La crisi dell\'Io (Tesina di Maturità - Esame di Stato) PDF

Title La crisi dell\'Io (Tesina di Maturità - Esame di Stato)
Course Scienze
Institution Liceo (Italia)
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La crisi dell'Io (Tesina di Maturità - Esame di Stato)
La crisi dell'Io (Tesina di Maturità - Esame di Stato)
La crisi dell'Io (Tesina di Maturità - Esame di Stato)...


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ISSTITUTO DI ISTRUZI ONE SUPERIORE STATALE

“Emilio Ainis” Cl ass e V Sezione A Liceo delle Scienze Sociali MESSINA

La ac i de el ll l’ ’Io o cri is si

“Non è il cammino che è difficile ma è il difficile che è cammino” S. Kierkegaard

A cura di

Andrei CATALIOTO

Anno Scolastico 2002/2003

La crisi dell’Io 2

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MAPPA CONCETTUALE DEL PERCORSO PLURIDISCIPLINARE

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La crisi dell’Io 4

n pr rofi ilo o ge ene era ale e Un

La cultura dell’occidente è saldamente ancorata a una concezione forte dell’io, inteso come sostanza nazionale e unitaria. Tale concezione si era formata gradualmente nel corso dell’epoca moderna, ma nel XIX secolo, aveva compiuto un salto di qualità: mai come in questo secolo, infatti, il pensiero umano aveva considerato tanto potente la soggettività razionale, attribuendole – almeno in linea di principio – una pressoché assoluta capacità di dominio sulla propria coscienza, sul proprio corpo e sul mondo naturale. Già nel corso dell’Ottocento, tuttavia, non erano mancate autorevoli voci controcorrente, precorritrici della successiva evoluzione culturale, che rimasero non a caso isolate, incomprese e a volta perfino misconosciute fino all’ultimo trentennio del secolo. È infatti solo in questo periodo che l’immagine forte dell’io comincia a vacillare sotto i colpi della filosofia di Nietzsche e della psicanalisi di Freud. Nella prima metà del Novecento, la crisi dell’io esplode diventando il nuovo leit-motiv della cultura europea.

L’’a an n nu unc ci ar rsi i delll la ac cr issi

I precursori: Schopenhauer, Kierkegaard e Leopardi La filosofia dell’Ottocento è dominata dall’idealismo e dal positivismo. Per quanto antagoniste, queste due correnti filosofiche condividono una concezione forte dell’Io. La filosofia ottocentesca, tuttavia comprende anche due grandi voci controcorrente: Schopenhauer e Kierkegaard. L’attacco di Arthur Schopenhauer (1788-1860) all’Io assoluto teorizzato dall’idealismo tedesco e soprattutto da G.W.F. Hegel (1770-1831), è frontale e radicalmente distruttivo (il filosofo considera Hegel un “ciarlatano” e la sua filosofia “una vuota chiacchierata”). Schopenhauer, ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1818) riduce il soggetto umano a semplice manifestazione di un principio metafisico, impersonale e del tutto irrazionale: la volontà di vita. Da ciò scaturiscono due conseguenze:  la razionalità viene considerata come uno strumento dell’istinto di sopravvivenza;  l’agire del soggetto umano viene considerato come un prodotto dei bisogni e delle pulsioni naturali in cui si manifesta la volontà. Se è vero che in Schopenhauer è presente anche una valorizzazione dell’Io – in quanto capace di seguire un difficile cammino di liberazione dalla volontà –, è altrettanto vero che l’obiettivo finale di questa liberazione consiste nella rinuncia stessa dell’Io, nel suo annullamento attraverso un percorso che conduce all’ascesi e quindi alla noluntas. Meno drastica, ma non meno incisiva, è la critica condotta all’Io dal filosofo danese Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855) che, sulla base di una rigorosa analisi del vissuto esistenziale, mette a fuoco i limiti invalicabili della soggettività individuale: dal punto di vista della sua relazione con il mondo esterno, l’Io si trova infatti costantemente di fronte alla possibilità di scegliere tra il bene e il male, con la consapevolezza del rischio di errore e annientamento insito in ogni scelta. Ancora più profondo e insuperabile è però il limite che l’Io incontra nel suo rapporto con se stesso e che si manifesta nella disperazione. L’Io, infatti, non può né essere pienamente se stesso, cioè realizzarsi compiutamente come singola personalità, né essere diverso da se stesso, cioè tentare di mutare la propria costituzione individuale: l’uomo, infatti, non ha in se stesso la propria origine, ma deriva e dipende da Dio. Pertanto, solo nel rapporto di fede con Dio il singolo può trovare la sua realizzazione. Il rapporto di fede si fonda dunque proprio sul riconoscimento della radicale insufficienza dell’Io e presuppone che il credente rinunci a ogni garanzia fornita dalla razionalità.

