Psicologia della disabilità e dell\'integrazione PDF

Title Psicologia della disabilità e dell\'integrazione
Author Nicola Nicolazzo
Course PSICOLOGIA DELL'EDUCAZIONE
Institution Università della Calabria
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Summary

ZANOBILI CAP: definizione, diagnosi, intervento. Quando parliamo di la terminologia utilizzata varia e anche questa, nel corso degli ultimi anni, in fase di modifiche e ridefinizioni. Accanto al termine disabile, infatti, anche quello di diversamente abile ormai non prerogativa del linguaggio medico...


Description

ZANOBILI CAP.1: Disabilità: definizione, diagnosi, intervento. Quando parliamo di disabilità, la terminologia utilizzata è varia e anche questa, nel corso degli ultimi anni, in fase di modifiche e ridefinizioni. Accanto al termine disabile, infatti, anche quello di diversamente abile è ormai non più prerogativa del linguaggio medico e specialistico, ma è diventato vocabolo d’uso comune e quotidiano. Parlando di lessico relativo alla disabilità, non si può non fare riferimento alla distinzione elaborata dall’Oms, negli anni 80, fra menomazione (impairment), disabilità (disability) handicap, alla base della prima classificazione internazionale delle menomazioni, disabilità ed handicap (ICIDH, 1981): - Menomazione: perdita o anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche. Essa può avere carattere transitorio o permanente; - Disabilità: riduzione parziale o totale della capacità di svolgere un’attività nei modi e nei tempi ritenuti “normali”. Essa può avere carattere transitorio o permanente, reversibile o irreversibile, progressivo o regressivo. Può, inoltre, essere conseguenza diretta di una menomazione o una reazione psicologica a qualsiasi tipologia di menomazione; - Handicap: condizione di svantaggio, in conseguenza di un danno o di una disabilità, che limita o impedisce lo svolgimento di un ruolo normale in relazione ad età , sesso, fattori socio-culturali, ecc… E’ una condizione soggetta a possibili cambiamenti migliorativi o peggiorativi. Già negli anni 80, comunque, era evidente la necessità di non relegare la condizione della disabilità solo alla gravità della compromissione anatomica, psicologica o fisiologica, ma di legarla alla considerazione di altri fattori che gravitano attorno alla persona disabile (elementi personali e contestuali), nonché all’ambiente. Alcune importanti considerazioni riguardavano il fatto che la persona disabile non doveva essere identificata con i suoi problemi (per questo si preferiva parlare di portatore di handicap piuttosto che di handicappato); l’handicap non doveva essere confuso con la malattia, ma bisognava considerarne sempre la doppia connotazione, una biologica e una sociale. Si può dire, dunque, che la disabilità si traduce in handicap in relazione alle barriere che la persona incontra nella propria vita quotidiana. Tali barriere sono di due tipi: 1) barriere fisiche (barriere architettoniche), le più comuni, in quanto fanno riferimento ad ostacoli di tipo fisico, che limitano il regolare svolgimento della vita quotidiana del disabile; 2) barriere psicologiche, che sono più sottili e meno evidenti e hanno a che fare con l’impatto che la disabilità ha sull’individuo e sulle persone che lo circondano; 3) barriere sociali, che sono collegate al contesto socio-culturale di appartenenze dell’individuo e alle generali condizioni di vita, in termini di benessere e qualità. Il modello proposto dall’Oms nel 1981 presenta dei limiti a causa del suo essere lineare, rimandando a rapporti causa-effetto le relazioni tra malattia, menomazione, handicap e disabilità. Inoltre, negli ultimi anni ci si è anche convinti dell’inadeguatezza del termine handicap sia per la sua genericità, che per la connotazione negativa che reca nella sua etimologia. Oggi, tale termine è caduto completamente in disuso. Si punta, infatti, sempre più a valorizzare le abilità e non le disabilità anche in questi individui con problemi. Ecco perché nell’ICF (2001) – International Classification of Functioning, Disability and Health, si parla soprattutto in termini di funzioni e strutture corporee, e di abilità, non di disabilità e menomazioni. L’ICF risulta diviso in due parti, ciascuna delle quali è, a sua volta, suddivisa in due componenti: 1. FUNZIONAMENTO E DISABILITA’, che comprende - A) Funzioni corporee: funzioni fisiologiche o psicologiche dei sistemi corporei (incluse le funzioni psicologiche); - Strutture corporee: parti anatomiche del corpo (organi, arti e loro componenti); - Menomazioni: problemi nelle funzioni o nelle strutture del corpo; b) Attività: esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo; - Limitazioni dell’attività: difficoltà che un individuo può incontrare nello svolgimento di un’attività; - Partecipazione: coinvolgimento di un individuo nelle situazioni di vita; - Restrizioni alla partecipazione: problemi e/o difficoltà che un individuo può avere nel tipo o nel grado di coinvolgimento nelle situazioni di vita;

