Le origini delle lingue neolatine tagliavini PDF

Title Le origini delle lingue neolatine tagliavini
Author Alessia Tuscano
Course Filologia Romanza
Institution Università degli Studi di Messina
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Summary

Riassunto dettagliato dei primi capitoli del libro tagliavini....


Description

LE ORIGINI DELLE LINGUE NEOLATINE. 

Paragrafo 1: Il metodo comparativo.

La filologia romanza ha per oggetto lo studio, prevalentemente storico e comparato, delle lingue e letterature romanze o neolatine. Sorge, come disciplina a sé stante, al pari della filologia germanica e della linguistica comparata, in seguito al movimento culturale provocato in Europa, sullo scorcio del XVIII secolo, dal Romanticismo. FRIEDRICH SCHLEGEL (1772.-1829), nel suo celebre libro Sulla lingua e la sapienza degli Indiani mostrò per la prima volta i rapporti che intercorrevano fra il Greco, il Latino e il Germanico da una parte e il Sanscrito, l'antica lingua sacra dell'India, dall’altra. Suo fratello AUGUST WILHELM SCHLEGEL (1767-1845) scrisse un volume alle Observations sur la langue et la littérature provençale, che ha molta importanza per la storia della linguistica, ma soprattutto per la storia della filologia romanza. FRANZ BOPP (1791-1867) è considerato il padre della linguistica storica; egli portò le sue comparazioni non sul lessico, ma sulla struttura grammaticale delle lingue indoeuropee. Pertanto, solo dal principio del secolo scorso si iniziarono a studiare le lingue con metodo storico e comparativo. I fratelli Schlegel, pur avendo già una visione storica della lingua, preferirono classificare i vari idiomi secondo un sistema morfologico, cioè secondo un sistema che si basava sulla forma interna della struttura linguistica (e non soltanto sulla morfologia. intesa nel senso tradizionale), sistema che si potrebbe chiamare “tipologico”. Questa classificazione morfologica distingueva tre tipi di lingue: le isolanti o monosillabiche, le agglutinanti e le flessive. Bopp invece preferisce la classificazione genealogica: considera affini le lingue che sono il prodotto dello svolgimento di un unico idioma. Le lingue indoeuropee, per esempio, sono affini tra loro perché sono tutte la continuazione di una lingua più antica non conservata. Le lingue romanze sono l’unico gruppo di lingue genealogicamente affini la cui base, il Latino, si è conservata. Mentre per le lingue germaniche, per le lingue slave e per l’intera famiglia indoeuropea l'affinità fra singole forme e parole risulta unicamente dalla comparazione, ma ne è ignota la base, nelle lingue neolatine la base è nota, almeno nella maggior parte dei casi, e tutte quelle forme, pur essendo affini fra loro allo stesso modo di quelle germaniche o slave, trovano una logica spiegazione nella base latina.



Paragrafo 2: Gli albori dell’indagine linguistica nel campo neolatino.

Le lingue neolatine sono talmente affini tra di loro che già il semplice criterio dell’evidenza doveva bastare per rivelarne la parentela. Già DANTE ALIGHIERI, nel suo De vulgari eloquentia, vide l’affinità tra le lingue romanze occidentali e scrisse un interessante saggio dei dialetti italiani. Il primo libro tratta di cosa sia il volgare e di quale dovrebbe essere il volgare d’Italia. Dante distingue tre razze con idiomi differenti: 1. una occupa il Nord Europa (tedeschi, ecc.); 2. una occupa la parte orientale (greci); 3. e una occupa la parte meridionale con una lingua a sua volta divisa in tre parti. Per Dante il Latino è una lingua diversa, è un prodotto artificiale dei dotti, una « grammatica » che non va soggetta alla diuturna alterazione delle lingue; esso sarebbe sorto dall'idioma triforme per comune consenso di più genti. Lo Spagnolo (o Provenzale), il Francese e l’Italiano sono invece corruzioni di una lingua sola comune ai tre popoli; ma questa lingua per Dante non è il Latino, che sta a sé e sopra tutte. È dunque un errore di prospettiva. Dante passa poi ad esaminare la questione del volgare italiano (vulgare latinum); se le tre lingue suddette sono l'evoluzione di un idioma solo, anche i vari dialetti d’Italia sono corruzioni di un unico tipo primitivo. Durante il Rinascimento, non di rado si hanno accenni a questioni linguistiche che preludono la nascita della filologia romanza. POGGIO BRACCIOLINI (1380-1459) sostenne che il Latino non era stato una lingua artificiale e che direttamente da esso discendevano l’Italiano e le altre lingue romanze, mentre PIETRO BEMBO (1470-1547) cercò di mettere in risalto la nobiltà dell’Italiano. In Spagna ANTONIO DE NEBRIJA (1446-1522) compilò un dizionario latino-spagnolo, seguito da un Vocabulario español-latino, e scrisse la prima grammatica spagnola. JUAN DE VALDES scrisse il Diálogo de la Lengua, in cui si danno alcuni canoni dell’etimologia. SEBASTIAN DE COVARRUBIAS (1539-1613) scrisse il Tesoro de la lengua castellana, primo saggio di un dizionario etimologico spagnolo, ancora oggi consultato per il lessico della lingua antica e per le ottime definizioni. GREGORIO MAYANS Y SISCAR (1699-1781) scrisse il volume Orìgenes de la lengua española, che forma una specie di enciclopedia linguistica spagnola.

