Riassunto del libro \"I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale (a cura di Marco Ruotolo e Silvia Talini)\" PDF

Title Riassunto del libro \"I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale (a cura di Marco Ruotolo e Silvia Talini)\"
Author Benedetta Marfisi
Course Politiche della sicurezza e relazioni internazionali
Institution Università degli Studi Gabriele d'Annunzio - Chieti e Pescara
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Summary

riassunto ben fatto del libro "I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale" (a cura di Marco Ruotolo e Silvia Talini) ...


Description

Daniele Chinni “Lavorare come se liberi. Profili costituzionali del lavoro nell’esecuzione penale”

1. Il principio lavorista nella Costituzione Italiana La Costituzione italiana si apre con la fondamentale proclamazione che enuncia la scelta di fondare la Repubblica sul lavoro. Il lavoro, in base a questo principio lavorista, è quindi ciò che caratterizza la Repubblica, ciò su cui essa si fonda. Esso fornisce quindi l’indirizzo di azione dei pubblici poteri, che devono assicurare la rimozione di qualsiasi ostacolo di natura economica e sociale, che limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. Il lavoro è considerato uno strumento necessario allo sviluppo ed affermazione della personalità. Solo con il riconoscimento del diritto al lavoro, i cittadini sono messi nella condizione di partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. PRINCIPIO LAVORISTA: il lavoro è diritto e dovere. 2. Il principio lavorista in carcere Storicamente, nel regime penitenziario, il lavoro aveva un’accezione strettamente punitiva. Era considerato come una prosecuzione della pena, un ulteriore mezzo sanzionatorio adottato nei confronti dei detenuti. La centralità della persona umana nel nuovo ordinamento repubblicano non poteva che modificare completamente questo aspetto, introducendo una nuova visione del lavoro nel carcere. E’ evidente il fatto che il principio di libertà-dignità che pervade la Costituzione repubblicana, insieme ai principi di umanizzazione delle pene e rieducazione del condannato, siano incompatibili con il principio di lavoro forzato che caratterizzava la normativa e la prassi precedente. I soggetti che lavorano all’interno degli istituti penitenziari verranno quindi definiti non più detenuti-lavoratori, vale a dire persone aventi una restrizione personale che prestano un’attività lavorativa, ma lavoratori-detenuti quindi in primis lavoratori, che sono limitati soltanto nella libertà. 3. Il lavoro nella legge sull’ordinamento penitenziario Il legislatore modifica radicalmente la legislazione sul lavoro penitenziario solo con la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, del 26 luglio 1975, n° 354 .(per comodità la si abbrevierà on o.p.). L’esigenza, infatti, era quella di adattarsi alle linee direttrici della Costituzione e superando la disciplina imposta dal Regolamento fascista del 1931. Con la 354/75 il lavoro diventa un elemento del trattamento penitenziario, dovendo essere assicurato a fini rieducativi, salvo casi di impossibilità. 1

