Manuale di psicologia clinica 6 PDF

Title Manuale di psicologia clinica 6
Course PSICOLOGIA CLINICA
Institution Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
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APPUNTI E RIASSUNTO...


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CAPITOLO 1 NASCITA ED AFFERMAZIONE DELLA PSICOLOGIA CLINICA Lo psicologo clinico fornisce aiuto in molteplici condizioni di sofferenza e malattia mediante ricorso a conoscenza e procedure che derivano dalle varie branche della psicologia. 1 CHE COSA SIGNIFICA APPROCCIO CLINICO: Il termine clinica deriva dal greco kline (che significa letto) e indica le attività che il medico svolge al letto del malato. Fin dal suo etimo, la psicologia clinica fa riferimento alla malattia e alla sofferenza, e al fatto di dare aiuto col ricorso a conoscenze e metodi psicologici. Il 1° tratto costitutivo è dato da tale finalità: l’operare dello psicologo clinico è ispirato dall’intenzione di porgere aiuto e rispondere alla dimensione psicologica di una sofferenza che ha luogo immediatamente davanti a lui. Nella storia della medicina “approccio clinico” ha significato  centralità dell’osservazione diretta al letto del malato in contrapposizione ad una medicina che né spogliava né toccava il malato, ma faceva diagnosi e terapia per assiomi e sillogismi sostituendo l’osservazione con dotte citazioni e rimandi all’autorità dei grandi del passato. (es.Moliere) Approccio clinico, quindi, si caratterizza per: primato dell’osservazione e del riscontro empirico a fronte della teoria e del principio d’autorità: un atteggiamento poco incline alle meditazioni epistemologiche e alle dispute teoriche, ma in presa diretta con i problemi concreti e le urgenze di una persona sofferente. Approccio clinico significa anche osservazione prolungata e minuziosa, al contrario di una medicina che presta attenzione a leggi e principi generali. Facendo riferimento alla cultura postkantiana europea possiamo dire che l’approccio clinico si avvicina ad un approccio idiografico  ha di mira il singolo nella sua forma storicamente determinata, piuttosto che nomotetico  che cerca di scoprire le leggi e conoscere la natura delle cose. Il 2° tratto costitutivo della psicologia clinica è dato dunque dall’approccio: l’ottica del particolare, lo studio intensivo e l’approfondimento del singolo caso e delle sue specificità.

2. PSICOLOGIA CLINICA E PSICOLOGIA DI BASE: Qual è il rapporto tra la PSICOLOGIA CLINICA E PSICOLOGIA DI BASE? Nella cultura italiana esse sono state spesso rappresentate come discipline tra loro separate e diverse, quasi contrapposte: poco applicativa la 1°, molto speculativa la 2°. Oggi, al contrario, è palese la continuità tra psicologia di base e lavoro clinico. È evidente come la psicologia dell’apprendimento e la neuropsicologia siano d’aiuto nella consulenza a favore di un bambino dislessico (ad esempio); la psicofisiologia del sonno per parlare con i genitori di un bambino sonnambulo; la psicologia della memoria per rispondere ad un vecchietto che si lamenta della scarsa memoria; la psicologia animale per aiutare a concettualizzare le lotte di rango gerarchico nelle famiglie, nei luoghi di lavoro e nella bande giovanili ecc. ecc. (ve ne ho riportate solo alcune). Possiamo perciò descrivere quello tra psicologia di base e psicologica clinica come un rapporto senza soluzione di continuità:

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psicologia clinica come scienza applicata, diretta emanazione e applicazione del corpus di conoscenze e delle metodologie sviluppate dalla psicologia di base nelle sue varie brache  al letto del malato, e ai problemi che lo affliggono. Attuali sono le parole di Korchin, autore di un manuale sul quale si sono formate generazioni di psicologi clinici; egli scrive cosi che la psicologia clinica:

3. DEFINIZIONI: Gli psicologici clinici non si occupano solo di disturbi mentali, però sono coloro, tra gli psicologi, che studiano e si occupano specificatamente di disturbi mentali (ricordiamocelo potrebbe servici dopo la laurea). È interessante analizzare quale definizione di psicologia clinica viene oggi data dalla più antica associazione di psicologi l’American Psychological Association, la 1° che diede vita a una sezione di psicologia clinica. Tale associazione è articolare in più divisioni. La divisione 12 Clinical psychology cosi scrive: - la psicologia clinica integra scienza, teoria e pratica sia al fine di capire, predire e alleviare disadattamento, disabilità e disagio sia al fine di promuovere l’adattamento umano e lo sviluppo personale. La psicologia clinica si concentra sugli aspetti intellettivi, emotivi, biologici, psicologici, sociali e comportamentali del funzionamento umano lungo tutto l’arco di vita, nelle varie culture e a tutti i livelli socioeconomici. Nella formulazione di una definizione ufficiale, ogni parola viene discussa a lungo e la scelta di ciascuna di esse ha una storia alle spalle: per esempio il riferimento a pare suonare come ravvedimento per una critica che è stata fatta  psicologici clinici e soprattutto psicoterapeuti preferivano avere a che fare con le dive di Hollywood piuttosto che con i diseredati dei ghetti neri e portoricani. In Italia è stata fornita in forma ufficiale una definizione da parte di una associazione scientifico-professionale- denominata: Collegio dei professori universitari e dei ricercatori di psicologia clinica delle università italiane. Definizione:

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Quando si parla di psicologia clinica, si delinea un insieme scientifico e professionale centrato sulla psicoterapia, ma ben più ampio della sola psicoterapia. Le componenti nelle quali si articola tradizionalmente la psicologia clinica sono:     

Psicodiagnostica Psicopatologia Neuropsicologia clinica Psicofisiologia clinica Psicosomatica e psicoterapia

Ad esse si devono aggiungere prospettive emergenti come la psicologia della salute e antiche pratiche venute in auge, come la riabilitazione e la consulenza, oggi ribattezzata counseling. La stessa nozione di psicoterapia risulta in parte sfuggente, dal momento che non sempre è facile stabilire i confini tra psicoterapia, intervento psicologico, trattamento, counseling ecc. Al tempo stesso le finalità della psicoterapia possono risultare, a seconda dei diversi orientamenti, differenti e in parte non determinate, anche se è certo che lo scopo della psicoterapia non è quello di rendere la persona “normale” o “adatta al sistema”, secondo l’accusa che le è stata provocatoriamente mossa dalla critica sociale.