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Anche nella letteratura ottocentesca il tema della crisi della soggettività è prerogativa ancora di pochi quali Giacomo Leopardi (1798-1837). Come per Schopenhauer, anche per Leopardi l’uomo vive in una situazione di ignoranza e di “inganno”. Il principio sconosciuto e impescrutabile che ha originato il cosmo, da un lato, pone l’uomo in una condizione di strutturale dolore, dall’altro, lo vincola alla vita suscitando in lui continue illusioni prive di fondamento e destinate a risolversi nella delusione e nel pessimismo cosmico. Che la vita dell’uomo sia consegnata al dolore è per Leopardi conseguenza del conflitto che il soggetto sperimenta tra l’infinitezza delle sue aspirazioni e la finitezza insuperabile della sue possibilità di realizzazione. L’uomo, infatti, non solo non è in grado di dominare la natura, ma è anzi succube del suo dominio che lo limita, lo condiziona, lo fa soffrire e può annientarlo in ogni momento (Tutto è male!, Il giardino sofferente). L’unica possibilità di riscatto del soggetto umano risiede, per Leopardi, nella capacità di comprendere lucidamente le propria condizione, rinunciando a ogni illusione. Ciò significa, paradossalmente, che la sola grandezza dell’uomo consiste nel riconoscere la propria miseria, la propria insuperabile nullità; e, infatti, l’unico vero rimedio alla sofferenza consiste per Leopardi nella morte, cioè nell’annullamento dell’Io. Il contesto storico: la crisi economica e le conseguenze sociali I presupposti storici della crisi della soggettività borghese emergono nell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Dal 1873 al 1896 l’economia europea fu colpita da una nuova crisi di sovrapproduzione, che innescò enormi processi di ristrutturazione e riconversione industriale: il fallimento delle piccole e medie imprese, la formazione di monopoli e oligopoli – anche attraverso la costruzione di trust e cartelli –, la concentrazione del capitale e l’ingrandimento degli impianti industriali, l’adozione del taylorismo e conseguentemente del fordismo, il peso maggiore del capitale finanziario nel controllo azionario delle aziende furono processi che provocarono vasti rivolgimenti sociali, non solo tra gli strati inferiori della società, ma anche all’interno della stessa borghesia, provocando fenomeni di declassamento e diffondendo un senso di inquietudine, insicurezza, precarietà. Ad aggravarlo si aggiunse la guerra commerciale tra le economie nazionali in seguito all’adozione del protezionismo da parte dei governi delle grandi potenze europee. Ma l’attacco più forte alla saldezza della coscienza borghese venne indubbiamente dal movimento operaio, in seguito al grande rafforzamento sia dei sindacati sia dei partiti socialisti. L’episodio della Comune di Parigi del 1871 è il primo caso di rivoluzione socialista della storia moderna. Nonostante i suoi indubbi limiti spaziali e temporali e il suo fallimento finale, l’evento ebbe una forte valenza simbolica per la società dell’epoca, aumentando l’inquietudine delle classi borghesi e alimentando la diffusione del mito rivoluzionario tra le classi proletarie. Nel trentennio successivo si formarono i grandi sindacati e i grandi partiti socialisti di ispirazione marxista in tutti i principali paesi europei. Il culmine di questo processo di espansione e organizzazione del movimento operaio fu la costituzione della Seconda Internazionale socialista nel 1889. schiacciata tra il potenziamento dell’alta borghesia da un lato e l’avanzata del proletariato dall’altro, la piccola borghesia avvertì sempre più profondamente un forte disagio sociale, che si ripercosse anche a livello individuale favorendo la messa in crisi dell’identità borghese. La nuova poetica del decadentismo In ambito letterario, la crisi della coscienza borghese ottocentesca si manifesta nel vasto e diversificato movimento del decadentismo, che si sviluppò a cavallo dei secoli XIX e XX. Esso trae origine dalla poetica della perte d’auréole di Charles Baudelaire (1821-1867) e dall’esperienza simbolista francese con la musicalità («De la musique avant toute chose», Art poétique) di Paul Verlaine (1844-1896), il voyant di Arthur Rimbaud (1854-1891) («Je dis qu’il faut être voyant, se faire voyant», La lettre du voyant) e Stéphane Mallarmé (1842-1898). Per quanto riguarda il romanzo, un esempio emblematico è rappresentato da The Picture of Dorian Gray (1891), di Oscar Wilde (1854-1900). In quest’opera la crisi dell’io borghese è particolarmente evidente sia nella fuga del protagonista dalla dimensione sociale a favore di una vita dedicata totalmente al piacere estetico (“Art for Art’s sake”) sia nel programmatico immoralismo, che lo porta ai crimini più efferati, sia, soprattutto, nel suicidio finale. Il ritratto – che La crisi dell’Io 6