In Francia GILLES MENAGE (1613-1692), nelle sue Origines de la langue française e Origini della lingua italiana, portò all’etimologia un contributo maggiore dei suoi predecessori. Nel 1612 a Venezia si ebbe la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, che segnava un grande progresso nella lessicografia italiana. Infine, CHARLES DU CANGE (1610-1688), nel suo Glossarium mediae et infimae lalinitatis, raccogliendo parole e frasi da documenti medievali, permise agli etimologisti di attestare forme romanze e germaniche in secoli anteriori alle prime documentazioni volgari e talvolta sotto aspetti meglio conservati.



Paragrafo 3: La filologia romanza come disciplina scientifica.

FRANCOIS RAYNOUARD (1761-1836) può essere considerato il padre della filologia romanza. Incaricato di collaborare alla quinta edizione del Dizionario dell’Accademia Francese, si rese conto che, per studiare bene il lessico francese, era necessario investigare gli antichi documenti e i dialetti moderni. Studiò a fondo il Provenzale antico (la lingua dei trovatori), pubblicò un’ampia antologia di testi e compilò un vasto dizionario in sei volumi, ancora oggi indispensabile. Tuttavia, commise un errore di prospettiva: non riteneva che le lingue romanze fosse una derivazione diretta del Latino, ma che dal Latino popolare si fosse sviluppata una “lingua romana” parlata, con poche varietà, dal VII al IX secolo e identificabile con il Provenzale (da lui definito “langue romane”). FRIEDRICH DIEZ (1794-1876) ebbe il merito di adattare alle lingue neolatine il metodo storico-comparativo inaugurato da Bopp per le lingue indoeuropee e da JAKOB GRIMM (1785-1863) per le germaniche. La Grammatica delle lingue romanze e il Dizionario etimologico delle lingue romanze pongono le basi della linguistica romanza come disciplina storica. Infatti, Diez fu non solo il fondatore della “linguistica”, ma anche della filologia romanza nel senso più vasto. Cominciò la sua grammatica delle lingue romanze sostenendo che sei sono le lingue romanze più importanti, sia per la loro originalità grammaticale, sia per la loro importanza letteraria: due a Est, Italiano e Valacco (Rumeno); due a Sud-Ovest, Spagnolo e Portoghese; e due a Nord-Est, Provenzale e Francese. Secondo Diez, tutte hanno nel Latino la loro prima e principale fonte, ma non sono scaturite dal Latino classico: derivano dalla lingua popolare dei Romani, usata accanto al Latino classico. Pertanto, il suo criterio di classificazione è fondato su basi non strettamente linguistiche, ma prevalentemente culturali e storiche.



Paragrafo 13: Considerazioni finali.

