Questo matrimonio non s\'ha da fare PDF

Title Questo matrimonio non s\'ha da fare
Author Fra 12
Course Letteratura Italiana
Institution Università Cattolica del Sacro Cuore
Pages 9
File Size 120.3 KB
File Type PDF
Total Downloads 65
Total Views 123

Summary

Riassunto libro...


Description

“Questo matrimonio non s’ha da fare” Lettura de “I promessi sposi” Enrico Elli Di Lucia e della Giuistizia Capitolo III Per certi aspetti il capitolo III dei promessi sposi potrebbe venir definito un capitolo ‘ponte’, che collega la grande ouverture dei primi due capitoli con i successivi, che arricchiscono di fili l’intreccio. Sul piano narrativo lo sviluppo della cantafavola rispetta le regole. Un ostacolo imprevisto si frappone al realizzarsi dello scopo che i protagonisti volevano raggiungere (matrimonio). Si comincia qui con l’Azzecca -garbugli, si prosegue con padre Cristoforo, si proverà con il matrimonio a sorpresa. Questo capitolo ha un’unità di tempo: si svolge tutto nel giorno 8 novembre 1628; e un’unità di luogo: la casetta di Lucia. Ciò che da unità a queste pagine è il tono. Dopo l’inizio ‘alto’ e vivace di incontri e scontri lo sparito del racconto si imposta con tono minore. Questo capitolo è il capitolo di Lucia, o meglio il primo dei capitoli che vedono la protagonista femminile in primo piano. Non a caso il nome Lucia è la prima parola del capitolo “Lucia entrò nella stanza terrena” è la sua vera prima entrata in scena. In questo capitolo la vediamo agire e parlare nella sua dimensione autentica, modesta e quotidiana, pudica e schiva, ma anche sicura e decisa all’occorrenza. L’ “accento soave” è la sua nota caratteristica che la distingue da ogni altro personaggio. Al tono sommesso e alle poche essenziali parole di Lucia, si contrappongono il gridare di Renzo e il suo teatrale gesticolare. Infine, il capitolo ci anticipa in parte la presentazione di padre Cristoforo. Azzecca garbugli è la contrapposizione di due modi di vedere il mondo e di cercare di trovare un rimedio alla triste situazione: ricorrere alla giustizia degli uomini o a quella di Dio. Il capitolo tre può anche essere definito  il capitolo della giustizia. C’è quella prospettata da Renzo, che poi giustizia non è bensì vendetta. C’è poi la giustizia rappresentata dalle leggi degli uomini, azzecca garbugli dovrebbe applicarla, ma lui manipola e stravolge le gride. E infine c’è la giustizia di Dio, si fonda sulla superiore legge dell’amore, che si chiama carità; e l’elemosina, di cui fra Galdino si fa predicatore, ne è la sua traduzione pratica. L’elemosina dunque come testimonianza concreta di carità: la suprema legge evangelica dell’amore per il prossimo, che va ben oltre la legge degli uomini. È questo il vero miracolo che unisce gli uomini in autentica comunità di fratelli. Francesco Mattesini Drammaturgia di una conversione Capitolo IV Preludio Il preludio ha un suo ritmo binario, che imprime dinamicità alla pagina e già sottolinea una vicenda in movimento. Il capitolo IV prende l’avvio, si svolge e si caratterizza come azione drammatica. Il breve accenno al paesaggio è semplicemente uno sfondo. Subentra l’elemento storico antropologico che porta sulla scena il depresso spettacolo di figure umane smarrite, affamate simbolo di un male sociale e politico improntato ad un realismo a forti tinte che sembra ancora più agitare il pensiero di padre Cristoforo.

