Nicoletta giusti le teorie del trickle down PDF

Title Nicoletta giusti le teorie del trickle down
Course Comunicazione di massa
Institution Università di Bologna
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le teorie del trickle down per l'esame di comunicazione di massa, Antonella Mascio...


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Le teorie del trickle down Nicoletta Giusti

Il giudizio più appropriato su più di un secolo di riflessione sulla moda intesa sia come meccanismo sociale, sia come stile vestimentario, è quello espresso da Gilles Lipovetsky: «il regno capriccioso della fantasia non è riuscito a creare che la povertà e la monotonia del concetto» (1987, trad. it. 1989). Come sottolinea, da più di un secolo sembra che l’enigma della moda sia grosso modo regolato; nessuna guerra di interpretazione fondamentale, la corporazione pensante in un bello slancio corale ha adottato un credo comune: la versatilità della moda trova la sua ultima verità nell’esistenza delle rivalità di classe, nella lotta della concorrenza di prestigio che opporrebbe le differenti fazioni e strati del corpo sociale. Criticata, temperata, ribaltata, ma immutata nella sostanza, la teoria dominante è quella che si focalizza sulla moda come rapporto tra l’individuo e l’abbigliamento, riducendo la sua diffusione alla dinamica dei rapporti di classe. Il modello di interpretazione più diffuso riguardo alle mode vestimentarie è consacrato nella teoria del trickle down, etichetta data a posteriori (cfr. Davis, 1992; trad. it. 1993; Sassatelli, 2004 e Segre Reinach, 2005) a un nocciolo duro di teorie proposte da diversi studiosi. L’ultima moda sarebbe lanciata dalle classi superiori che dispongono grazie ad essa di oggetti visibili ma economicamente strategici (Goffman, 1961, citato da Davis, 1992; trad. it. 1993), di

manifestare la loro superiorità e diversità rispetto ai gradini inferiori della scala sociale. In seguito essa si spanderebbe lentamente (goccia a goccia, da cui l’etichetta di trickle down) tra le classi popolari che cercherebbero di impadronirsene per rompere le frontiere e tentare di scalare a livello simbolico la classe superiore. Va da sé che a questo punto una nuova moda sarebbe lanciata per ristabilire le differenze di classe ed il gioco ricomincia con altri contenuti. La formulazione più conosciuta di questa teoria è quella già citata di Georg Simmel, che, ancora lungi dal chiamarla così, la ripropose in almeno tre saggi diversi che scrisse sulla moda tra il 1895 ed il 1905 e che suona più o meno così: non appena la classe inferiore ha cominciato a copiare il loro stile, scavalcando la linea di demarcazione che le classi superiori hanno tirato e distruggendo la loro coerenza, le classi superiori abbandonano quello stile e ne adottano uno nuovo, che li differenzia a sua volta dalle masse; così il gioco avanza senza fine. Molto importante, in questo ragionamento, l’idea di “saturazione” su cui Simmel non manca di insistere, al punto che, per lui, una moda, per essere tale, non deve essere seguita dalla maggioranza della popolazione, ma da una piccola élite o da un piccolo gruppo, perché nel momento in cui diventa maggioritaria, non è più moda (cfr. 1904 e 1905, trad. it. 1985). Versione precedente, pressoché identica è quella del giurista Rudolf von Jhering, citata da Walter Benjamin nel suo Das passagenwerk (1982, trad. it. 2002): per comprendere l’essenza della moda odierna, non si può ricorrere a motivi di carattere individuale (…) La moda, così come è intesa oggi, non conosce motivi individuali, ma solo un motivo sociale (…) Questo motivo è lo sforzo compiuto dalle classi più elevate della società per distinguersi nettamente da quelle inferiori, o meglio, dalle classi medie… La moda è la barriera continuamente reintrodotta, perché continuamente abbattuta, con cui il gran mondo cerca di isolarsi dalle regioni medie della società; è la caccia alla vanità di classe, in cui si ripete incessantemente un unico fenomeno: lo sforzo di un gruppo per ottenere un vantaggio, seppur minimo, sul gruppo che segue, e lo sforzo dell’altro per eliminare quel vantaggio attraverso l’assunzione immediata della nuova moda.