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4. Le tappe di un percorso: Breve cronistoria dei momenti più significativi della psicologia clinica: (allora da qua in poi ci sono 4 facciate tipo modello dizionario dove anno per anno descrive gli eventi avvenuti nella psicologia…irricordabile secondo me e anche inutile quindi non vi ho nemmeno messo le foto che sarebbero state 400! Se vediamo che serve mando tutto al volo) La psicologia clinica trae dunque origine a cavallo tra ‘800 e ‘900, dalla confluenza di due diverse tradizioni e professioni: 1. la pratica dei reattivi mentali per la valutazione dei bambini intellettivamente deficitari, che nei decenni successivi si allargherà all’età adulta e a test di personalità. 2. la pratica dell’ipnosi nel trattamento dell’isteria, che presto cederà il passo alla grande lezione freudiana e alla lunga egemonia psicoanalitica. Le matrici culturali sono europee e fanno riferimento ad una serie di personalità, tra cui: Binet, Janet, Freud, Jung. Eppure la psicologia clinica ha avuto il suo sviluppo maggiore negli Stati Uniti; le ragioni vanno in parte riportate alla diaspora indotta dall’antisemitismo nazista, ma sopravvissuto all’estremo dinamismo economico e sociale che caratterizzava la società americana già a inizio ‘900. Si consideri ,inoltre, il peso culturale dell’orientamento funzionalista e pragmatista, che fu egemone nella cultura e psicologia americana del primo novecento e produsse una visione del mondo secondo la quale la psicologia doveva porsi nell’ottica della trasformazione e del miglioramento del funzionamento umano. Nel contempo, e per tutta la 1° metà del ‘900, l’Europa si trova immersa nelle propaggini della grande filosofia tedesca dell’800, in correnti neo-idealistiche che sdegnavano tutto quanto fosse scientifico, nella sofferta contemplazione dell’esistenza da parte delle filosofie fenomenologiche ed esistenzialiste. I momenti di maggiore espansione per la psicologia clinica furono i due conflitti mondiali  in questi momenti forte fu la richiesta sociale di collaborare con test mentali ed attitudinali alla selezione dei militari e di procedere all’opera di reinserimento e sostegno dei mutilati e reduci di guerra. Nel 1° dopoguerra, negli usa meno in Europa, vi sono equipe per i servizi sociosanitari per l’infanzia: sotto la guida di un medico lo psicologo si occupava soprattutto di test mentali e di terapie di rieducazione; un 3° membro era un assistente sociale che faceva visite domiciliari per prendere visione dell’ambiente sociale e familiare, faceva interviste ai genitori, manteneva contatti con la famiglia, provvedeva ai rapporti con gli istituti di recupero dovevi il bimbo veniva indirizzato provvedeva agli aspetti amministrativi ed economici connessi. Alle origini e per buona parte del ‘900, il trattamento di individui affetti da malattia mentale non è stato considerato tra le mansioni degli psicologi, ma terreno esclusivo di quei medici che tentavano faticosamente di distaccarsi dalla neurologia e conquistare una propria identità come -freniatri-, -alienisti- e infine psichiatri. Solo col 2° dopoguerra cominciamo a trovare, anche in Italia, psicologi che lavorano in equipe nei servizi e negli ospedali psichiatrici. Gli anni

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’60-70 e parte degli ’80 furono contrassegnati dal movimento anti-istituzionale, che acquistò popolarità e dimensioni di massa, trascendendo la dimensione scientifica e professionale. La de-istituzionalizzazione, che vide però gli psicologi come semplici comprimari, portò all’abolizione di scuole differenziali, scuole speciali e ospedali psichiatrici. Nel corso del’900, in Italia come nel resto del mondo, crebbero comunque il riconoscimento legale e la presenza di psicologi clinici nella pratica della psicoterapia. Tutto ciò è culminato in Italia nel 1986 in una delle legislazioni più avanzate del mondo.

CAPITOLO 2 PSICODIAGNOSTICA Nella pratica clinica l’esame psicodiagnostico è a volte il primo passo di un percorso di sostegno psicologico e di counseling e si limita a un colloquio clinico, altre volte è un momento altamente specialistico e richiede competenze e tecniche psicodiagnostiche. 1) L’ESAME PSICODIAGNOSTICO Secondo una formula che risale agli anni ’50 e allo psicologo americano Murray, ogni uomo è sotto certi aspetti: come tutti gli altri uomini, come alcuni altri uomini , come nessun altro uomo. L’ottica dello psicologo clinico è l’ottica del particolare: più che guardare la foresta, egli guarda il singolo albero, magari nelle relazioni che esso intrattiene eventualmente con gli altri alberi. Le classificazioni personologiche, psicopatologiche e nosografiche non sono mai un punto d’arrivo, ma possono e devono essere un passaggio intermedio nel corso dell’esplorazione psicodiagnostica. Le diagnosi di disturbo mentale sono punti di riferimento utili e necessari per favorire la comunicazione con il mondo sanitario. L’esame psicodiagnostico può essere descritto come un complesso processo di raccolta, analisi ed elaborazione di informazioni, volto a rispondere a uno dei tanti quesiti di pertinenza della psicologia clinica: le indicazioni relative all’opportunità di un trattamento psicoterapeutico, la valutazione delle condizioni psicologiche per gravi provvedimenti, l’accertamento delle componenti psicologiche di una condotta criminosa, l’integrazione di accertamenti di carattere medico-diagnostico. Spesso l’esame psicodiagnostico viene descritto come un imbuto che va via via restringendosi. Quanto più è ampia la base di conoscenza della ricerca scientifica e di esperienza dello psicologo, tanto più è ampio il ventaglio di ipotesi alternative che egli prende in esame. Via via che progredisce l’esame psicodiagnostico, diminuisce l’incertezza circa le moltissime variabili di rilievo clinico, circa le varie ipotesi psicodiagnostiche, circa il decorso probabile di sintomi e manifestazioni psicopatologiche, circa le evoluzioni più probabili o più preoccupanti di una situazione problematica, circa le possibilità di intervento più idonee nel caso in esame. L’esame psicodiagnostico è un processo attivo, sostanzialmente simile a un processo di problem solving e decision making: un complesso processo di raccolta e di elaborazione di informazioni relative al soggetto in questione. L’esame psicodiagnostico è qualcosa di più ampio del semplice riconoscimento diagnostico di un disturbo