Il duplice preludio segna la comparsa del protagonista di questo capitolo. Il primo attore di questo dramma  padre Cristoforo. Ludovica che diventa Cristoforo spicca tra i convertiti quali appaiono nel romanzo. Conversione di Cristoforo: conversione ‘morale’ questo evento rimane ugualmente drammatico, e sembra anch’esso uscire dalla pagina di Shakespeare, dal quale Manzoni scrive più volte di aver imparato a “trascorrere le ambagi del cuore umano”. Primo atto Inizia con un punto interrogativo: chi è padre Cristoforo? da qui la necessità di rispondere ad una domanda di identità, perché padre Cristoforo non era sempre stato così e nemmeno il suo nome che prima era Ludovico. Nel doppio nome è già incluso il senso di un dramma. Il testo si interessa alla prima parte della vicenda biografica di Ludovico  figlio di un ricco mercante ma è un ricco che soffre un complesso di inferiorità rispetto alla classe signorile cui tenta di accedere. Figura paterna psicologicamente dibattuta il figlio ne eredita lo spirito. Ludovico vive a disagio in mezzo ai suoi pari. Insorge una noia di vivere, Ludovico vive la sua vita tra forti contraddizioni. Sulla scia dell’ironia il primo atto assume la forma della drammatica rappresentazione del personaggio, Ludovico. Dalla biografia raccontata si passa alla teatralizzazione, con culmine la scena del duello combattuta sulla strada. Secondo atto Era la prima volta che Ludovico si sorprendeva a contemplare la morte e di prendere coscienza di sé come omicida. Tale presa di coscienza non si arresta di fronte a un’impressione, si eleva si trasforma in una “rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti”. Si innesca l’evento straordinario della conversione ispirata dalla luce del perdono cristiano. Si ha un susseguirsi di termini a forte valenza spirituale (dolore, sgomento, rimorso, angoscia) e di sentimenti còlti nelle profondità del cuore del protagonista. Conversione illuminata dall’idea del perdono, segno gratuito di una volontà superiore che l’ispira dall’alto, attraverso le circostanze, gli avvenimenti imprevisti, voluti o subiti senza volerli. Perdono come principio e fine di un ethos, come legge suprema, come profezia salvifica aperta a tutti. Al linguaggio desolante della realtà si contrappone il linguaggio del perdono. Il perdono dato al nemico è rappresentato in modo più marcatamente e sontuosamente scenografico. Il punto di vista del narratore si sposta a casa del nobile, fratello dell’ucciso. Vero ‘colpo di teatro’. Davanti a padre Cristoforo che fa la sua “confessione pubblica” e chiede perdono a scena aperta, lo spettacolo assume la forma di un dramma sacro, di una sacra rappresentazione. Sulla scena si fanno evidenti gli effetti del perdono e della sua capacità di ristabilire rapporti, relazioni personali e sociali. Il perdono prende figura del pane, qui si incarna tutto il suo valore cristiano; nel pane si fa presente un’offerta sacrificale. Un rendimento di grazia che potremmo definire eucaristico. Il pane del perdono assurge a simbolo di alimento di cui dobbiamo nutrirci sempre. Epilogo È un epilogo di tipo linguistico, proiettato sempre sul personaggio. Di padre Cristoforo sebbene uomo nuovo, si viene a sapere che aveva mantenuto la sua natura e la sua indole, la sua passionalità, l’energia primitiva del suo dire e del suo essere. E tramite un giudizio posto al termine del capitolo, Manzoni sembra voler stemperare la consueta ironia la drammaticità eroica della rappresentazione per rientrare nei binari della conversazione comica.