2. FATTORI CONTESTUALI, che comprende - Fattori ambientali: costituiscono gli atteggiamenti, l’ambiente fisico e sociale in cui le persone vivono e conducono la propria esistenza; - Fattori personali. Ogni componente può essere espressa in termini positivi o negativi e comprende una serie di categorie, organizzate gerarchicamente. Per ciascuna di queste categorie vengono applicati dei qualificatori, che sono utilizzati per riferire l’estensione o la qualità di un livello di salute. Per quanto riguarda strutture e funzioni corporee, esse non vanno identificate strettamente come organi (come accadeva nell’Icdh). In tale contesto, il concetto di menomazioni è più esteso di quello di semplice malattia, difatti si riferisce al corpo nella sua interezza. Per quanto riguarda, invece, attività e partecipazione esse comprendono tutte le aree attraverso le quali l’individuo svolge la sua vita quotidiana (apprendimento, vita sociale, acquisizione di conoscenze, ecc…). Nel descrivere tali componenti, è fondamentale avere ben chiara la differenza fra due qualificatori: performance e capacità. Il primo qualificatore (performance) descrive quello che l’individuo fa rispetto ad un compito nel contesto di vita reale; il secondo (capacità) descrive l’abilità di una persona nell’eseguire un compito o un’azione e focalizza l’attenzione sulle limitazioni che costituiscono delle caratteristiche intrinseche dell’individuo. Per qualificare correttamente performance e capacità occorre valutare i fattori ambientali, sia sul versante positivo (facilitatori), sia su quello negativo (barriere). Dal momento che la struttura dell’Icf è molto complessa, in quanto prevede una vasta mole di informazioni ed è articolata su più livelli, si utilizzano delle checklist, per renderlo comprensibile e unificato a livello internazionale, ma anche uno strumento più agile per la pratica professionale. L’uso di tali checklist, tuttavia, presenta dei limiti, soprattutto il rischio di ingenerare confusione ponendo in stretto legame il funzionamento e lo stato di salute dell’individuo, e quindi quello di accomunare malattia e disabilità. La versione italiana della checklist icf è composta da più parti: 1. Una sezione introduttiva che contiene le informazioni anagrafiche, la diagnosi medica e le fonti da cui sono tratte le informazioni; 2. La prima parte, che contiene i codici relativi alle funzioni e alle strutture corporee; 3. La seconda parte, che contiene i codici selezionati per attività e partecipazione; 4. La terza parte, che contiene i codici relativi ai fattori ambientali; 5. Uno spazio aperto per descrivere i fattori personali, parte integrante della descrizione del contesto. L’Icf segna un importante punto di svolta, rispetto alle precedenti definizioni, per diversi motivi: - Ha un’applicazione universale, riguarda cioè tutte le persone, non solo quelle con disabilità, dal momento che prende in considerazione il funzionamento umano e le sue restrizioni ed è una classificazione che si riferisce a tutti gli aspetti della salute dell’uomo; - Le diverse componenti dell’Icf sono considerate nella loro interazione reciproca, e non più collegate in maniera unidirezionale come accadeva nelle precedenti classificazioni; - Il contesto, inteso come insieme di fattori ambientali e personali, interagisce a tutti i livelli. Alla fine del secolo scorso si è delineata una nuova concezione della disabilità e il modello medico è stato completamente soppiantato. Da un lato, si guarda ora alla disabilità, sempre più, come un fenomeno biopsicosociale; dall’altro, soprattutto per le menomazioni che insorgono in età precoce, si riconosce l’influenza considerevole del contesto. Fare diagnosi, in riferimento alla disabilità, è quindi completamente diverso rispetto al diagnosticare una malattia. L’assessment (diagnosi) deve: - Tener conto dei punti di forza e di debolezza, dei problemi di un soggetto; - Stabilire la natura e/o causa della disabilità, nonché il trattamento e l’approccio più appropriati per curarla; - Definire il potenziale futuro di una persona; tutto questo da realizzarsi in un arco di tempo ragionevole e ripetuto a intervalli regolari.

