LA Chiesa E LE Immagini PDF

Title LA Chiesa E LE Immagini
Author Lucrezia Ferri
Course Storia del cristianesimo
Institution Università degli Studi di Firenze
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Summary

riassunto breve del libro "La chiesa e le immagini" per il corso di Storia del Cristianesimo e delle chiese. ...


Description

LA CHIESA E LE IMMAGINI Nella lunga storia ebraica il divieto delle immagini non fu mai applicato con continuità, infatti possiamo trovare nei luoghi di culto numerosi dipinti e raffigurazioni con significati simbolici. Negli anni si è iniziato a pensare che la tradizione cristiana avesse ripreso questo aniconismo dal mondo giudaico, anche se questa tesi oggi non può essere più sostenuta. Nei primi tre secoli i cristiani manifestarono una netta opposizione verso le immagini utilizzate a scopi di culto, che tuttavia non portò ad un ripudio totale di esse per uno scopo religioso. All’inizio del IV secolo iniziarono a cambiare le cose; si arrivò alla redazione di un canone che vietava di rappresentare sulle pareti degli edifici religiosi quel che veniva venerato. Inoltre è a questo periodo che si riferiscono varie testimonianze che portano a pensare ad un popolo ricco di una pietà alimentata da immagini antropomorfiche di Cristo. Alla seconda metà del IV secolo però fanno riferimento alcuni testi che mostrano l’affermazione di un parallelo tra immagini e Parola: i dipinti di tipo storico fissavano la memoria della storia cristiana, costituivano lo strumento di insegnamento agli illetterati, e portavano il fedele all’avvicinamento alla fede. A partire dal V secolo e dalla seconda metà del VI si sviluppò il culto delle immagini, trasformate in vere e proprie icone, sia nelle case private che nelle chiese, per poi diventare a metà del VII secolo parte integrante della liturgia. All’interno della chiesa sul problema delle immagini si creò una divergenza di opinioni: coloro che erano a favore delle immagini e coloro che invece non lo erano. Tuttavia si arrivò all’affermazione di un parallelo tra parola ed immagine: la parola è l’immagine parlante, l’immagine è parola silenziosa. L’immagine da un lato rende più chiara l’idea che si vuole esprimere, dall’altro provoca un maggiore coinvolgimento sentimentale nel fruitore. Si viene a creare quindi la considerazione dell’utilità delle immagini nella pedagogia religiosa. I semplici, che erano i deboli di spirito, dovevano essere iniziati alla religione ed alla natura spirituale ed immateriale in modo adeguato alle loro capacità, facendo quindi leva non sull’intelletto ma sul senso della vista. Le immagini da un lato proponevano gli stessi contenuti della Bibbia e quindi svolgevano un ruolo didattico; dall’altro con la loro bellezza, aiutavano i semplici, svolgendo un ruolo iniziatico nei loro confronti a condizione che questi fossero correttamente indirizzati da una continua predicazione della Parola. In questi stessi anni in Occidente si avviò una legittimazione didattica delle immagini, ad opera del pontefice Gregorio Magno che riprese il parallelismo tra pittura e Scrittura. Egli affermò che le immagini aiutavano a fissare la memoria delle vicende di Cristo e dei santi e facilitavano l’adorazione, grazie alle emozioni suscitate dalla vista di esse; Gregorio infatti ricordava che . Si arrivò perciò a sostenere una equivalenza tra linguaggio figurativo e linguaggio scritto, posti oramai sullo stesso piano nella trasmissione del messaggio biblico. Allo stesso tempo in Oriente tra VI e VII secolo si portò a compimento il processo che trasformò l’immagine in vera e propria icona. La raffigurazione di Cristo, di Maria, dei santi non venne più semplicemente venerata, ma si cominciò a sostenere che il prototipo rappresentato fosse in qualche modo presente nella sua immagine, che quindi diventava icona. A questo punto iniziarono a crearsi anche leggende popolari relative alla presenza del soprannaturale nelle icone, che trovarono ampio riscontro nella letteratura agiografica; dall’altra parte i teologi si sforzarono di ricordare la distinzione tra la rappresentazione ed il prototipo, per evitare cadute nella superstizione idolatrica. Tra il 691 ed il 692, a Costantinopoli venne organizzato il Concilio Trullano che ordinò la sostituzione nelle chiese della rappresentazione simbolica di Cristo sotto forma di agnello con la sua raffigurazione umana, dal