Erving Goffman (1951) riprende questo movimento per applicarlo non tanto o non solo alla moda vestimentaria, ma a tutti gli oggetti che possono rappresentare simbolicamente la posizione sociale dell’individuo, i simboli di status. Questi ultimi possono essere oggetti e comportamenti di ogni sorta. Si tratta più di indizi suscettibili di orientare il comportamento nel corso dell’interazione, che di rappresentazioni effettive della posizione sociale: rappresentano simbolicamente la mia posizione nella società (o la posizione che vorrei avere…) affinché mi si tratti in un certo modo. Ecco perché l’associazione di determinati simboli ad una certa posizione sociale è sistematicamente contraffatta da coloro che vogliono dare una certa rappresentazione di se stessi. Come Goffman sintetizza: uno status symbol non è sempre un buon indicatore di status (1951, p. 295). Pur precisando che i simboli circolano in alto e in basso tra tutte le classi sociali (ibidem, p. 303), Goffman insiste maggiormente sui simboli di stato sociale elevato e fonti da cui oggetti o comportamenti traggono valore. Tuttavia, quello che differenzia la sua posizione rispetto a quella di Rimmel è che per lui la circolazione dei simboli di status non è dovuta alla semplice imitazione, ma alla volontà di rappresentarsi in maniera diversa. Non è la saturazione che conduce i membri delle classi superiori ad abbandonare determinati simboli, ma il bisogno di dissipare gli equivoci sul loro status, ricorrendo ad oggetti “non contaminati”. Infine, è interessante ricordare una considerazione di Goffman molto importante per comprendere in generale le dinamiche del consumo: i simboli di status esprimono spesso non solo una situazione contingente, ma lo stile di vita nel suo complesso della persona che li utilizza. Si tratta per gli individui di un modo per ripetere la struttura della propria esperienza relativa ad una sfera della vita, in tutte le altre sfere, costruendo una solidarietà di gruppo, ma soprattutto la ricchezza e la profondità della vita psichica dei suoi membri. In realtà il primo utilizzo scientifico dell’espressione trickle down, si deve a Bernard Barber e a Lyle Lobel (1952) che la ripresero da un articolo di Harper’s Bazaar del 1949, dove si notava come nella moda esistesse un sistema di gocciolamento, per cui una silhouette appare nella collezione di un couturier, per scendere lentamente in tutti gli strati del prêt-à-porter (Harper’s Bazaar, febbraio 1949, p. 112, cit. in Barber and Lobel 1952). I due studiosi riprendono questa teoria (e non,

si noti, quella della domestica – padrona di Simmel) per interrogarsi sull’apparente irrazionalità della moda, concludendo che si tratta di un fenomeno multiforme e dai significati diversi, ma con diverse funzioni latenti e manifeste che la rendono razionale a vari livelli nella società americana dell’epoca. Il loro panorama teorico è quindi quello dei recenti scritti di Robert Merton (1949, trad. it. 1959) per la distinzione tra funzione latente e funzione manifesta, in relazione all’acquisto di beni di consumo e per la sua ripresa del pensiero di Veblen sull’argomento (o di Talcott Parsons (1949) per quanto riguarda il significato simbolico dei prodotti in relazione allo status). Anche il Veblen della teoria della classe agiata viene ripreso1, per sottolineare la funzione vicaria del consumo femminile, che deve rendere ragione della posizione professionale e, di conseguenza del reddito e della posizione sociale del marito e dell’intera famiglia, come testimoniano direttamente alcuni dei loro intervistati, con frasi come «mio marito dice che non spendo abbastanza e che non lo rappresento degnamente» (Barber e Lobel 1952, p. 126). È questo mix di interesse per il rapporto tra status e beni di consumo e trickle down, che li conduce a formulare quell’impianto teorico che lega posizione lavorativa, salari e ricchezza, e consumo, in una sorta di triangolo rappresentativo della posizione degli individui nella società, che sarà poi ripreso dal Lloyd Fallers, per una della formulazioni più celebri e citate (cfr. ad esempio Segre Reinach, 2005) del trickle down. Tuttavia la loro formulazione della circolazione dei prodotti di moda (così come più tardi quella di Fallers, che la riprende direttamente) e contrariamente invece a tutto il pensiero successivo dei Fashion Studies, è consapevole del ruolo cruciale, giocato dal sistema della moda e dall’industria di massa. Per loro infatti il trickle system è un sistema concreto che lega persone, aziende e prodotti, tra Parigi e gli Stati Uniti. Alle sfilate parigine della haute couture sono presenti compratori americani e donne americane che comprano i loro vestiti a Parigi e che servono da style leaders per la società intera. I designers americani adattano le ultime novità dei couturiers parigini al ready-to-wear di fascia alta. Quando i nuovi stili guadagnano il favore del pubblico, i designers delle fasce di prezzo più 1

