Le fantasticherie del passeggiatore solitario 1 PDF

Title Le fantasticherie del passeggiatore solitario 1
Course Storia della Filosofia
Institution Università degli Studi di Torino
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Riassunto delle Passeggiate ...


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Le fantasticherie del passeggiatore solitario – Rousseau -

Prima passeggiata. Nella prima passeggiata R. racconta la sua attuale situazione, come ci è arrivato e il progetto di questo scritto. R. è un uomo solo, che non prova più alcun affetto per il genere umano dopo l’odio che si è diffuso nei suoi confronti a seguito della pubblicazione dell’Emilio nel 1762, che gli costò una messa in stato d’arresto, l’ordine di distruggere il libro e continue denigrazioni. Inizialmente R. aveva reagito a questa situazione lottando con tutto se stesso per proclamare la sua innocenza, ma in tutto ciò che fece, diede solo modo ai persecutori di trovare nuovi pretesti per offenderlo e deriderlo. Era caduto in uno stato di disperazione, che viveva come un sogno, o meglio un incubo, nel quale era stato catapultato da un giorno all’altro. Era passato dalla vita alla morte, e le sue speranze di riscatto svanirono giorno dopo giorno e cessarono per sempre con la morte del suo protettore. Da quel momento in poi R. si rese conto che per evitare tutta quella sofferenza, l’unica strada era la rassegnazione. Rassegnarsi gli avrebbe ridato la tranquillità e lo avrebbe liberato da ansie e timori, che inducono più sofferenze dei mali reali. Infatti le minacce, non essendo ancora compiute producono fervide immaginazioni, che sono sempre più grandi e dolorose del male reale, delle minacce compiute. Le minacce concrete fanno meno male della loro attesa. R. si rende conto che nella sua solitudine può essere più felice che vivendo in mezzo a tante persone che lo odiano e lo hanno portato a non provare più alcun affetto per la convivenza sociale. Sa che tutto ciò di cui ha bisogno è in se stesso, tranquillità, pace, speranza, mentre tutti gli oggetti che sono fuori di lui sono motivo di sofferenza. È in questo clima che scrive i dialoghi e le confessioni, commettendo un altro grave errore, cioè quello di diffidare delle generazione contemporanea e porre le sue ultime speranze nelle generazioni future. Non fa altro che dare nuovi spunti ai suoi persecutori, grazie ai quali però riesce a capire che deve scrivere esclusivamente per se stesso, facendo parlare la sua anima, che in questa situazione di abbandono degli interessi mondani, non ha fatto altro che accrescersi ed arricchirsi, intimamente e moralmente, producendo pensieri, sentimenti. È proprio questo il contenuto delle “fantasticherie”, un registro che contenga la descrizione dello stato abituale della sua anima, senza un metodo preciso, ma seguendo la spontaneità della meditazione in solitaria. Studiando la sua anima, scrivendo per se stesso, senza alcun timore, R. può così godersi la tranquillità della sua innocenza. Meditazioni che gli permetteranno di correggere il male rimasto e di spendere al meglio gli ultimi giorni della sua esistenza.

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Seconda passeggiata. Contenuto degli scritti, passeggiata con incidente, conseguenze e riflessioni.