invecchia e si corrompe mentre Dorian conserva la bellezza di un’illusoria giovinezza –, è il simbolo evidente della sua coscienza, di cui cerca in ogni modo di liberarsi; tale progetto è tuttavia destinato al fallimento poiché nel momento in cui Dorian Gray lo distrugge non fa altro che distruggere se stesso. Sempre nell’ambito del decadentismo italiano rintracciamo due grandi intellettuali del tempo: Gabriele D’Annunzio (1863-1938) e Giovanni Pascoli (1855-1912) una delle voci più significative della soggettività razionale. Il poeta viene identificato da Pascoli con un fanciullino (poeta puer); come tale egli rifiuta la razionalità oggettiva dell’adulto e si affida a una sensibilità infantile che non coglie le cose come sono, ma come le sente, in modo intuitivo e istintivo. Il poeta diventa così, in termini rimbaudiani, un “veggente” capace di intendere il linguaggio simbolico e analogico delle cose, che sogna a occhi aperti, mettendo sullo stesso piano reale e irreale; con il concetto di fanciullino Pascoli sembra rifarsi a qualcosa di analogo a ciò che il suo contemporaneo Freud denomina inconscio o Es, ed è portato a contrapporre, a una poesia dell’Io cosciente, una poesia dell’inconscio. Sul piano formale, la poetica del fanciullino si traduce in una rottura con la tradizione e in una radicale innovazione linguistica. Se il poeta è un fanciullino, il linguaggio della poesia deve essere quello del fanciullo; questi percepisce la realtà in modo alogico, sconnesso, frammentario e dunque, analogamente, la poesia deve rinunciare all’ipotassi per lasciar posto alla paratassi e all’analogia. Anche il lessico che deve descrivere le myricae ovvero le “umili tamerici” deve esser quello fanciullesco, semplice, elementare, dialettale, gergale, onomatopeico. Il metro poetico, a sua volta, viene utilizzato per esprimere cantilene e il verso viene spezzettato per conferirgli un andamento singhiozzante. Il depotenziamento dell’Io razionale non si manifesta dunque solo e tanto nel contenuto, ma soprattutto nella forma. Il linguaggio di Pascoli è infatti quello onirico proprio dell’inconscio, caratterizzato dall’autonomia e dalla superiorità del significato fonosimbolico rispetto al significato logico. Il pensiero critico di Nietzsche e la scoperta dell’inconscio Dopo gli annunci di Schopenhauer e Kierkegaard, la crisi dell’Io giunge a piena e radicale consapevolezza – proprio negli stessi anni in cui nasceva il decadentismo – nella filosofia di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900). Mirando a una severa critica della morale convenzionale, nell’opera Genealogia della morale (1887) Nietzsche mette in dubbio che l’Io possa avere una coscienza piena del significato delle proprie azioni sino a negare la libertà del volere. Già in questa frase emerge la tesi – di origine schopenhauriana – secondo la quale il comportamento umano dipende da un istinto di conservazione che fugge al controllo conoscitivo e pratico dell’Io. Ridotto a una funzione di tale istinto, l’Io perde non solo il suo carattere di sostanza, ma anche quello di unità: l’Io, sostiene Nietzsche, è solo un palcoscenico sul quale si agita disordinatamente una molteplicità di impulsi e di motivazioni. Successivamente, il filosofo tedesco chiarisce come l’Io nasca e si formi per rispondere al bisogno di comunicazione legato alla condizione sociale. La coscienza viene intesa come una funzione dei rapporti sociali, in particolare dell’ordine gerarchico che controlla la società. Ma è soprattutto nell’ultima fase della sua produzione filosofica che Nietzsche sferra un attacco radicale all’Io, sostenendo che il pensiero nasce in modo del tutto indipendente dalla coscienza individuale. Bisogna pertanto sostituire l’espressione “io penso” con “esso pensa” e, addirittura, si dovrebbe eliminare lo stesso pronome “esso”, in quanto contiene pur sempre una funzione di razionalizzazione di un processo che, per principio, sfugge alla razionalità. Può sembrare un clamoroso paradosso culturale che, pochi anni dopo, Sigmund Freud (1856-1939) arrivi a formulare tesi molto vicine a quelle di Nietzsche non solo senza mai averne letto – per scelta intenzionale – le opere, ma addirittura partendo da presupposti culturali antitetici e cioè da una cultura positivista e da una formulazione medica. In realtà, ciò rappresenta un segno evidente che la crisi dell’Io era ormai un fenomeno epocale, l’espressione di una situazione storico-culturale. Il padre della psicanalisi conferma infatti e approfondisce su un piano scientifico le intuizioni filosofiche di Schopenauer e Nietzsche sulla dipendenza dell’Io da un principio istintivo, inconscio e irrazionale. Tale principio è da Freud denominato Es – l’“esso” già tematizzato dal filosofo del Übermensch – e caratterizzato come libido inconscia, cioè come un’energia sessuale poliforma che agisce al di fuori della consapevolezza e del controllo del Super Ego. Freud afferma infatti esplicitamente che «l’Io non è più padrone nemmeno in casa propria». In questo modo, secondo lo psicanalista viennese, la psicoanalisi ha inferto una terza e più profonda ferita narcisistica alla coscienza umana, dopo quelle La crisi dell’Io 7