Per quanto la filologia romanza sia unitaria come disciplina scientifica, essa si presenta con aspetti diversi secondo i vari paesi ed in ciascuno di essi ha limitazioni e compiti differenti, derivanti anche da ragioni di indole pratica. È indubbio che la linguistica romanza ha per oggetto l’indagine di tutte le lingue e di tutti i dialetti romanzi dalla loro preistoria ad oggi; tuttavia, non è altrettanto sicuro che la comparazione tra le letterature romanze sia utile, o addirittura possibile, al di là di una certa epoca. Per esempio, la letteratura rumena non è sicuro che possa entrare utilmente in un quadro comparato delle letterature romanze, mentre la lingua romanza è uno dei più importanti pilastri della linguistica neolatina. Una comparazione tra le letterature neolatine occidentali è possibile solo nel più vasto campo della cosiddetta letteratura comparata, indipendentemente dal fattore linguistico, che è il principale cardine dell’unità neolatina.



Paragrafo 14: Latino e Romanzo.

Le lingue romanze o neolatine sono un gruppo di lingue geneticamente affini di cui si è conservata la fonte comune, cioè il Latino. Infatti, esse sono, almeno nel loro patrimonio principale, la continuazione del Latino e non vi è alcuna interruzione tra Latino e Romanzo. [•••]



Paragrafo 15: Il Latino e i dialetti italici.

Dal punto di vista linguistico, il Latino fa parte della famiglia indoeuropea in cui rappresenta un’area marginale del gruppo di lingue kentum. Strettamente affini al latino erano alcune varietà dialettali (da alcuni chiamate “ausoniche”) poco conosciute, ad eccezione del Falisco (dialetto di Falerii, città posta in territorio etrusco, dove ora sorge Civita Castellana, Viterbo). Sono considerati affini al Latino anche i dialetti italici di tipo Osco-Umbro. La maggior parte degli indoeuropeisti parlava di gruppo italico, composto dal LatinoFalisco e dall’Osco-Umbro. Il gruppo Osco-Umbro (o Umbro-Sabellico oppure Italico propriamente detto, secondo la terminologia più comune) comprendeva:

1. l’Osco, lingua degli antichi Sanniti, parlata nel Sannio e nella Campania, in parte della Lucania e del Bruzio, nonché dai Mamertini nella colonia siciliana di Messana (Messina). È conosciuto grazie a oltre 200 iscrizioni, tra cui le più importanti sono la Tabula Bantina e il Cippus Abellanus; 2. i dialetti Sabellici, poco conosciuti, dei popoli che abitavano fra il Sannio e l’Umbria, come il Peligno, il Marrucino, il Vestino, il Marsico, il Sabino (più vicini all’Osco) e il Volsco (più vicino all’Umbro, noto grazie alla Tabula Veliterna); 3. l’Umbro, parlato tra il Tevere e il Nera nell’antica Umbria, era il più settentrionale dei dialetti italici ed il meglio conosciuto grazie alle Tavole Iguvine. Tuttavia, il Latino-Falisco e l’Osco-Umbro sono considerati fondamentalmente separati, pertanto, non si può parlare di gruppo italico. Le principali differenze tra i due sono: a. Il trattamento delle originarie labiovelari indoeuropee qu, gu, guh: Osco-Umbro  labiali; Latino  velari seguite da u (qu, gu). b. La conservazione delle aspirate interne: Osco-Umbro  spiranti; Latino  sonore b, d. c. L’assimilazione di nd in nn e di mb in mm in Osco-Umbro. d. Differenze morfologiche nella formazione del futuro, del perfetto ecc. e divergenze nel lessico.



Paragrafo 16: L’espansione del Latino.

Il Latino si è diffuso dapprima in Italia e poi in Europa ed oltre grazie alla romanizzazione, conseguenza diretta dell’espansione politica di Roma, che praticava l’annessione dei popoli vinti, ma anche di quelle città che di propria volontà si mettevano sotto la protezione romana. Tuttavia, i Romani non si proposero mai un’assimilazione violenta delle popolazioni soggette e non tentarono mai di imporre la loro lingua, considerando anzi l’uso del Latino come una grandissima distinzione. Infatti, non ostacolarono né gli idiomi dei federati italici, né l’Etrusco, né il Greco, cosicché queste lingue si mantennero anche sotto il dominio romano.



Paragrafo 17: Gli elementi dialettali del Latino.