momento che Dio si è reso visibile sotto forma umana può essere rappresentato sotto questo aspetto. Tuttavia il concilio non aveva risolto il problema relativo all’icona: essa è degna di essere venerata? All’interno della Chiesa queste idee differenti relative alle icone porteranno all’aprirsi di un conflitto. Alla base di esso sta un decreto dell’imperatore Leone III che nel 730 impose la rimozione di tutte le immagini. L’imperatore, i vescovi, l’esercito si contrapposero ai monaci in quanto essi, anche attraverso le icone, facevano discendere dalla santità la legittimazione dei rapporti sociali. Questo orientamento non era compatibile con l’unità politico-religiosa di uno Stato in cui si delegava solo all’imperatore il riconoscimento di ogni potere. Inoltre Leone III vedeva nella venerazione dell’icona una manifestazione dell’idolatria condannata del Vecchio Testamento. Egli interpretava la caduta dell’impero davanti all’avanzata islamica come un castigo divino per punire la popolazione caduta nel culto idolatrico delle immagini. Il movimento iconoclasta trovò un forte oppositore in Giovanni Damasceno: dal momento che la scrittura mostra come Dio abbia assunto in Gesù una forma umana, essa può essere riprodotta, e quindi negare la rappresentabilità figurativa di Gesù significava affermare che non aveva avuto luogo l’incarnazione. Infine giustificava il culto delle icone sia perché esse erano portatrici di santità, sia perché l’onore reso alla raffigurazione passava al prototipo. Egli quindi poteva attribuire ad esse la funzione di mediare il conseguimento di grazia e di aiuti al fedele. Tuttavia si preoccupò di distinguere tra culto di latria (riservato solo a Dio) e venerazione (che si può rivolgere a tutti i personaggi). Sul piano del rapporto tra immagini e Scrittura il Damasceno proponeva un parallelo: immagine e parola apparivano due forme diverse che presentavano lo stesso contenuto. Attribuendo ad esse funzioni diverse (alla parola di diffondere, all’immagine di fissare la verità) egli separava scrittura ed icona, iniziando un processo che porterà la teologia orientale a stabilire per il cristiano la necessità dell’immagine accanto a quella della Bibbia. Costantino V nel 754 convocò a Costantinopoli un Concilio che definì le posizioni iconoclaste. I padri conciliari arrivarono a ritenere eretica la venerazione e la produzione dell’icona di Cristo e di tutti gli altri personaggi. Essendo il divino irrappresentabile, l’icona di Cristo implicava o la separazione della sua natura umana da quella divina, o la confusione della sua natura divina con quella umana. Per loro l’unione di queste due nature si aveva solo nell’eucarestia, che quindi costituiva l’unica e vera icona di Cristo. Dopo il regno di Leone IV, il potere passò nelle mani di Irene, reggente del figlio, che nel 787 convocò un concilio a Nicea. Qui venne stabilito che le immagini avevano nella Chiesa funzione di agevolare la memoria dei fatti storici, stimolare l’emulazione dei personaggi rappresentati, consentire la venerazione, sostenendo che vi era piena corrispondenza tra le icone e la Scrittura. L’incarnazione del Verbo comportava la rappresentabilità della sua forma umana. La reazione dell’Occidente al Niceno II fu negativa ed i teologi di Carlo Magno respinsero queste deliberazioni attraverso i Libri Carolini, sostenendo che le immagini erano utili solamente per la memoria dei fatti storici e come ornamento delle chiese, sostenendo quindi la supremazia della Parola su le immagini. Si arrivò con questi alla demolizione dell’equiparazione tra pittura e Scrittura: la Bibbia rimaneva l’unica depositaria della verità cristiana ed il solo mezzo che poteva condurre all’autentica percezione di Dio. I Libri Carolini sostenevano che l’oggetto puramente materiale prodotto dall’artista non possedeva virtù che lo legavano alla sfera divina. Intanto in Oriente si andò nella stessa direzione che in Occidente. Nell’815 Leone V convocò un concilio per riaffermare le posizioni iconoclaste della Chiesa: l’icona non aveva in sé niente di divino ma poiché Cristo e la sua immagine si riferivano alla stessa persona, pur avendo due sostanze diverse, la venerazione dell’icona si volgeva alla persona senza toccare la sostanza dell’immagine. Inoltre venne affermato che, dal momento che l’autentica immagine di un personaggio religioso doveva essere consustanziale con la sua persona, vere icone di Cristo e dei santi non potevano essere le rappresentazioni pittoriche, ma piuttosto quegli uomini che, praticando le virtù cristiane, si rendevano simili a Dio. La definitiva sconfitta degli iconoclasti avvenne nell’843, quando Teodora, imperatrice reggente per il figlio Michele, riunì un’assemblea conciliare che sconfessò la precedente e ribadì il Niceno II. Questo conflitto si