Gli elementi essenziali di una diagnosi risultano quindi: la contestualizzazione, la sistematicità e il valore prognostico. Si parla oggi, sempre più, di diagnosi funzionale intendendo una valutazione che descriva il funzionamento di un individuo sia in termini di limitazioni che di potenzialità e punti di forza, e che sia utile per tracciare un piano di intervento. Tale diagnosi funzionale è uno strumento interdisciplinare e non solo medico; è dinamica e soggetta, per sua natura, a verifiche e modificazioni. In Italia, si è sempre più diffusa l’idea che una diagnosi efficace della situazione di disabilità debba essere strettamente collegata al tipo di intervento, anche in campo educativo, tanto da essere inserita come elemento fondamentale per una corretta integrazione del bambino a scuola nella Legge quadro sull’Handicap del 5/2/1992, secondo la quale la formulazione della diagnosi funzionale avviene a partire dalla diagnosi medica (“certificazione di handicap”), che determina l’avvio del processo legislativo e operativo di integrazione nelle strutture educative, nonché l’accesso ai servizi e ai supporti previsti. Alla formulazione della diagnosi funzionale concorrono elementi clinici e psico-sociali; essa deve poi contenere la descrizione delle difficoltà e potenzialità relative alle diverse aree di sviluppo. Sulla base di tutti questi elementi, viene redatta una scheda riepilogativa che contiene: eziologia, diagnosi, conseguenze funzionali, previsione dell’evoluzione naturale, difficoltà, ecc.. Con l’introduzione dell’Icf, anche la diagnosi funzionale ha subito delle modifiche esplicitando meglio, rispetto alle definizioni precedenti, le dimensioni che determinano il profilo globale di una persona: condizioni fisiche/di salute; funzioni corporee; strutture corporee; attività personali; partecipazione sociale; fattori contestuali ambientali; fattori contestuali personali. Le condizioni di salute rappresentano il punto di partenza dell’intero profilo, che vengono classificate, dall’Oms, in base all’Icd10. L’Icd10 costituisce il modello di riferimento eziologico, che consente di diagnosticare una certa malattia o un certo disturbo, mentre l’Icf classifica il funzionamento e le disabilità associati alle condizioni di salute. Sicuramente utile ai fini di una diagnosi funzionale in età evolutiva è la cosiddetta diagnosi di sviluppo, ovvero una valutazione sistematica delle caratteristiche della persona e della loro integrazione, al fine di descrivere la sua situazione attuale e valutare il potenziale evolutivo. Una diagnosi di sviluppo è utile per individuare indicatori di rischio per lo sviluppo successivo. Bisogna tuttavia ricordare l’estrema variabilità interindividuale, per cui il mancato conseguimento di certe abilità in determinati periodi dello sviluppo non sempre e non necessariamente deve essere interpretato come sintomo di uno sviluppo problematico e/o deficitario. L’Icf-cy (International Classification Functioning for Children and Young) è un adattamento dell’Icf all’età evolutiva e nasce proprio per documentare e descrivere le limitazioni e il funzionamento in questa delicata fase dello sviluppo umano. Esso inoltre contestualizza lo sviluppo del bambino nel contesto familiare e integra i qualificatori dell’Icf, tenendo anche in considerazione la natura dinamica e mutevole dei cambiamenti. L’Icf si era mostrato inadeguato a fornire un’accurata descrizione del profilo funzionale degli individui in età evolutiva, in quanto aveva poche categorie che rappresentavano bene lo sviluppo tipico dei bambini, soprattutto per quanto riguarda le funzioni cognitive, il linguaggio, il gioco e l’apprendimento. Il problema dell’intervento Situazioni diverse per tipologia e gravità possono richiedere interventi in vari ambiti: - un intervento medico è, per esempio, necessario nei casi in cui è possibile prevenire un’estensione della menomazione iniziale o la formazione di danni secondari; - un intervento psicologico è importante per supportare l’individuo nel momento diagnostico, di progettazione, intervento e verifica, ma anche per supportare le famiglie nella fase iniziale e nei momenti più critici; - un intervento educativo (da parte degli istituti educativi) per aiutare il ragazzo nella socializzazione, nell’apprendimento e nell’acquisizione dei comportamenti adattivi;