Con le cautele che gli studiosi successivi, come vedremo non hanno avuto: Barber e Loebel dicono infatti che “nonostante i suoi limiti”, l’analisi di Veblen della funzione simbolica dei beni di consumo è “da leggere”.

basse2 includono gli spunti caratteristici della nuova moda nelle loro creazioni, in risposta o in anticipo sulle richieste del pubblico delle classi inferiori, con linee che a quel punto si avvalgono di tessuti meno cari e di produzione di massa, per migliaia di capi. Se nella fascia alta del mercato l’esclusività del modello è data dalle edizioni limitate ed eventualmente personalizzate, anche nella fascia più bassa, notano i due autori, i distributori tentano di operare un minimo di selezione, dato che, una volta che la moda si è sparsa a tutti i livelli, deve infine cambiare (Barber e Lobel, 1952, p. 127). In realtà, il trickle system non si traduce in una progressiva esatta imitazione degli stessi modelli, ma crea, ad esempio, una rincorsa, operata dal sistema industriale, ai materiali più raffinati da un lato ed alle loro imitazioni meno costose, dall’altro (Barber e Lobel, 1952, p. 128). Il trickle system è perpetuato dal sistema americano delle classi, sistema aperto che premia la mobilità sociale dal basso verso l’alto e che di conseguenza induce le donne a ricercare continuamente simboli che segnino la differenza con chi sta sotto (ibidem, pp. 126 e 128). Tuttavia, sottolineano i due autori, la moda non ha gli stessi significati in tutte le classi sociali. L’analisi dei contenuti della scrittura di moda (fashion copy) in diverse riviste dell’epoca3 induce Barber e Lobel ad affermare che la moda sia qualche cosa di profondamente diverso nei diversi strati sociali. Così, la upper class si distingue tra “soldi vecchi” e “alta moda”. Laddove, nel primo caso, data la sostanziale assenza di competizione sociale domina lo stile British, anche eccentrico al limite, teso come indipendenza dalle mode correnti e come insistenza sulla ereditarietà più che sulle acquisizioni ottenute attraverso la posizione lavorativa. Nel secondo invece si trovano le style leaders, seguaci della moda parigina e in generale di tutto quello che è cosmopolita, che tentano di combinare l’opulenza con “l’eleganza quieta”, che bandisce il glamour come cheap. I due concetti di moda, oltre ad esprimersi con terminologia diversa, trovano anche riferimenti ideali diversi: le style leaders dei rispettivi segmenti di classe non sono le stesse. Così come 2

Barber e Lobel notano che all’epoca i vestiti da donna si vendono in una fascia di prezzo che va dai 1500 ai 5 dollari e che la produzione di massa ha un prezzo medio che si colloca sotto ai 25 dollari. 3 Harper’s Bazaar, Vogue, Ladies’ Home Journal, Woman’s Home Companion, per il periodo dal 1930 al 1950 e Mademoiselle, dalla sua prima uscita nel 1935, al 1950.