Carlo Annoni La notte degli imbrogli e dei sotterfugi Capitoli VII-VIII Parentesi riguardante capitolo IX  con l’intento di accompagnare Renzo, Lucia, Agnese i quali vengono condotti in salvo prima dal barcaiolo e subito dopo dal barrocciaio sulla strada che porterà a Monza. La generosità dei soccorritori è molto alta visto il rischio cui si espongono. Qui la compattezza del male si sfalsa: ci troviamo infatti collocati in un’“aura” del sublime e spirituale “Addio monti”. Sono queste zone apparentemente minori e i personaggi piccoli nei quali ci siamo ora imbattuti a dirci come il mondo di Manzoni sia un mondo salvato. Ci è facile incontrare la scena agiografica della salvezza del giusto affidata agli angeli. Cambiando punto di vista notiamo anche come l’“Addio monti” sveli anche il cuore del cuore di Lucia. Conviene rammentare subito la ricca fenomenologia del pudore, che si precisa più volte nel turbamento della giovane. Manzoni non è scrittore allegorico ma è certamente scrittore simbolico. I promessi sposi contengono anche in maniera grandiosa anche la dimensione della letteratura popolare, per la quale i personaggi escono dalle pagine ed abitano fra di noi, cosicché prendiamo parti alle loro vicende. Pascoli si è accerto che questa fuga dei promessi sposi dal paese natio ricorda a intarsio la figa di Enea da Troia in fiamme, con il vecchio Anchise sulle spalle, il figlio Ascanio per mano e la moglie Creusa accanto. Ermanno Paccagnini Vittime e carnefici: la vicenda di Gertrude Capitoli IX-X Capitoli che passano dalla narrazione in cui l’invenzione (ricostruzione dell’infanzia di Gertrude) cede al reale (omicidi e turpitudini conventuali, connivenza di altre monache, amori con Egidio) sia pur mediato da una narrazione di tipo agiografico. Nella nuova narrazione dei promessi sposi Manzoni riequilibra il dato storico-narrativo verso l’invenzione grazie al cesello che opera nella rielaborazione della piccola futura madre badessa, grazie anche alla sigla che vela la realtà con le due ammiccanti parole “la sventura rispose” Pierantonio Frare Padroni e servi Capitoli XX-XXI Ci troviamo nell’inizio della seconda parte del romanzo. Il blocco di quattro capitoli che va dal XVIII al XXI costituisce il centro topografico del romanzo, ed è dedicato alla rimozione degli ostacoli che impediscono a Don Rodrigo di impadronirsi di Lucia: dopo che Renzo si è praticamente esiliato da solo il conte del consiglio segreto ottiene dal padre provinciale l’allontanamento di fra Cristoforo dal Pescarenico. Non resta che strappare Lucia dal convento di Monza (serve l’aiuto dell’Innominato che aiutato da Egidio riesce facilmente nella sua impresa). Ma il contatto con la Fanciulla accentua la crisi esistenziale dell’Innominato e ne prepara quella conversione che sarà sancita in seguito al colloquio con il cardinale: cosicché il progetto di don Rodrigo viene vanificato proprio ad un passo dal successo definitivo. Solitamente questi due capitoli vengono definiti i capitoli dell’Innominato  definizione giusta, purché si tenga conto che il ruolo di Gertrude e di Lucia è molto meno marginale di quanto non appaia a prima vista.

Il capitolo XX inizia con una descrizione che fa capire che sta iniziando una nuova parte del romanzo caratterizzata da “una prevalente iniziativa di Dio”. L’Innominato è raffigurato più e meglio che dal suo ritratto dal cronotopo del castello vero e proprio simbolo del suo dominio assoluto sui luoghi e sulle persone. Che l’innominato rivesta, almeno in quegli ambiti, il ruolo di padrone assoluto è più volte ribadito dal testo: egli non fa che comandare ed essere prontamente ubbidito; è definito come il padrone, il signore. Ma il narratore insinua che le cose stanno diversamente, che la reale condizione dell’Innominato è quella di essere servo: non solo perché si fa strumento di un capriccio di don Rodrigo ma in un senso più profondo, esistenziale. Nel capitolo successivo dopo la relazione avuta dal Nibbio, che gli racconta della compassione che Lucia gli ha provocato, l’Innominato così riflette: “quell’animale di Don Rodrigo non mi venga a rompere la testa con ringraziamenti; che non voglio più sentir parlare di costei. L’ho servito perché… perché ho promesso: e ho promesso perché… è il mio destino” È importante notare che le decisioni dell’Innominato non sono frutto di una libera scelta, ma di una volontà esterna a lui: per quanto ciò possa sembrare paradossale, l’Innominato è eterodiretto. Non ci si può sorprendere dunque, che in questo stesso monologo egli sia descritto a fissare l’ombra di un’inferriata, sineddoche della prigione e della servitù in cui si trova lui. Anche Gertrude è eterodiretta: non tanto da Egidio ma dal “delitto”. “Il delitto è un padrone rigido e inflessibile contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente.” Anche l’innominato come Gertrude conosce questi balenii del bene dentro una vita di peccato, balenii che si esprimono tramite una “voce segreta” e “imperiosa” che dice no; ad essa l’innominato decide di obbedire a differenza di Gertrude. La vicenda dell’Innominato risulta omologa a quella di Napoleone nel Cinque Maggio, anch’egli è una superba altezza che passando attraverso la medesima tentazione del suicidio finisce per inchinarsi finisce per inchinarsi “al disonor del Golgota”. Che qui è testualizzato in quel Dio che grida dentro: “io sono però”  la citazione biblica è innanzitutto la risposta al dilemma di Amleto (essere o non essere) che l’Innominato aveva evocato poche righe prima (Invecchiare, morire e poi?). Le vicende di Gertrude e dell’innominato si rivelano quindi simili e antitetiche. La crisi, che entrambi conoscono e risolvono così diversamente, è scatenata dal contatto con Lucia, nella quale va vista la terza e principale protagonista di questi capitoli. Lucia è una “prigioniera” che libera, una “supplichevole” che “dispensa grazie e consolazioni”. Questo paradosso (ennesima variazione sul paradosso cristiano del Dio che si fa uomo, che attraversa la morte per dare la vita) incarnato da Lucia costituisce il modello che consente all’Innominato di riconoscere, la propria reale servitù dal peccato, primo passo per l’umiliazione prima davanti a Lucia, poi davanti a Dio e al suo rappresentante il cardinal Federigo. Lucia con la sua notte modellata su quella di Cristo nell’orto degli olivi riveste dunque un ruolo fondamentale in questi due capitoli (anche se non risolutivo): sia dal punto di vista simbolico sia dal punto di vista dello scioglimento dell’intreccio: perché la conversione dell’Innominato apre indubbiamente la strada al superamento dei tanti ostacoli che impediscono il matrimonio tra i due giovani. Lucia con l’oblazione della propria castità fatta con il voto accelera lo svolgimento della fabula, ma pone anche l’ostacolo più grave alle nozze. Lucia come Renzo, si trova ad agire contro se stessa: nel mondo dei promessi sposi i piani degli uomini vengono continuamente ironizzati da una trama superiore che li annulla o che li porta sì a compimento, ma secondo un’altra e superiore logica.