R. apre la seconda passeggiata specificando quale sarà il contenuto di questo registro, cioè le sue passeggiate in solitaria e le fantasticherie che ne derivano quando la mente è totalmente libera e R. è pienamente se stesso. La meditazione è stata per R. la salvezza e ciò lo deve ai suoi persecutori, che lo hanno spinto a concentrarsi su se stesso, scoprendo in sé tesori nascosti e la fonte della felicità. Felicità che nessun altro uomo può quindi impedire di vivere. Tutto ciò lo aiutò a curare il suo cuore ferito e lo liberò dal ricordo dei mali subiti. Ciò che R. racconta sono i momenti di piacere e di estasi vissuti nelle sue passeggiate; ricorda le fantasticherie prodotte e nel ricordarle le rivive, riprovando lo stesso sollievo. Qui racconta la passeggiata del 24 ottobre del 1776; dopo pranzo si era spinto molto lontano da casa, in luoghi in cui la sua attenzione era catturata da numerose piante di cui conosceva l’esistenza ma che raramente aveva visto. Tutto ciò gli procurava piacere, tanto da raccogliere alcuni ricordi da portare con se. Dopo un po’ la sua attenzione non si concentrò più solo sui singoli oggetti, ma all’intero quadro e vide davanti a sé una campagna ancora verde e vivente, ma vuota, deserta e desolata dopo la vendemmia e che si preparava ad accogliere lo gelido inverno. Ispirava sia pensieri dolci, che tristi e proprio ciò lo portò a fare una similitudine con se stesso. Lui stesso si riconosceva in quella campagna, solo e abbandonato, con un’anima viva, uno spirito ancora con qualche foglia, barlume di speranza, ma rattristito dalle difficoltà. Cominciò a riflettere sui ricordi piacevoli custoditi nel cuore, ma anche sulle sofferenze degli ultimi anni, con grande concentrazione per ricordare tutto e poi metterlo su carta. Quando però gli accadde un incidente. Un grosso alano in corsa non riuscì ad evitarlo e conseguenza fu una brutta caduta di cui R. non avverti il colpo. Rinvenne dopo alcune ore circondato da dei giovani che lo avevano soccorso e gli avevano raccontato l’accaduto, ma lui non ricordava nulla, né chi era, né dove si trovava, né dove fosse diretto. Era come se fosse venuto alla vita in quell’istante. A mano a mano riuscì a ricordare e a tornare a casa, dove la moglie fu sconvolta per le sue condizioni. Aveva tagli, slogature, contusioni, ma nessuna frattura per fortuna. L’accaduto però non rimase

segreto, molte furono le versioni distorte che giravano per la città di Parigi e strani gli episodi che si susseguirono durante la convalescenza. Persone con cui R. non aveva mai avuto alcun rapporto si mostrarono solidali. Madame d’Ormoy gli inviò una copia del libro nella cui prefazione lodava R., adulazione che nascondeva sicuramente qualcosa che R. non tardò a capire a seguito di una sua visita. Ella aveva inserito una nota anonima, contro il Re, che tutti avevano attribuito al filosofo. Ancora poi circolava la notizia che R. fosse morto a seguito dell’incidente. La gente si sbalordiva a vederlo per strada, erano strati preparati oltraggi funebri ed era stata aperta una sottoscrizione per la pubblicazione postuma dei manoscritti presenti nella casa di R. Tutti questi episodi riaccesero la sua immaginazione che arrivò a comprendere che questo complotto universale non potesse essere frutto della sola malvagità umana, ma avesse origine divina. È Dio che vuole che soffra nonostante conosca la sua innocenza, R. non può far altro che accettare il suo destino, soffrire in silenzio e rassegnarsi fiducioso di ciò che accadrà dopo.

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Terza passeggiata. Rinnovamento esterno e materiale, ed intellettuale e morale dall’età di 40 anni. Scelta dei sentimenti, dei principi, adottati nel pieno della maturità dopo una lunga meditazione, da porre come basi per la sua morale.