non lo sono per le classi medie e medio basse, che leggono giornali diversi (Ladies’ Home Journal e Woman’s Home Companion piuttosto che gli altolocati Vogue o Harper’s Bazaar) e che disprezzano l’alta moda e tutto quanto è audace o inusuale. Per loro, la moda di Parigi non è veramente interessante e le parole d’ordine sono “rispettabilità” e “accortezza”, laddove per quest’ultima qualità si intende tutto quanto viene fatto dal resto della propria classe sociale. Le style leaders di questa classe non sono certo i simboli cosmopoliti come la duchessa di Windsor, dal look newyorchese, ma donne piacenti che vanno a messa, e si occupano di marito e figli (Barber e Lobel, 1952, p. 129). Altri ancora sono i concetti di moda che si ricostruiscono dai giornali dedicati alle giovani ed alle adolescenti (ibidem, p. 130). In barba alle servette che copierebbero le padrone, di simmeliana memoria. È però a Lloyd Fallers che alcuni studiosi italiani (cfr. Ragone, 1992 e Segre Reinach, 2005) attribuiscono l’etichettatura di trickle down per il legame tra moda e classi sociali, con diffusione dall’alto verso il basso. In realtà Fallers, nel suo articolo del 1954, allarga il campo di quello che lui chiama trickle effect, dalla moda vestimentaria, dove lo avevano scoperto empiricamente Barber e Lobel, ai beni di consumo in generale, insistendo ad esempio su quello che oggi chiameremmo il décor (l’arredo della casa in senso lato) e in generale a tutti quei beni soggetti a considerazioni di gusto, ivi compresi, anche se in minor misura, all’epoca, frigoriferi ed automobili (Fallers, 1954, p. 315). Lo scopo della sua analisi non è quello di studiare quella che lui chiama la “guerra d’ingegno” tra imitanti e imitati, quanto di scoprirne la funzione all’interno del funzionamento generale della società americana e occidentale. La sua ipotesi è che questa non sia altro che una maniera per mantenere viva la motivazione a competere per il successo e, di conseguenza, per mantenere l’efficienza nel sistema occupazionale, laddove invece il successo è possibile solo per pochi (ibidem, p. 315 e 319). Se la mia storia personale mi dice che ora posso godere di un regime di vita più elevato di quello che avevo anni fa o che avevano i miei genitori, io sperimento un successo relativo che mi incita a continuare nel “gioco”, impegnandomi sul lavoro, anche se in termini assoluti, non è detto che io abbia avuto successo lavorativo o sia avanzato socialmente.

Per Fallers, quindi, non sono tanti i singoli prodotti ad espandersi verso il basso, quanto i modelli di consumo che si innalzano complessivamente, grazie all’intervento del sistema industriale. Quest’ultimo innova e si espande continuamente, rendendo disponibili su larga scala beni e servizi che inizialmente potevano essere a diffusione limitata. In questo senso, continua lo studioso americano, sarebbe interessante indagare empiricamente quali beni di consumo simbolici seguono il modello del gocciolamento e quali no. I televisori, ricorda, sembrano avere seguito un modello di espansione diverso, seguendo linee orizzontali attraverso le classi medie, dato che per quelle alte inizialmente rappresentavano un oggetto volgare (Fallers, 1954, p. 320). Quello che è interessante notare, però, è che i prodotti stanno fermi, sono popolazione e sistema industriale che si muovono verso l’alto. Senza questa ipotesi di base, e senza questo “circolo vizioso” tra motivazione all’acquisizione e produttività industriale, non esiste trickle effect (ibidem, pp. 318 e 319). Il contributo di Fallers alla teoria del trickle down, malintesa paternità a parte, è interessante per due motivi: primo perché mette in luce il nesso imprescindibile tra l’attitudine al consumo ed il ruolo dell’industria di massa; secondo, perché sottolinea la necessità di indagare empiricamente i circuiti di diffusione dei beni di consumo simbolico, senza ipotizzare automaticamente il trickle effect per tutti. Due raccomandazioni, che, come vedremo, resteranno disattese in gran parte della letteratura successiva, nei Fashion Studies in particolare. Sulla scia – per lo più inconsapevole – del pensiero americano degli anni cinquanta, la tradizione oramai consolidata dei Fashion Studies (Davis, 1992; trad. it. 1993; Grandi, 1995; Sassatelli, 2004; Segre Reinach, 2005) attribuisce anche a Thorstein Veblen la stessa posizione teorica sull’origine del cambiamento della moda come radicata nella dinamica del gioco delle classi. In realtà Veblen, nello scritto che viene citato generalmente, la Teoria della classe agiata (1899; trad. it. 1949), non fa ipotesi sulla diffusione della moda. Lui analizza l’abbigliamento in quanto settore del consumo in cui si esprime meglio che altrove la regola del consumo vistoso, che eleva a chiave di volta dell’esistenza umana, prima ancora che di qualsiasi fenomeno sociale (1899; trad. it., cap. VII). In anticipo di una cinquantina di anni sul Goffman dei simboli di status, che lo evoca o lo cita, senza mai nominarlo, Veblen