Luca Baldini Confalonieri Tra ‘mondo’ e ‘promessa’: don Abbondio e il cardinal Federigo Capitoli XXV-XXVII Un’opposizione fondamentale per Manzoni è quella tra ‘mondo’ in senso giovanneo, e ‘promessa’. Due altre opposizioni si legano e si dipartono da questa che è centrale, quella tra isolamento e condivisione, e quella tra parola del mondo e parola di annunzio di questa realtà di vita, che è nel mondo ma non è del mondo. L’inizio del capitolo XXV ci presenta le reazioni e i commenti “nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco”, agli ultimi fatti e cioè alla conversione dell’Innominato e alla liberazione di Lucia. Mentre per l’innominato la ‘braveria’ ha chiesto ‘il riposo ’, e si è fatta condivisione, don Rodrigo e i suoi cortigiani sono rappresentati tutti ancora nella “politica vecchia fine” propria del mondo. Di don Rodrigo di cui Manzoni ricostruisce più in dettaglio i pensieri e le preoccupazioni, questa è la risoluzione finale: “alzatosi una mattina prima del sole, si mise in una carrozza, col Griso e alcuni bravi; partì come un fuggitivo, come Catilina da Roma, sbuffando e giurando di tornar presto, in altra comparsa, a far le sue vendette”. È netta la contrapposizione con la realtà comunitaria dell’accoglienza al cardinale, su cui si distendono le pagine che seguono. Da questa vita della comunità si stacca don Abbondio “uggioso in mezzo a tanta festa, e per il fracasso che lo sbalordiva, e per il brulicar della gente innanzi e dietro che gli faceva girare la testa, e per il rodìo segreto che le donne avesser potuto cicalare, e dovesse taccargli a render conto del matrimonio” Don Abbondio è solo e va in direzione opposta al suo popolo. La solitudine di don Abbondio ritorna nell’immagine dove viene mostrato mentre si frega le mani contento e soddisfatto della sua abilità a tener tutto sotto controllo. Le illustrazioni ci accompagnano adesso in una scorsa più veloce: rappresentandoci la semplice consulta di madre e figlia con il sarto che non pensa possibile Lucia rifiuti l’invito giunto da una nobile donna come Prassede; Agnese e Lucia che si accordano con donna Prassede; infine l’accoglienza festosa della folla di compaesani di Lucia. È al clamore festoso di quest’ultima immagine che si oppone nella pagina seguente l’incontro a tu per tua tra don Abbondio e il cardinal Federigo. Si faccia attenzioni alle esplicite menzioni del “mondo” nella risposta del cardinale all’evocazione, da parte del curato, del rischio della vita come giustificazione al non aver compiuto il proprio dovere. La parola mondo ritorna in quella replica quattro volte, in opposizione alla chiesa, “madre dei santi”, secondo la Pentecoste. E Federigo evoca lì anche la virtù pagana, propria del mondo, quella esaltata nei manuali scolastici di storia romana. Ma a questo mondo che si basa sulla “forza” il cardinale contrappone appunto la “buona nuova” delle “genti nuove”: “chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza?” La pausa tra i due capitoli e l’inizio del XXVI creano un significativo spazio di silenzio. Manzoni trova un “non so che di strano in questo mettere in campo, tanti bei precetti di fortezza e di coraggio” La parola chiave è il coraggio della testimonianza umile e veritiera di una parola che è ricevuta e richiede una risposta, e una risposta di vita, innanzitutto a chi l’annunzia”. Il discorso del cardinale insiste ancora su un antagonismo tra “legge di Dio” e realtà mondana della forza. Ideologicamente importante è il riconoscimento che segue da parte del curato, del trovarsi n accordo il cardinale con Perpetua, che per le minacce subite la prima cosa che era da afre era informare il cardinale. Indicazione che sottolinea l’importanza dell’aiuto che i membri dell’Ecclesia possono darsi reciprocamente e l’aiuto che può fornire in particolare il vescovo.