dell’eliocentrismo di Copernico e dell’evoluzionismo di Darwin. Se Copernico aveva infranto la credenza nella centralità cosmica dell’uomo come abitante della Terra (antropocentrismo) e Darwin quella della superiorità della specie umana rispetto al mondo naturale, Freud ritiene di aver abbattuto la credenza nel dominio dell’Io cosciente sul comportamento dell’uomo. Le espressioni figurative del disagio esistenziale Un grande interprete della crisi dell’Io tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento fu il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944), esponente della corrente esistenziale e precursore dell’espressionismo. Munch si ispirò alla filosofia di Kierkegaard e ha il merito di aver contribuito alla sua diffusione al di fuori dei paesi scandinavi, all’interno dei quali era rimasta confinata per tutto l’Ottocento. nei suoi quadri Munch esprime infatti i temi dell’esistenzialismo cristiano del filosofo danese e, in particolare, quelli dell’angoscia e della disperazione in quanto sentimenti che manifestano la finitezza e la conflittualità interna dell’Io.

Il l N ov vec cen nto o e l’ ’e es sp p lo osi ion e d elll la ac cris si

Il contesto storico La prima metà del novecento è segnata da due catastrofiche guerre mondiali, dalla rivoluzione russa e dalla successiva guerra civile, dalla prima grande crisi economica del primo dopoguerra a livello mondiale, da conflitti sociali violenti che spesso sfociano in tentativi insurrezionali falliti o repressi, da genocidi tecnologicamente pianificati, da regimi dittatoriali e totalitari diffusi che facevano della violenza sistematica uno strumento quotidiano di governo. Gli effetti distruttivi di questi cruenti fenomeni storici toccarono livelli mai prima raggiunti in così poco tempo, sia in termini di vite umane sia in termini di beni materiali. In questo contesto storico il mito ottocentesco di un Io razionale capace di esercitare un controllo sugli istinti attraverso la morale e la politica, e sulle forze della natura grazie alla scienza e alla tecnica, si frantumò definitivamente La filosofia esistenzialista In ambito filosofico l’espressione più diretta e consapevole della crisi delle civiltà occidentale fu l’esistenzialismo. Al suo interno fu Jean-Paul Sartre (1905-1980) a teorizzare nel modo più radicale la crisi dell’Io. Per Sartre «l’Io non è abitante della coscienza», in quanto l’Io proprio è un elemento del mondo tanto quanto l’Io di un altro uomo. Ciò significa che l’Io non è sostanza o autocoscienza, e non è neppure un ente dotato di contenuti conoscitivi propri e di un’attività intuitiva interna, ma è costantemente teso a superare l’opacità del mondo esterno, che si pone come dato insuperabile e ineliminabile. Sartre connota tale completa apertura della coscienza come “nulla”, in quanto assenza di una determinazione data e tensione verso il superamento dell’oggetto. Sul piano pratico ciò significa che l’Io, a differenza degli altri enti mondani, è assolutamente libero, aperto a ogni possibilità. L’angoscia diviene