Nella terza passeggiata R. spiega i passaggi del suo rinnovamento avviato all’età di 40 anni. Dopo aver trascorso una piacevole infanzia, nato in una famiglia di buoni costumi e allevato da un saggio precettore cattolico adottò lui stesso questa fede, la sua giovinezza fu altrettanto piacevole, grazie alla possibilità di studiare, donatagli da madame de Warens, alla solitudine campestre, allo studio di buoni libri, crebbe con un cuore pieno di buoni sentimenti. Traumatico fu l’ingresso in società, che gli fece capire che in quel mondo non avrebbe mai potuto trovare la felicità. Perciò si creò poche ambizioni, pochi obiettivi di successo e sradicò i suoi affetti dal mondo prima ancora di conoscere ciò che gli sarebbe capitato. Era stato da sempre diverso dalla maggior parte degli altri uomini : fin da bambino sentiva un forte desiderio di studiare la sua natura e il suo destino, di studiare per se stesso e non per istruire gli altri, di trovare lo scopo della sua esistenza. Per questo si era posto una soglia, quella di 40 anni, come epoca in cui, isolatosi completamente dal mondo, dedicarsi ad un importante esame di coscienza fino agli ultimi giorni della sua vita. R. infatti era tra i pochi dotti, ad avere da sempre l’idea di dover studiare nella giovinezza, per poi applicare la saggezza acquisita nella vecchiaia. Non ha senso per lui infatti, acquisire conoscenze in vecchiaia, quando l’unica cosa che ci resta da fare è imparare a morire e non a vivere. Però se c’è una cosa che è importante ed utile imparare anche in vecchiaia, essa è lo studio di quelle virtù che l’anima conserva anche dopo essersi staccata dal corpo e da cui mai si separa, come l’integrità, la dolcezza, la rassegnazione, la giustizia imparziale. Questa fu la strada ( il sentimento scelto) che R. nel pieno della consapevolezza e maturità, decise di intraprendere e che portò avanti con successo, per intraprendere un rinnovamento esterno e materiale, ed intellettuale e morale. A 40 anni infatti, lasciò il lavoro, cominciò ad isolarsi dagli affetti del mondo, a dedicarsi all’ozio e all’indifferenza, per soddisfare la sua filosofia della “felicità” da trovare in se stesso. Non furono pochi gli ostacoli che dovette affrontare, le certezze che gli vennero meno dal filosofare degli altri, ma decise di credere solo nelle sue convinzioni e di andare avanti, dedicandosi solo alle cose da cui l’uomo può trarre felicità (non alla metafisica e alle verità eterne) e ogni volta trovava la forza e la sicurezza nel sentimento che aveva scelto attraverso una lunga meditazione. I momenti bui per sua fortuna duravano sempre poco e quando arrivarono gli anni più dolorosi della sua vita, cioè 10 anni dopo con la pubblicazione dell’Emilio, si rese conto dell’importante percorso preparatorio che aveva intrapreso ancor prima di conoscere il suo vero destino. Dopo qualche anno riuscì infatti a recuperare la tranquillità e a dare il giusto peso ai giudizi insensati degli uomini, che avevano molto meno peso delle sue convinzioni, acquisite con l’appoggio della ragione e della coscienza.

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Quarta passeggiata. Verità e menzogna. Acquisizione di un insegnamento utile anche in vecchiaia.

Dopo aver letto il trattato di Plutarco “come ottenere vantaggi dai propri nemici” e dopo aver ritrovato una copia del giornale in cui l’abate Rosier scimmiottava il suo vero motto “Consacrare la vita alla verità”, R. decide di riflettere sul tema della Menzogna nella sua quarta passeggiata, non sapendo quale grande insegnamento ne avrebbe tratto. La prima cosa che gli venne in mente, fu la più grande menzogna da lui detta in giovinezza. Incolpò una cameriera di aver rubato un nastro che lui stesso aveva preso per donarglielo. E conseguenza di quella menzogna fu il licenziamento della giovane. Quell’episodio aveva cambiato per sempre la vita di Rousseau, che riconobbe la menzogna come il peggiore dei mali, di cui doveva assolutamente liberarsi per agire sempre in nome della verità. Guardando però più a fondo in se stesso, si rese conto di quante volte spesso aveva mentito, bugie delle quali non provava alcun pentimento.