C’è un’altra idea di condivisione che è qui sottolineata, l’idea fondamentale per Manzoni, che al “semplice” illetterato, come a Perpetua come al cardinale, è dato conoscere e sapere quello che occorre fare, è dato – lo sappiamo per Lucia – vedere e testimoniare la verità e la luce. Don Abbondio affronta in modo importante ma involontario il cardinale dicendo che le facce dei bravi e le loro parole le aveva sentite lui e che quindi bisognava mettersi nei suoi panni. Il curato per scusarsi accusa i promessi del tentato matrimonio per sorpresa segue ancora un’evocazione dell’opposizione mondo\promessa: “che il ricorso dell’oppresso, la querela dell’afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale; ma noi!” Infine Federigo potrà concludere con un’ultima esortazione, relativa proprio al cuore e alla carità, dove è evocata una sapienza che non è quella del mondo ma è un tutt’uno con quella della carità che è poi “virtù” nel senso anche di forza, e dunque di “coraggio” , “di cui abbiamo bisogno”. Del seguito del capitolo converrà sottolineare la capacità di approfondire con finezza, l’anima di una popolana come Lucia. Lucia ha fatto della sua vita, pur con le debite differenze, proprio quello che don Abbondio non aveva saputo fare: metterla nelle mani di Dio. Alla fine, madre e figlia si troveranno ancora sul tema della condivisione, seguendo un’idea di Lucia che propone di inviare a Renzo la metà dei denari ricevuti dall’Innominato, la circolazione del denaro qui è proprio segno di una circolazione della carità e della vita... Queste pagine delineano con grande nettezza un’opposizione tra la “grande storia” e le sue virtù pagane, e la storia diversa e nuova che interessa a Manzoni e i suoi lettori. Capitolo XXVII: segue le prime 5 pagine che trattano della guerra di successione per Mantova. Tutto il capitolo è sotto il segno del “tempo sciagurato” scriveva Getto “ di guerre e diplomazie reali o ideali”, comprese le fatiche di corrispondenza tra i personaggi popolari, e gli inutili e opposti sforzi di Lucia e Renzo. Giuseppe Farinelli La peste nei “Promessi sposi” Capitoli XXXI – XXXII Peste milanese 1630  definita peste degli untori. Questi capitoli sono interamente definiti a ciò che è stata la più tragica epidemia avvenuta a Milano appunto la peste del 1630, morirono in pochi mesi centocinquantamila persone. Cap. XXXI descrive il modo con cui gli uomini si comportarono alle avvisaglie del male. Secondo Manzoni tutti sbagliarono perché non vollero o non seppero ammettere l’evidenza dei sintomi della malattia e anzi usarono mille astuzie per confonderli e nasconderli. Molti critici (soprattutto Benedetto Croce) accusarono il capitolo XXXI di eccessivo moralismo, dimenticando che gli intenti di Manzoni si fondavano proprio su quelle precise virtù e attitudini morali che regolano la prassi umana e che sono alla base di una ...


Similar Free PDFs