Dalla diffusione del Latino su un territorio sempre più vasto derivarono due conseguenze: 1. il Latino, venendo a contatto con idiomi diversi, esercitava, ma nello stesso tempo subiva, un influsso più o meno notevole; 2. il Latino, se pure era relativamente unitario nella primitiva patria d’origine, doveva man mano differenziarsi nelle singole regioni. Finché il legame politico con il centro rimase forte, queste differenze furono limitate; quando il legame si fece più debole e si ruppe del tutto, le differenze si approfondirono. Roma non imponeva la propria lingua; erano generalmente le popolazioni soggette che desideravano elevarsi culturalmente usando il Latino. Tuttavia, queste popolazioni, prima di perdere definitivamente la loro lingua a vantaggio del Latino, ebbero un periodo più o meno lungo di bilinguismo. Reazioni etniche  influsso del sostrato (lingua non più parlata su un territorio che però prima di sparire ha influenzato quella o quelle da cui è stata soppiantata; è uno dei tre tipi possibili di interferenza linguistica). A parte quelle parole che, già attestate più o meno largamente nel lessico latino, anche se di origine dialettale, possono considerarsi latine, traspaiono nelle lingue romanze alcune tendenze fonetiche e non pochi elementi lessicali sicuramente o verosimilmente attribuibili al sostrato preromano.



Paragrafo 18: Il sostrato italico.

Una delle differenze caratteristiche dell’Osco-Umbro rispetto al Latino è il trattamento delle aspirate indoeuropee in posizione intervocalica, rese in questi dialetti con delle spiranti e in Latino con le sonore b, d. Le voci latine, purché non composte, che presentano -f - intervocalico sono, per lo più, di origine dialettale italica, anche se alcune risultano già largamente attestate in Latino, sia come unica forma esistente, sia, più spesso, accanto ad una forma cittadina con fonetica romana normale. Molto spesso ambedue sopravvivono nel Romanzo. Vi sono invece dei casi in cui soltanto le lingue romanze attestano una forma con fonetismo italico. La mancanza di attestazione in Latino non è una prova assoluta dell’inesistenza della voce nella stessa Roma, ma è almeno un indizio che, se la parola esisteva, aveva un limitato utilizzo oppure era una voce regionale in uso solo in alcuni territori.

Le forme con -f - erano abbastanza numerose nel Latino volgare, e non solo in quello regionale dei territori con adstrato (lingua che ne influenza un'altra senza che una delle due finisca per scomparire ; è una delle tre possibilità di interferenza linguistica) prima e sostrato poi di dialetti italici, e comprovano che i coloni Romani non portavano un Latino puro, il quale, lontano da Roma, è continuato nel Romanzo, con tracce che, sia pure indirettamente, sono osco-umbre. Non pochi però sono gli esempi di sostrato osco limitati ai soli dialetti dell’Italia meridionale. Una delle caratteristiche dei dialetti italici, rispetto al Latino, era l’assimilazione nd > nn, mb > mm. Questa stessa assimilazione si trova in tutti i dialetti italiani centro-meridionali. L’Umbro antico aveva come corrispondente di - d- intervocalico un fonema speciale (r), rappresentato da un

(q)

apposito segno del suo alfabeto nazionale d’origine etrusca che veniva reso nell’alfabeto latino con rs. Il passaggio d > r o d > r si trova però solo nell’antico Umbro e nell’Osco non vi sono esempi sicuri di d < r, perché i pochi esempi invocati da qualche studioso hanno più probabilmente r < l, come riconosce anche R. VON PLANTA (1864-1937)nella sua fondamentale grammatica dei dialetti osco-umbri. Anche l’assimilazione -ct- > -tt- è un fenomeno troppo generale per poter essere attribuito al sostrato italico, e così pure la tendenza all’anaptissi (epentesi vocalica consistente nello sviluppo o nell'inserzione di una vocale tra due consonanti) e alla chiusura di in i ed u di e, o.



Paragrafo 19: Il sostrato etrusco.