afferma che ci sono molti metodi assai efficaci per attirare l’attenzione su di una situazione pecuniaria, ma che le spese per l’abbigliamento presentano, rispetto agli altri, il vantaggio che i vestiti sono sempre in mostra e forniscono una indicazione immediata, per qualsiasi osservatore (ibidem). Segue una teoria molto interessante del vestire elegante, attributo del loisir, concepito per dare l’impressione che la persona vestita bene non ha l’abitudine di fare il minimo sforzo utile. Chiosa con delle osservazioni sempre attualissime sulla toilette femminile che marca con forza ancora maggiore l’astensione da ogni attività produttiva, dato che le donne sono le serve a cui, nella differenziazione delle funzioni economiche, il loro padrone ha dato l’incarico di mostrare che può spendere molto (ibidem). È invece in un saggio precedente (1894), The economic theory of women’s dress, che Veblen tratteggia in maniera completa una teoria del consumo dei wasteful goods, tra i quali il vestiario. Questi beni sono scelti in funzione della loro proprietà di mostrare la capacità di spreco del loro proprietario. Ne consegue che i consumatori non sono disinteressati a negoziare il loro prezzo; di conseguenza i produttori seguiranno la domanda, abbassando il costo di produzione e, di conseguenza, il prezzo (1894, ed. 1998, p. 70). Tuttavia, man mano che il prezzo di questi beni si abbassa e quindi che il fatto di farne uso, non è più prima facie prova di una elevata capacità di spesa, questi beni passano di moda (fall out of favor) ed il consumo è reindirizzato verso qualche cosa che mostra in maniera più adeguata l’abilità di chi li indossa ad affrontare il consumo (ibidem). Manca qui del tutto quell’idea di saturazione che è invece presente nella teoria di Simmel: il meccanismo non è psicologico (non se ne può più, cerchiamo qualche cosa di nuovo), né sociale (ce l’hanno tutti, cerco qualche cos’altro) ma squisitamente economico. È la dinamica dei prezzi che regola il consumo dei beni ostentatori, non il desiderio di distinzione. Sono i produttori, che abbassando i prezzi creano le condizioni per la caduta della domanda, non i consumatori che sono stanchi. Ancora una volta il ragionamento di Veblen, sottolineando l’attitudine a segnalare l’abilità nel consumo vistoso, precede quello che dirà più tardi Goffman sui simboli di status. La vera questione è la capacità simbolica degli oggetti che si manifesta, tra l’altro, nel prezzo. Ma la legge universale del consumo vistoso si applica a tutte le classi, come hanno capito molto

bene le grandi griffes contemporanee del mercato del lusso, che, per evitare questo fenomeno, applicano una politica dei prezzi molto severa ed una distribuzione attenta, aprendo le porte scintillanti dei loro megastore alla signora chic in cerca dell’ultima borsa must have, così come ai ragazzi di periferia che cercano la sneaker o ai piccolo borghesi che si possono permettere solo un portafoglio o un portachiavi. Ossessionato dalla sua teoria del consumo vistoso, Veblen non è interessato alla moda di per sé e non formula una teoria della moda o della sua diffusione. Traccia, sì una dinamica dei rapporti tra consumo vistoso e classi sociali, ma per dire che si tratta di una regola universale, che coinvolge tutte le classi sociali. La dinamica verticale esiste, ma riguarda le norme di condotta (spendere per apparire) e non i singoli contenuti. L’esempio che fa è quello degli operai stampatori, celebri all’epoca per seguire notoriamente la “regola d’onore” del consumo vistoso: il loro bisogno di dissipare sarebbe uguale alla tendenza a manifestare predominanza e agio che fa del proprietario terrier...


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