chiuse con il concilio tenutosi a Costantinopoli tra l’879 e l’880 per superare la divisione tra Chiesa romana e bizantina; l’icona venne messa sullo stesso piano della Bibbia. Dal IX-X secolo iniziò l’epoca d’oro dell’arte bizantina. Le icone erano presenti anche in Occidente, e a partire dal X secolo si arrivò al superamento delle posizioni espresse nei Libri Carolini. In primo luogo avvenne il passaggio dai tradizionali reliquiari a statue-reliquiari che diventarono immagini cui si attribuivano miracoli e che venivano fatte oggetto di venerazione. Ne seguì un potenziamento della fruizione di esse e la promozione del loro arricchimento con ricchezze di vario genere. La Rivoluzione Giottesca poi renderà al fedele ancora più attraenti le immagini e favorirà la committenza di statue, dipinti, affreschi nelle chiese e nelle città per manifestare pubblicamente la pietà del soggetto committente e il suo prestigio sociale. A partire poi dal XIII secolo apparve l’immagine devozionale. A questo contribuì l’autorità ecclesiastica, come Innocenzo III che compose una preghiera concedendo un’indulgenza di dieci giorni a chi la recitava davanti all’immagine. Questi erano tutti canali per il conseguimento della vita ultraterrena. In Occidente si sviluppò quindi l’idea che l’immagine fosse depositaria di qualità miracolose, simbolo di identità della collettività cristiana e tramite per la salvezza; quindi la mentalità comune iniziò ad attribuire a tutte le immagini un carattere sacro. All’interno della Chiesa nacquero anche istanze di riforma; era difficile ritenere che l’omaggio reso alla rappresentazione passasse al prototipo, e il continuo emergere di un simbolismo sessuale creava preoccupazioni per l’indirizzo di quella devozione che si svolgeva davanti alle immagini. Da questi fattori nacque nella Chiesa l’allarme per il contenuto figurativo di esse ed un’esigenza di controllo ecclesiastico. Questa preoccupazione aumentò con lo sviluppo della cultura umanistica che manifestava la tendenza a rappresentare temi cristiani sotto forme pagane per avvicinarsi all’arte classica. Si presentò un nuovo problema: il rapporto tra la libertà dell’espressione artistica e l’esigenza della Chiesa di renderla funzionale alle proprie volontà. Con lo sviluppo della Riforma protestante queste tensioni aumentarono. Lutero nel 1522 affermò la legittimazione delle immagini per la loro funzione pedagogica. Successivamente poi irrigidirà il suo pensiero arrivando a legittimare la pratica iconoclastica nei casi di evidente idolatria a condizione che sia gestita da autorità ecclesiastiche. Diversa era la posizione di Zwingli, il quale affermava che le immagini materiali spingevano l’uomo all’idolatria. In questa prospettiva la fedeltà alla Scrittura implicava una radicale opposizione all’utilizzazione delle immagini come strumento di mediazione tra l’uomo ed il divino. Questa concezione verrà rielaborata da Calvino il quale credeva che ogni segno o rappresentazione del divino portasse il fedele all’idolatria, e quindi i cristiani non potevano ricorrere a rappresentazioni di Dio diverse da quella proposte nella Scrittura. Calvino non si oppose ad ogni tipo di raffigurazione, ma riconosceva l’utilità a scopo pedagogico delle immagini di contenuto storico o naturalistico, ritenendo però che la collocazione di esse nelle chiese portasse l’uomo alla superstizione e quindi occorresse rimuoverle e distruggerle, per restituire al culto cristiano la sua purezza. Si delineò una divisione tra i conservatori (la Scrittura andava spiegata agli incolti attraverso le predicazioni del Sacerdote sorretta anche da raffigurazioni visive) e gli innovatori (chiedevano che anche gli incolti attingessero al testo stampato; si arrivò anche alla diffusione in volgare del Nuovo testamento). Nel 1563 il Concilio di Trento prese provvedimenti relativi alla riforma della chiesa: alcuni padri volevano stabilire il privilegio della Scrittura sulle immagini, altri stabilire la loro funzione didattica, altri ritornare alle direttive del Niceno II, così si arrivò ad un compromesso, ovvero venne ribadita la liceità delle immagini di Cristo, Maria e i santi ma sottolineando il ruolo educativo dei sacerdoti per allontanare il popolo dalla superstizione; venne affidato all’episcopato il ruolo di controllo sulla produzione artistica. Le immagini