Nel periodo delle origini di Roma il Tevere rappresentava il confine del Latino e lo stesso nome di Roma è probabilmente di origine etrusca (Ruma), al pari di quello del Tevere. Infatti, Roma fu dominata dagli Etruschi e gli Etruschi vissero parecchi secoli in intimo contatto con i Romani. E se anche i Romani li chiamarono barbari, appresero molto da essi e lo stesso etrusco era insegnato pubblicamente a Roma; del resto è molto probabile che l’alfabeto latino, pur essendo di origine greca, sia pervenuto ai Romani attraverso gli Etruschi. L’Etrusco era una lingua completamente diversa dal Latino, anzi, probabilmente, non era nemmeno una lingua indoeuropea. La provenienza degli Etruschi dalla Lidia, o più genericamente dall’Asia Minore, affermata dagli storici greci e romani, è contraddetta solo da Dionigi di Alicarnasso che li considera autoctoni (autoctono: essere umano nativo del luogo in cui vive). La tesi oggi prevalente è quella di una concordanza più sensibile fra Etrusco e lingue asianiche e più remota con l’Indoeuropeo. Le nostre conoscenze del lessico etrusco sono molto modeste, sia per la scarsità di iscrizioni bilingui di rilevante importanza e delle glosse latine e greche di parole etrusche, sia perché, nonostante possediamo migliaia di iscrizioni in alfabeto etrusco, la maggior parte è breve e di carattere funerario o votivo. L’unico testo abbastanza lungo ci è dato dalle bende di una mummia nel Museo di Zagabria. I frequenti contatti fra Etruschi e Latini hanno fatto si che il Latino assimilasse una serie di parole etrusche che possiamo isolare sia per la mancanza di corrispondenze indoeuropee, sia per la presenza di alcuni caratteristici elementi morfologici, specialmente suffissi come -na, -ena, -enna, -ina (e anche -issa, -isa). L’Etrusco è stato anche l’intermediario fra Latino e Greco di alcune parole che, per il loro aspetto fonetico o morfologico, non possono essere state mutuate direttamente dal Greco. Fortissimo fu l’influsso etrusco sull’onomastica romana a cominciare dal sistema nominale composto da tre membri (praenomen, nomen, cognomen), che è comune anche ad altri popoli italici, ma diverso da tutti gli altri popoli indoeuropei. Per ciò che concerne l’Etruria propriamente detta, corrispondente pressappoco all’odierna Toscana, vi è un fenomeno fonetico che alcuni studiosi hanno fatto risalire ad una tendenza di origine etrusca e non italica o celtica: si tratta della cosiddetta gorgia toscana, cioè l’aspirazione o spirantizzazione delle sorde intervocaliche -c-, -p-, -t- (e per fonetica sintattica, anche in formula iniziale, purché precedute da parola uscente in vocale non accentata). È infatti noto che il sistema fonologico etrusco possedeva tre aspirate sorde: θ, ϕ, χ.



Paragrafo 20: Il sostrato greco.

Nell’Italia meridionale i Romani non incontrarono solo popolazioni italiche, ma anche Japigi, Messapi, Bruttii e soprattutto Greci. Per quanto riguarda i primi tre, tracce delle lingue di questi popoli affiorano quasi solamente nella toponomastica. Diverso è per il Greco, in quanto il prestigio della lingua e della cultura greca fu tale che rese più lento e difficile il processo di romanizzazione.

Il nome Magna Grecia designava l’insieme delle città greche stanziate sulle coste dell’Italia meridionale, ma poi, in età romana, fu esteso anche alla Sicilia. I dialetti ellenici della Magna Grecia erano in prevalenza di tipo dorico e cominciarono molto presto ad assimilare elementi latini. La romanizzazione fu certamente qui più difficile per la superiorità della cultura greca ed esistono prove della persistenza del Greco fino ad epoca abbastanza tarda, sia attraverso le testimonianze degli antichi, sia attraverso le iscrizioni. Il Greco si parla ancora oggi in due piccole oasi dell’Italia meridionale: una nella Calabria meridionale, a oriente di Reggio, intorno a Bova; l’altra in Terra d’Otranto a sud di Lecce. I dialetti di queste due isole linguistiche corrispondono, per massima parte, sia sotto l’aspetto fonetico, morfologico e sintattico, sia sotto quello lessicale, ai dialetti neoellenici della Grecia (i quali, ad eccezione dello Zaconico, sono continuazione della koiné), ma presentano anche alcuni caratteri arcaici. Lo studioso italiano GIUSEPPE MOROSI (1847-1890) sostenne che il grecismo delle colonie dell’Italia meridionale non è continuazione diretta di quello antico, ma è dovuto alla dominazione bizantina (5351071). Mentre il romanista tedesco GERHARD ROHLFS affermò che la grecità dell’Italia meridionale doveva connettersi direttamente a quella della...


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