-

un intervento sociale, del quale spesso si fanno promotori gruppi istituzionali, ma anche associazioni delle famiglie o le stesse persone disabili, per eliminare barriere di varia natura che potrebbero ostacolare il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte dei bambini in condizioni di disabilità; - un intervento riabilitativo, che ha la funzione di attivare e/o migliorare competenze per consentire all’individuo di utilizzare al meglio le proprie potenzialità. Caratteristiche da prendere in considerazione per progettare un intervento efficace sono: a) la storicità: ogni intervento deve essere strettamente legato alla diagnosi e tener conto di eventuali percorsi terapeutici e riabilitativi precedenti; b) la globalità: deve cioè riguardare tanto la sfera cognitiva che quella affettiva; c) la partecipazione attiva: il coinvolgimento diretto del bambino e della famiglia nel progetto e nell’intervento. Non è pensabile che qualsiasi tipo di intervento, che spesso dura anni e richiede impegno, possa essere “imposto” dall’alto al soggetto disabile e alla sua famiglia. Bisogna quindi sempre cercare un’adesione emotiva, anche se inconsapevole, e non trascurare i momenti di rifiuto considerandoli frutto di “cattiva volontà”, ma solo espressione di un disagio. Molte ricerche hanno messo in luce il ruolo di fondamentale importanza della famiglia nella riuscita di qualsiasi intervento, ma questo con l’accortezza di non finire per condizionare tutta la vita dell’intera famiglia al servizio della disabilità. d) Migliorare la qualità della vita, favorendo lo sviluppo dell’indipendenza, del benessere emotivo e della partecipazione sociale; e) la programmazione puntuale: per garantire un intervento efficace, questo deve rifarsi ad un modello teorico scientificamente fondato, sulla base del quale vengono stabiliti gli obiettivi da raggiungere, le metodologie e gli strumenti per raggiungerli, le modalità di verifica.