dovevano contribuire ad una riforma della vita cristiana, facendo conoscere la Scrittura e la storia sacra. Si saldavano quindi il controllo romano sull’arte e la sua esclusiva destinazione spirituale. Questioni lasciate aperte dal concilio di Trento alimentarono dibatti interni alla Chiesa che si affacciò alla fine del XVII secolo sul problema della rappresentazione di Dio: è lecito rappresentarlo in forma antropomorfa? Sulla questione intervenne Benedetto XIV che ribadì la liceità delle immagini come precise rappresentazioni delle Sacre Scritture (era giusto rappresentare Cristo in forma umana perché così si è presentato anche nella Bibbia). Nel XVIII iniziò a decadere l’arte religiosa, perché gli artisti, per creare le loro opere, iniziarono a prendere spunto da altri ambiti della vita. Questo allontanamento dell’espressione artistica dal cristianesimo portò alla nascita dell’estetica cristiana che affermava che essendo il bello espressione di Dio, solo nella religione si poteva trovare un’autentica arte che, essenzialmente religiosa, non poteva che condurre a Dio. Per realizzare l’ideale di un pittore, che fosse anche un perfetto cristiano, venne fondata a Roma nel 1839 la confraternita di San Giovanni, i cui aderenti si davano regole di vita per una santificazione che non doveva servire solo alla rigenerazione dell’arte cristiana ma anche a fare di essa un mezzo di proselitismo e conversione del mondo al cattolicesimo. Verso gli anni ‘60 dell’Ottocento si affermò nella Chiesa il Saint-Sulpice che proponeva una pietà stereotipata. Con questo si cercò di approdare ad una secolarizzazione dello spazio urbano, imponendo l’eliminazione dalle strade delle immagini religiose, ed il loro trasporto all’interno delle chiese. L’autorità ecclesiastica così facendo eliminò la presenza di rappresentazioni sacre a livello cittadino, sottolineando che esse richiamavano l’uomo al sovrannaturale. Così la Chiesa affidò la legittimazione delle immagini religiose ad un loro uso politico: le raffigurazioni sollecitavano ad una devozione che implicava il mantenimento dell’ordine pubblico e delle esistenti forme di governo. Nell’intento di rinnovare la vita cristiana nacquero scuole ed associazioni come l’ nel 1919; qui all’arte veniva assegnato uno scopo apologetico, veniva affermata l’obbedienza all’autorità ecclesiastica, e veniva affermato che gli artisti dovessero essere perfetti cristiani. Solo l’artista credente poteva produrre un’arte religiosa e il soggetto era fissato con norme liturgiche e dogmatiche. Anche il successo delle immagini cinematografiche diventò occasione per rivendicare un’esigenza di controllo, subordinando la produzione cinematografica alla morale cattolica, ed al papato. Ma all’interno della curia romana nacquero anche volontà che volevano portare ad una maggiore apertura nei confronti dell’arte. Il Concilio Vaticano II alla sua conclusione nel 1965 ricordava che la Chiesa è sempre stata amica delle arti e che il mondo aveva bisogno della bellezza per non cadere nella disperazione. Da un lato proclamava la piena libertà dell’arte nella Chiesa, dall’altro poneva come sua condizione il servire gli edifici sacri ed i riti, quindi rimuovere opere che erano contrarie alla fede, ai costumi, al senso religioso. Il pontefice proponeva una ripresa di dialogo tra cattolicesimo e arte, ponendo come condizione una informazione religiosa da parte degli artisti. Nel decennio che seguì il Concilio venne mostrata una certa disattenzione per le immagini. A partire invece dal secondo decennio iniziarono a riproporsi teorie di un ritorno al passato medievale considerato il perfetto periodo del cristianesimo, a cui però si contrapposero tendenze modernizzanti che volevano utilizzare la capacità emotiva delle immagini per trasmettere messaggi religiosi....


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