pertanto il sentimento costitutivo dell’Io, in quanto esprime al contempo la coscienza del suo nulla e della sua libertà incondizionata. Ma proprio perché fondata sul nulla, la libertà umana è destinata a sfociare nel fallimento. L’Io progetta sì di farsi Dio, cioè di diventare fondamento di se stesso e del mondo, ma ciò è impossibile, perché l’Io dipende dal mondo, ed è solo possibilità di negare il mondo, trascendendolo, ma non di produrlo. Dunque, conclude Sartre, «è la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli», turtte le imprese umane sono equivalenti e l’uomo è solo «una passione inutile».

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L’antieroe, protagonista del romanzo novecentesco Nel primo Novecento il tema della crisi dell’Io è il leitmotiv dei grandi romanzi europei: dall’Ulysses (1922) di James Joyce (1882-1941) a Il Processo (1924) di Franz Kafka (1883-1924), da To the Lighthouse (1927) di Virginia Woolf (1882-1941) a La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo (18611928), da Il Dottor Živago (1957) di Borìs Leonidovič Pasternàk (1890-1960) a La morte a Venezia (1912) di Thomas Mann (1875-1955), da L’Uomo senza qualità (1930) di Robert Musil (1880-1942) a À la recherche du temps perdu (1913-1927) di Marcel Proust (1871-1922) da Il Fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello (1867-1936) a L’Étranger (1942) di Albert Camus (1913-1960). L’eroe del romanzo ottocentesco si trasforma in antieroe, l’inetto, l’escluso, l’uomo senza qualità, e, parallelamente, viene attuata una rivoluzione nella forma romanzesca: il narratore onnisciente viene sostituito dallo stream of consciousness (flusso di coscienza), dalla mera registrazione dei mutevoli stati dell’Io, che disarticola in tal modo la continuità spazio-tempoarale della narrazione. L’autore che, almeno sul piano del contenuto, ha forse espresso con più radicalità la dissoluzione dell’Io – e con lungo anticipo sugli altri – è Luigi Pirandello, in particolare nei due romanzi Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila (1925). I personaggi di Pirandello sono uomini disgregati, dalla personalità alterata, maniacale, emblemi del caos dell’esistenza. Mattia Pascal rappresenta un caso di sdoppiamento della personalità, egli infatti abbandonato un Io per costruirsene artificialmente un altro, ma è destinato a rimanere spaccato tra il suo Io passato e quello presente, senza poter essere né l’uno né l’altro. Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, scopre l’inconsistenza del proprio Io, il suo essere un flusso di percezioni mutevoli, un susseguirsi di frammenti in perenne mutamento, il frutto delle innumerevoli proiezioni del suo ambiente sociale. In altre parole, il soggetto si frantuma in una miriade di sensazioni, si sfarina nelle cose che riflette, in un libro, in un albero, in una nuvola. Le avanguardie nelle arti figurative Nelle arti figurative la crisi del soggetto razionale si manifesta soprattutto nell’a...


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