E quindi decise di chiarirne il perché. Per fare ciò parte da una frase : mentire è nascondere la verità e la articola in due questioni : 1) come e quando si deve dire la verità? La verità in senso generale e astratto è il più prezioso dei beni, che spinge l’uomo verso il suo fine; vista però in relazione al singolo, è qualcosa che può fare anche male, o può essere del tutto indifferente. Ci sono diversi tipi di verità. Ci sono casi in cui le verità sono dovute, non vanno negate perché si tratta di cose importanti e da cui dipende la felicità di qualcuno che ne ha pieno diritto o perché sono verità storiche, che riguardano la condotta degli uomini, la giustizia, la convivenza sociale, ecc. Ma ci sono verità che non siamo obbligati a dire, perché non hanno conseguenze per nessuno, sono inutili per tutti, e non implicano la felicità di qualcuno. Chi tace su queste verità non mente affatto. 2) si può ingannare innocentemente? Per poter dire che una menzogna sia innocente bisogna guardare due cose, l’intenzionalità di chi la dice o scrive e le conseguenze che essa arreca. Non basta non avere l’intenzione di nuocere affinché la menzogna sia innocente; vi deve essere la certezza in chi la dice di non nuocere né il diretto interessato, né nessun altro. Cosi come vi sono diversi tipi di verità, ci sono diversi tipi e gradi di gravità nella menzogna. Mentire per favorire se stessi è impostura; mentire per favorire altri è frode; mentire per nuocere è calunnia, la peggiore delle menzogne. Tutto ciò che ferisce giustizia e verità è menzogna. Poi ci sono le finzioni, cioè ciò che è contrario alla verità, ma non interessa in alcun modo la giustizia o la verità morale. Vi sono finzioni a scopo morale, come le favole o gli apologhi, finzioni per diletto, come i romanzi. Chi riconosce nella finzione una menzogna ha un animo troppo sensibile, più di quello di R.. Dopo aver risposto a queste due questioni continua facendo la distinzione fra chi viene considerato sincero in società e fra chi R. considera realmente sincero. In società viene considerato sincero colui che fin quando deve rivelare, scrivere, confessare delle cose che non lo riguardano in prima persona sono fedeli alla verità. Quando invece si tratta di qualcosa che li riguarda sono pronti a mentire e anche ad affibbiare menzogne da loro elaborate ma affibbiate ad altri. Questa non è sincerità. Per R.. l’uomo sincero è colui che quando deve parlare di se stesso o deve fare un discorso che potrebbe provocare danno o svantaggio, lode o biasimo, stima o disprezzo a qualcuno, è fedele alla verità. Mentre può mentire o costruire delle finzioni intorno a cose banali. Si potrebbe dire che questo non è amore per la verità, invece lo è perché si tramuta in amore per la giustizia, due parole che diventano sinonimi per la persona sincera. R. però si rende conto che lui stesso non ha rispettato le sue regole di coscienza sulla verità e sulla menzogna. Tutta colpa però del suo temperamento, che lo faceva parlare sempre prima di aver pensato. Le sue menzogne e finzioni erano sempre dovute all’imbarazzo e alla vergogna, mai alla falsità. C’erano però anche tante verità che lui aveva tenuto nascoste per vantaggio altrui e di cui non si era mai vantato neanche nelle confessioni. Ma ciò non può essere una giustificazione, perché se diceva che il suo motto era “consacrare la vita alla verità” doveva agire sempre in nome della verità, per evitare di mancare di rispetto alla sua stessa dignità. Questo è il grande insegnamento acquisito nella quarta passeggiata, insegnamento che non ha età per poter essere appreso : non è mai tardi per imparare dai propri nemici a essere saggi, sinceri, modesti e meno presuntuosi.

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Quinta passeggiata. L’isola “felice” di Saint Pierre e il sentimento dell’esistenza.

Nella quinta passeggiata R. racconta del luogo più bello, quello in cui ha vissuto più piacevolmente e dove avrebbe desiderato passare il resto dei suoi giorni, l’Isola di Saint Pierre in mezzo al lago di Bienne, l’isola che riusciva a rendere felice l’uomo che ama la solitudine. Vi era una tranquillità assoluta, in quanto le strade non permettevano il passaggio delle carrozze ed erano pochi i visitatori; gli unici rumori erano quelli della natura. C’era una sola grande casa in cui vivevano un esattore, la sua famiglia e la servitù che si occupava anche delle colture, vigneti, frutteti, ecc. Rousseau vi passò due mesi, dapprima solo poi si fece raggiungere da sua moglie. In questi due mesi non disfò neanche le valigie, perché tutto era perfetto così com’era. In camera non aveva neanche uno scrittoio, né libri o scartoffie, solo piante e fiori. Assaporò il dolce “far niente”, e trovò grande interesse nello studio della natura dell’isola. Faceva lunghe passeggiate al mattino, dopo cena, accompagnandosi con un libro di botanica; aiutava i coloni nei campi; usciva in barca e si lasciava spesso cullare dalla corrente con lo sguardo rivolto verso il cielo, oppure si recava sull’isolotto vicino, disabitato, dove creò una colonia di conigli. Questo luogo perfetto per fantasticare, la tranquillità, la pace che vi si respirava, si conciliavano perfettamente con l’animo di R. che conquistò uno stato di felicità piena e perfetta, che nulla ha a che fare con la felicità vana che dura attimi. Una felicità ritrovata in se stesso e nel puro piacere di esistere. Il sentimento dell’esistenza, è infatti tra i più preziosi sentimenti di felicità e pace, in chi si spoglia di piaceri e passioni mondane. E lui aveva una certa predisposizione a raggiungere quello stato, attraverso un movimento uniforme e moderato, senza scosse o agitazioni, né pause o calma assoluta. È il movimento che crea la vita, ma quando questo è troppo brusco, risveglia in noi turbamenti, quando è troppo lento ci fa sprofondare nella tristezza. R. che sarebbe stato in grado in qualunque luogo di raggiungere quello stato, confessa che nell’isola di Saint Pierre, dove nulla richiamava i

