e il problema della metafisica” e la individua nel carattere della indeterminatezza in cui è posta la questione relativa alla natura dell’uomo. Nelle prime 3 domande di Kant viene posto in discussione il carattere della finitezza (della limitazione): 1 Se per Heidegger tutto ha inizio e fine con la metafisica che va comunque reimpostata e rifondata, per Kant tutto deve ascriversi all’antropologia, dal momento che le prime tre domande e le rispettive scienze si riferiscono alla quarta domanda.

«Che cosa posso conoscere?» Implica un non-potere, perché c'è qualcosa che non posso conoscere ed è perciò una limitazione;  «Che cosa debbo fare?» Implica che non si è ancora compiuto qualcosa e c’è perciò un limite; «Che cosa mi è consentito sperare?» denota anche una limitazione, in quanto significa che  un’attesa è accordata e un’altra è rifiutata a colui che si interroga → è una limitatezza perché forse c'è qualcosa in cui non posso sperare; 

All'antropologia, Heidegger sostituisce “l'ontologia fondamentale”: egli dice che un essere infinito e onnipotente non si porrebbe nemmeno la domanda di poter o non poter. Inoltre Heidegger sposta l’accento nelle tre domande poste da Kant e tenta di giustificare la contraddizione di Kant dicendo che la questione dell'uomo è l'unica domanda posta in maniera indeterminata e non limitativa.  Quest’ultimo (KANT), non si chiede il fatto se ci sia qualcosa che io possa o non possa, ma per lui l’essenziale è che io possa conoscere qualcosa, e che io posso chiedermi quale sia quella cosa che io ho il potere di conoscere. Qui, non è la mia finitezza a essere in discussione, ma la mia reale partecipazione alla conoscenza di tutto ciò che si dà a conoscere. Allo stesso modo, «che cosa devo fare?» significa che c’è un fare a cui io sono obbligato  e a cui io trovo accesso proprio sperimentando il mio dovere.  Infine, «che cosa mi è consentito sperare?» non vuol dire, come Heidegger pensa, che un potere sia qui posto in discussione, ma che c’è innanzitutto qualcosa da sperare per me; in secondo luogo vuol dire che mi è consentito sperare e in terzo luogo che proprio perché ciò è nelle mie possibilità, io posso sperimentare che cosa sia ciò che posso sperare. Rispetto alla quarta domanda «che cos’è l’uomo?» Kant fa rientrare al suo interno le altre tre: che cos’è dun...


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