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mentale: è più di una diagnosi. Non opera nell’ottica della classificazione nosografica, ovvero della semplice categorizzazione del soggetto all’interno di una determinata malattia, ma nell’ottica dell’approfondimento e dell’analisi del singolo caso e delle sue peculiarità. l’obiettivo non è solo la collocazione del soggetto esaminato all’interno di una classe diagnostica, ma l’acquisizione di una conoscenza più approfondita del soggetto lungo molteplici dimensioni psicologicamente rilevanti. Spesso avviene che l’esame psicodiagnostico possa includere la formulazione di una diagnosi di disturbo mentale: questa valutazione può essere un tassello imprescindibile ma non esaurisce l’esame psicodiagnostico, che è un insieme più ampio. 2) IL COLLOQUIO CLINICO Asse portante dell’esame psicodiagnostico è il colloquio clinico. Esso ha come finalità l’esame del problema che porta il paziente a rivolgersi a uno psicologo clinico; sta poi a quest’ultimo collocare tale problema all’interno di un reticolo di elementi costitutivi della storia personale del soggetto. Pertanto il colloquio clinico non è una procedura passiva di ascolto e di registrazione di informazioni, ma un processo di ricerca attiva e intelligente delle coordinate che danno un senso psicologico a quanto il paziente propone. Rappresenta un’attività tecnica che si avvale di una competenza professionale specialistica. Il colloquio utilizza materiale verbale ed esplora il cosiddetto sistema cognitivo- verbale: ciò che il paziente pensa e ciò che il paziente dice di sé. Il colloquio rappresenta un setting di osservazione specifico e strutturato: offre allo psicologo clinico un segmento di osservazione del comportamento del paziente in una situazione data. Inoltre il colloquio costituisce un esempio di comportamento interpersonale significativo: consente perciò l’analisi delle variabili di relazione che si stabiliscono nell’interazione tra paziente e psicologo. Il colloquio, oltre ad avere la finalità di esaminare il problema del paziente, ha anche quella di stabilire una relazione di fiducia e collaborazione nella diade paziente-psicologo. Il primo colloquio prende avvio con alcuni convenevoli sociali cui fa seguito l’apertura vera e propria, in genere con una domanda molto aperta del tipo “di che problemi parliamo ?”. Lo psicologo cerca poi di ottenere un’ampia e precisa descrizione del problema lamentato attualmente. Il colloquio tenderà a individuare variabili che influenzino aspetti elementari del problema in esame. Il colloquio risalirà poi al primo insorgere del problema e lo ripercorrerà nel tempo fino al momento attuale. Una volta esaurita l’esplorazione del problema iniziale, lo psicologo allargherà l’esame agli ulteriori problemi presenti attualmente al di là di quello proposto inizialmente. Un ampio spazio sarà poi dedicato alla storia personale; questa fase mette tra parentesi gli elementi problematici o patologici, che hanno dominato fin qui il colloquio, per ripercorrere la storia della persona nei suoi elementi e nei suoi avvenimenti “normali”. Infine, il colloquio ritornerà su quanto il paziente si aspetta dallo psicologo clinico e dall’esame psicodiagnostico in corso (analisi delle aspettative). Il colloquio clinico che conclude l’esame psicodiagnostico non è più volto a raccogliere informazioni, ma a dare informazioni. Lo psicologo richiama il filo logico che ha guidato il colloquio intercorso e fornisce ampie informazioni sui risultati dei vari test, esami e tecniche psicodiagnostiche che possono aver integrato i colloqui.