Il lavoro perde qualsiasi contenuto di afflittività e diventa uno strumento finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato. (art. 15 o.p) L’art. 20 pone poi le basi per lo sviluppo di questa nuova concezione del lavoro penitenziario, attuata ulteriormente dagli artt. Da 21 a 25 del medesimo o.p, oltre che dal nuovo Regolamento di esecuzione del 20 giugno 2000, n.230(lo si abbrevierà con reg.): - Il lavoro è remunerato - Il lavoro è obbligatorio per i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro - Deve riflettere le organizzazioni e i metodi tipici della società libera, per consentire ai soggetti di acquisire una preparazione tale da consentirne il reinserimento sociale - Nell’assegnazione del lavoro, bisogna tener conto delle professionalità e delle attività svolte precedentemente dal detenuto a cui essa potrà tornare a dedicarsi una volta tornato libero - La durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti previsti dalla legislazione vigente e sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale Il presupposto fondamentale è che il lavoro debba esser svolto secondo le modalità e con le tutele riconosciute al lavoratore libero, per consentire nell’ambito del reinserimento sociale dell’individuo e nella sua percezione e riconoscimento di se stesso in quanto lavoratore. 3.1 L’obbligatorietà del lavoro penitenziario Nel quadro dell’assimilazione del lavoro penitenziario al lavoro libero, l’O.P. ha tenuto conto di quelle che sono le specificità del lavoro carcerario. Un primo profilo di differenziazione va rinvenuto nell’obbligatorietà del lavoro penitenziario, dove il volontario inadempimento degli obblighi lavorativi comporta delle sanzioni disciplinari. Questo è un aspetto molto controverso, a tal punto che alcuni ritengono che esso sia di fatto un retaggio del precedente ordinamento pre-repubblicano. Vi è poi chi evidenzia che l’aspetto obbligatorio del lavoro è giustificabile in base alla concezione di lavoro quale strumento di reinserimento sociale del soggetto, e quindi anche quale strumento di promozione dell’individuo. Infine, vi è una terza tipologia di considerazioni, in cui l’obbligatorietà viene definita come bidirezionale: in base a questa visione, l’O.P. non si limita a sancire che i detenuti sono tenuti a lavorare, ma assegna all’amministrazione penitenziaria l’onere di mettere i detenuti stessi in condizioni di assolvere a tale obbligo. Il lavoro, in questo modo, viene configurato quale diritto, prima che dovere. Si tratta della concezione di obbligatorietà più vicina alle linee della Costituzione. 3.2 Più lavori, un lavoro La caratteristica principale che differenzia il lavoro penitenziario da quello nella società libera è l’assenza di scelta dell’attività lavorativa da parte del detenuto. Infatti, è l’amministrazione penitenziari a scegliere, tenendo conto anche di aspetti come l’anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione; i carichi familiari. D’altronde, non potrebbe esser altrimenti; il ruolo preponderante dell’amministrazione penitenziaria è determinato anche dal fatto 2

che il detenuto può esser chiamato a svolgere la prestazione lavorativa all’interno dell’istituto penitenziario o all’esterno dello stesso. Il lavoro intramurario rappresenta la modalità tradizionale di svolgimento della prestazione lavorativa da parte del detenuto, il datore di lavoro può essere l’amministrazione penitenziaria stessa, oppure aziende pubbliche/private. A prescindere, comunque, da quale sia il datore di lavoro, il detenuto che lavori all’interno della struttura carceraria deve godere delle stesse tutele riconosciute al lavoratore libero. Il lavoro extramurario viene ritenuto come lo strumento più idoneo ad espletare la funzione risocializzante del lavoro: ciò ad esempio, nel fatto che il detenuto lavori gomito a gomito con lavoratori della società libera, quindi in un contesto di totale immersione nell’ambiente lavorativo libero. Il datore di lavoro, in questo caso, è sempre privato. Intramuraria ed extramuraria può anche essere la partecipazione a corsi di formazione professionali. 4. Le peculiarità del lavoro penitenziario dinanzi alla Corte Costituzionale La retribuzione Vi sono alcune aspetti del lavoro penitenziario che sono spesso apparsi come aventi una dubbia legittimità costituzionale e che in quanto tali potrebbero esser sottoposti al vaglio della Corte Costituzionale. Il primo di questi è quello relativo alla retribuzione riconosciuta al detenuto per l’attività lavorativa prestata. L’art.22 dispone che le mercedi (soldi) siano equitativamente stabilite da un’apposita commissione, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro. Il giudice costituzionale nel 1988 ha inizialmente ritenuto che tale articolo sia applicabile solo al lavoro intramurario; tutte le altre forme di lavoro penitenziario devono esser retribuite come fossero lavoro libero; a distanza di 30 anni, invece, il meccanismo delle mercedi previsto dall’art. 22 può ritenersi sostanzialmente congelato, in base all’incostituzionalità della riduzione della mercede di 1/3 rispetto al salario fissato dai contratti collettivi. 4.1 Le ferie Un altro aspetto sul quale la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi è quello relativo alle ferie. L’O.P aveva escluso questa possibilità a priori, garantendo il solo riposo festivo. E’ stato giustamente osservato che il diritto di usufruire di un periodo di astensione dall’attività lavorativa è parte di qualsiasi rapporto di lavoro, in base alla sua funzione: la reintegrazione psicofisica del lavoratore. Il giudice costituzionale è quindi intervenuto per ribadire che il diritto al riposo annuale integra una di quelle posizioni soggettive che non possono essere in alcun modo negate a chi presti attività in stato di detenzione. Lo status di detenuto, quindi, non può giustificare il fatto che un diritto non sia assicurato all’individuo. Anche in questo ambito, la pronuncia del giudice costituzionale è orientata a rimarcare il concetto per cui le distinzioni tra il lavoro carcerario e il lavoro libero devono esser limitate esclusivamente 3