ricordi tristi e si era così lontani dal resto del mondo, gli riusciva ancora più facilmente. E siccome la crudeltà umana non gli aveva permesso di vivere lì il resto dei suoi giorni, non poteva però impedirgli di tornare a fantasticare in quei luoghi attraverso l’immaginazione e di provare gli stessi piaceri che provava quando era lì, e forse ancora di più visto che spesso durante l’estasi alcuni oggetti sfuggivano ai suoi sensi, con l’immaginazione aveva tutto più vivido. Era più presente, con piacere e forza, di quando non lo era realmente.

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Sesta passeggiata. Dietro azioni meccaniche ci sono sempre motivi di “cuore” che si possono cercare. Quando fare del bene diventa dovere, non lo si fa più con piacere, diventa anzi costrizione. E fare del bene a malincuore non ha senso.

R. nella sesta passeggiata cerca in se stesso il perché di un’azione meccanica che compie quando si trova sul nuovo boulevard, cioè una deviazione che puntualmente compie. E sorride quando ne trova la causa che all’apparenza non gli era per nulla chiara e scontata. Egli infatti si rende conto di deviare strada per evitare di imbattersi nel bambino zoppo, a cui con piacere aveva fatto un’offerta caritatevole. Ma questo episodio si era trasformato in abitudine, che cominciava a stare stretta a R. soprattutto per via delle adulazioni da parte del ragazzo, che lui intuiva essere un inganno. R. sapeva bene che una volta fatto del bene a qualcuno, anche la carità, tra benefattore e beneficiario si stipula un contratto, dove il beneficiario porta riconoscenza, e il benefattore continua a mostrare la sua buona volontà. Ma quando il fare del bene con piacere, si trasforma in dovere, in costrizione fatta a malincuore diventa quasi una sofferenza per il benefattore, soprattutto per quello debole e imbarazzato che non sa venire meno al contratto e all’attesa che ha creato nel beneficiario. Ma tutto ciò va contro la propria libertà e in nome di questa R., che è comunque di indole buona, non ha mai fatto del male a nessuno e non è come lo dipingono gli uomini che lo odiano e verso i quali lui prova solo disprezzo, decide piuttosto di non agire. Egli concepisce la libertà dell’uomo come il non fare mai quello che non si vuole, quindi preferisce non fare nulla nemmeno la sua volontà, pur di non fare un torto a qualcuno. Era arrivato a questa conclusione dopo vent’anni di esperienze e avversità, (si riferisce a prima della pubblicazione dell’Emilio, a quando litigò con Diderot, Dalambert, ecc.), in cui si era reso conto che gli uomini erano cambiati e di conseguenza lui stesso in quel clima era cambiato. Quindi la decisione di astenersi quando nel compiere una buona azione, ne aveva sì sempre il merito, ma non ne gioia più.

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Settima passeggiata. L’allontanamento dagli uomini e il “rifugio” nella botanica.

Rousseau nella settima passeggiata sente già che la sua raccolta di fantasticherie sta volgendo al termine, perché nella situazione in cui si trova non può far altro che seguire le sue inclinazioni, che si dirigono altrove, verso la botanica. Si era già dedicato a questo passatempo in passato, durante i suoi viaggi, ma una volta stabilitosi a Parigi, per via di altri impegni, non ci si era più dedicato fino a quando a 65 anni non si era risvegliato in lui questo desiderio. Dedicarsi a ciò che lo divertiva, evitava di far crescere in lui sentimenti di odio e vendetta verso il genere umano ed era allo stesso tempo ...


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