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3) IL MODELLO MULTIDIMENSIONALE Per condurre l’esame psicodiagnostico, lo psicologo ha la possibilità di utilizzare una mole estesa di informazioni. Queste informazioni sono state classificate in “classi” a seconda del “canale” dal quale provengono; si distinguono almeno tre classi principali. La PRIMA classe è data dalle informazioni che provengono da un canale verbale: le informazioni dunque che un soggetto fornisce nel corso di un colloquio clinico, durante un’intervista strutturata, davanti alle tavole di Rorschach, nella compilazione di un questionario o di un inventario, in un diario. Queste informazioni non sono neutre, sono anzi in diverso grado soggettive; in particolare esse sono influenzate da variabili legate al contesto entro il quale esse sono raccolte, dalle variabili connesse alla relazione interpersonale, da innumerevoli variabili proprie allo psicologo in causa. La SECONDA classe è data dalle informazioni che provengono da un’osservazione diretta del comportamento della persona: le informazioni offerte dal comportamento non verbale durante un colloquio clinico, della somministrazione di un reattivo psicologico, di un role-playing, di un’interazione col coniuge o familiari, di un’osservazione sul campo. Neppure queste informazioni sono neutre, poiché influenzate anch’esse dalle variabili di contesto, dalle variabili connesse all’osservatore, dalle variabili di relazione ecc. la TERZA classe di informazioni che, in particolari contesti attrezzati, lo psicologo può raccogliere è rappresentata dalle registrazioni strumentali dell’attivazione psicofisiologica dell’individuo (ricavabili dalla frequenza respiratoria, cardiaca, dall’attività cerebrale, ecc).

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4) “ASSESSMENT” PSICOFISIOLOGICO L’ “assessment” psicofisiologico è il segmento dell’esame psicodiagnostico che è deputato alla valutazione delle specifiche modalità del sistema di risposte psicofisiologiche della persona in esame. Tali valutazioni si riferiscono a una condizione di riposo e interessa, in questo caso, valutare uno stato di attivazione (tonico) caratterizzato da modificazioni relativamente stabili e durature nel tempo. Lo psicologo registra in forma continua, per un certo periodo di tempo (da 20 a 45 minuti), una serie di indici psicofisiologici; i più comuni sono:    

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L’attività mioelettrica, indicativa del livello di tensione muscolare; è rilevata in genere sulla superficie del muscolo frontale. La frequenza cardiaca, rilevata con un cardiotacometro in battiti per minuti. La frequenza respiratoria, cioè il numero di cicli inspiratori ed espiratori per minuto (da 16 a 20). La temperatura periferica cutanea, rilevata in genere mediante un termistore, con sensibilità superiore al centesimo di grado centigrado, collocato sul palmo o su un dito della mano. La pressione sistolica e diastolica, rilevata elettronicamente a intervalli di uno o due minuti in genere. La conduttanza cutanea, con elettrodi posizionati sulle dita, che riflette le modifiche dell’attività delle ghiandole sudoripare della pelle.

Un assessment psicofisiologico più specifico può essere importante nella valutazione dell’attivazione sessuale e delle sue inibizioni psicologiche. Altre volte, l’assessment psicofisiologico indaga l’attività elettrica cerebrale, l’attività oculomotoria o l’attività gastrointestinale. Una parte significativa della tecnologia dell’assessment psicofisiologico deriva dal “lie detector” (rilevatore di bugie), la macchina della verità utilizzata da tempo in sede giudiziale o investigativa in molti stati, per evidenziare alterazioni fisiologiche associate alla produzione di risposte non veritiere. Una volta analizzata la linea di base, in molti casi interessa valut...


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