alle differenziazioni necessarie legate alla condizione detentiva; la centralità della dimensione lavorativa è data dall’introduzione del principio lavorista: il lavoro assume quindi una valenza centrale nel processo di recupero della persona. 5. Come se liberi Nonostante i buoni propositi, il sistema carcerario, nella realtà dei fatti, non è riuscito ad adeguarsi alle innovazioni pretese dalla Costituzione repubblicana, circa il completo ribaltamento della concezione e della funzione del lavoro penitenziario. Ne è conseguita una > incapace di fornire, il più delle volte, al detenuto un’adeguata qualificazione che possa essergli utile, dopo la dimissione, ad esser inserito efficacemente nel mercato del lavoro. SI crea quindi, per via di una domanda di lavoro scarna, una sorta di ozio involontario all’interno delle carceri; per cercare di risolvere la questione ci sono stati degli interventi legislativi, come ad esempio la legge Smuraglia. Essa, attribuendo al detenuto la concezione di “persona svantaggiata” consente al datore di lavoro di fruire di una parziale riduzione delle aliquote contributive per l’assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale. La situazione rimane, ancora oggi, abbastanza deludente: solo circa il 30% dei detenuti lavora; e nella maggior parte di questi casi, essi sono al servizio dell’amministrazione penitenziaria: svolgendo i cosiddetti servizi d’istituto i detenuti non sviluppano alcuna competenza professionale che permetta loro, una volta usciti, di potersi immettere più agilmente nel mercato lavorativo. Si sta cercando, in quest’ottica, di mitigare le restrizioni relative ad esempio ai contratti da apprendistato all’interno della realtà carceraria, per permettere ai detenuti di usufruire di una formazione e di avere la possibilità di lavorare. C’è poi un’altra ipotesi, formulata sempre dagli Stati Generali, ovvero quella dello scambio lavoro/libertà in alternativa a quello lavoro/retribuzione. In base a questa proposta si evoca quindi una logica premiale, che però non combacia affatto con la concezione prevista dalla Costituzione. Infatti, la retribuzione fa parte di quelle posizioni soggettive (al pari delle ferie) che non possono in alcun modo esser negate al detenuto. Scambiare la retribuzione con sconti di pena trasforma la prestazione lavorativa in qualcosa di diverso dal lavoro: un’attività svolta senza il corrispettivo della retribuzione non può esser considerata lavoro. Inoltre, tradisce il senso più profondo del lavoro penitenziario: esso non è tenere impegnate le giornate dei detenuti, premiandoli con sconti di pena, ma quello di consentire loro di lavorare come se liberi , di prepararli durante l’esecuzione della loro pena alla società libera in cui vivranno una volta usciti dal carcere, e di percepire se stessi in quanto lavoratori, perché l’autorealizzazione del singolo è il migliore veicolo per il suo reinserimento sociale.