PARTE PRIMA

CAP. 2. DISABILITA’ UDITIVA Il quadro relativo al deficit uditivo è estremamente variegato, in quanto spesso la compromissione dell’accesso al mondo dei suoni non esclude la possibilità di manifestare potenzialità e risorse anche in questo stesso ambito. Già definire la situazione di sordità risulta problematica, perché le definizioni possono essere molto diverse sia per le caratteristiche delle persone colpite da questa disabilità, sia per le teorie di riferimento di chi tratta l’argomento. In passato si utilizzava il termine sordomuto, oggi desueto ormai, per indicare individui che non possono né sentire né utilizzare il linguaggio verbale, confondendo tuttavia la conseguenza con la causa della disabilità. L’art. 1 della legge 95/2006 ha sostituito il termine sordomuto con quello di sordo, e in particolare sordo perlinguale, per indicare una condizione che insorgendo prima del linguaggio verbale, ne compromette l’acquisizione. La legge tende quindi a sottolineare come la condizione di sordità non implichi un impedimento nell’acquisizione del linguaggio verbale, ma una compromissione. Pertanto, l’apprendimento del linguaggio, per i soggetti sordi, non deve essere considerato impossibile ma soltanto difficoltoso (può tuttavia realizzarsi con interventi e percorsi abilitativi precoci). Il termine sordo ha comunque il limite di non sottolineare che il deficit uditivo è molto raramente totale. Ecco perché molti ricercatori preferiscono parlare di audiolesi e ipoacusici, ovvero di persone che, pur gravemente compromesse nell’accesso al mondo dei suoni, conservano delle potenzialità e delle risorse in questo ambito. Ci sono molti fattori che concorrono a determinare la variabilità fra i soggetti affetti da deficit uditivo: la causa della sordità (ereditaria o acquisita), la qualità e il grado della perdita uditiva, l’eventuale presenza di altri danni associati, l’appartenenza a famiglie di sordi o di non udenti, il tipo di educazione. Si potrebbero aggiungere: la precocità e la tempestività dell’intervento, l’impatto della disabilità sulla famiglia, il supporto della rete sociale di appartenenza. Una corretta e precoce diagnosi eziopatogenetica è il primo passo verso un approccio efficace e vincente al problema. Una prima distinzione dei tipi di sordità può essere fatta in base alla localizzazione del danno che comporta la perdita uditiva, in: - sordità trasmissiva, che interessano le parti dell’apparato uditivo deputate alla trasmissione del suono; in questo caso, le onde sonore non arrivano o arrivano parzialmente distorte all’orecchio interno. Di solito, sono sordità lievi; - sordità percettiva, che, a loro volta, si dividono in: neurosensoriali, se il deficit interessa l’orecchio interno e le vicine connessioni nervose, e centrali, se il deficit interessa i centri uditivi del cervello e le connessioni distali del nervo acustico. La perdita uditiva, in questi casi, può variare da lieve a gravissima; - sordità mista, nella quale si sommano anomalie nella conduzione e nella percezione del suono, in quanto interessano sia le zone periferiche che quelle centrali dell’apparato uditivo. Un’altra classificazione dei tipi di sordità viene fatta in relazione alla gravità della perdita uditiva, definita in base alla quantità e alla qualità del deficit e in relazione all’intensità e all’altezza dei suoni percepiti. L’intensità è data dall’ampiezza di pressione dell’onda sonora e si misura in decibel (dB): essa corrisponde alla sensazione soggettiva di sentire un suono più o meno forte. L’altezza è data dalla frequenza di pressione dell’onda sonora e si misura in hertz (Hz): permette di distinguere suoni acuti e gravi. L’orecchio umano, in condizioni non patologiche, percepisce frequenze comprese fra i 20 e i 20.000 Hz. Le risposte di una persona ipoacusica possono variare molto, ma la sordità è tanto più grave quanto più alta è l’intensità necessaria affinché i suoni vengano ricevuti e quanto più è minore la gamma di frequenze che l’orecchio percepisce. L’ipoacusia viene distinta in: - leggera - media

- grave - profonda Un’ulteriore modalità di classificazione si effettua in base alle cause (sordità ereditaria o acquisita) e all’ epoca di insorgenza del deficit (prenatale, perinatale e postnatale). Si comprende bene come attualmente riveste estrema importanza una diagnosi precoce e corretta, che consenta un intervento tempestivo ed efficace, anche con l’ausilio di strumenti che consentono anche ai bambini con sordità profonda di accedere al mondo dei suoni. Due le linee di sviluppo in questa direzione: gli apparecchi acustici, più tradizionali, e l’impianto cocleare. Lo sviluppo degli apparecchi acustici è avvenuto da quando si è superata l’idea che solo le alte frequenze fossero utili alla comunicazione orale, che implicava il rifiuto ad utilizzare protesi uditive per i casi di profonda sordità. Le protesi di nuova generazione utilizzano amplificatori multicanale, che permettono di privilegiare le frequenze del parlato, anche in ambienti rumorosi e di ridurre il grado di distorsione nell’ascolto. L’impianto cocleare è, invece, uno stimolatore del nervo acustico, che viene utilizzato quando la coclea è completamente o gravemente compromessa. Non si tratta in questo caso di una protesi acustica ma di un vero ORGANO DI SENSO ELETTRONICO, in grado di stimolare direttamente, mediante energia elettrica, le fibre residue del nervo acustico. A part...


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