Caterina Tomba “Il diritto all’istruzione e alla cultura” 1. Introduzione 4

La disciplina dell’istruzione e della cultura all’interno delle carceri non costituisce una novità, diversamente da altre branche più recenti del diritto penitenziario. Sono riscontrabili, infatti, (seppur con finalità e modalità estremamente diverse da quelle attuali) la presenza di un sistema scolastico e formativo, nonché di strumenti e strutture finalizzate all’accrescimento culturale personale già nei Regolamenti Penitenziari del 1891 e del 1931, sistema scolastico che poi viene confermato nell’Ordinamento Penitenziario del 1975. 2. Il Regolamento del 1891 Si tratta del primo testo normativo in cui appaiono riferimenti ad una funzione non esclusivamente punitiva dell’esecuzione penale, e nel quale si intravedono i primi caratteri delle nascenti concezioni special-preventive della pena. L’idea di una prevenzione speciale post-delictum emerge dall’abolizione della pena di morte e dalla sua sostituzione con l’ergastolo, ma anche dall’innovativa differenziazione degli stabilimenti carcerari in relazione all’età e alla condizione giuridica dei detenuti. Il legislatore post unitario ha introdotto due specifiche disposizioni relative al funzionamento della scuola: 1. L’art. 398 che prevede che l’istruzione civile è obbligatoria negli stabilimenti e nelle sezioni penale, per i condannati che abbiano meno di 25 anni. E’ obbligatoria per tutti nelle case di correzione e nei riformatori. I condannati di età superiore possono esser ammessi all’istruzione civile come premio della loro buona condotta; mentre sono completamente esclusiva dalla possibilità di accedere all’istruzione i condannati recidivi, aventi una cattiva condotta. 2. L’art. 399 va a parificare i programmi scolastici penitenziari con quelli delle scuole elementari del Regno D’Italia. La frequenza ai corsi è considerata obbligatoria, chi non rispetti tale obbligo va incontro a punizioni, mentre chi vi adempia costantemente viene premiato. 3. L’art.400 è l’unico relativo alle biblioteche, prevede che presso ogni stabilimento carcerario E ogni riformatorio sia istituita una biblioteca circolante, i cui volumi, scelti tra quelli indicati in apposito elenco approvato dal Ministero dell’Interno, siano messi a disposizione dei detenuti e che nessun altro libro e nessun’altra pubblicazione possa esser lasciata ai detenuti. Tenendo in considerazione il contesto storico in cui si inserisce, il Regolamento del 1891 assume una doppia connotazione: da un lato, è evidente una preferenza del legislatore (seppur parziale) per una finalità rieducativa accompagnata da una tendenza alla liberalizzazione della vita carceraria; d’altro canto, però, non vi è ancora l’abbandono della concezione di studio come dovere del detenuto, essendo il condannato considerato quale “sub-umano”, la cui delinquenza è la conseguenza del suo stato di ignoranza e incultura. Lo studio, in quest’ottica, appare denotato da un carattere correttivo ancorato alla concezione dottrinale del tempo: il binomio analfabetismo/criminalità, legati tra di loro da un rapporto di causa effetto. 5

E’ inoltre importante evidenziare che Il Regolamento e le sue successive modificazioni non hanno trovato una effettiva applicazione per via dell’insufficienza di fondi destinati allo scopo e per via del degrado in cui versavano gli istituti penitenziari nella nuova Italia unita. 3. Il sistema scolastico-penitenziario del periodo fascista L’avvento di un sistema autocratico e antidemocratico quale il regime fascista ha determinato una netta involuzione rispetto ai piccoli passi compiuti precedentemente dal legislatore. Il perno su cui si fondava la concezione dell’esecuzione penale nei primi del 900 era il presupposto che la criminalità avesse tra le cause primarie lo stato di diseducazione scolastica e ignoranza, in cui versavano la maggior parte dei detenuti al momento del loro ingresso in carcere. Da questo presupposto, quindi, derivava la necessità di istruirli, per poterli riadattare alla società. Nella concezione fascista, che estremizza questa visione, il detenuto era un individuo che aveva osato sfidare lo Stato, e quindi il suo tradimento nei confronti del potere pubblico meritava di esser punito e non solo corretto. Mussolini, sulla base di questo assunto, reintroduce la pena di morte nel 1926 (in seguito ad alcuni attentati alla sua persona). Nel Codice Rocco del 1931 vengono, tra le altre cose, attribuite alla pena tre funzioni: afflittiva, emendativa, intimidatoria. Il regolamento penitenziario fascista infatti prevedeva sia una rigida separazione tra realtà carceraria e mondo esterno, ma anche una limitazione delle attività consentite all’interno degli stabilimenti, ridotte al: - lavoro, che serviva in vista delle opere giovevoli alla comunità degli onesti, attuato attraverso lo sfruttamento; - istruzione e religione, che servivano come strumento di indottrinamento indolore dei detenuti. La disciplina dell’istruzione, in particolare, prevedeva che essa fosse obbligatoria e volta soprattutto all’indottrinamento ideologico del detenuto. L’intenzione quindi non era quella di consentire ai detenuti di poter sviluppare la propria personalità attraverso l’istruzione e l’acculturamento, ma invece appunto indirizzare gli insegnamenti e controllarli in modo da procedere con l’indottrinamento al regime. Qualsiasi aspetto connesso all’ambito dell’istruzione era connesso a questo fine (anche ad es. la fruizione di libri all’interno delle biblioteche). In poche parole, quindi, il lavoro, l’istruzione e lo sviluppo della cultura personale ben si prestavano a garantire il controllo delle idee e lo sfruttamento delle braccia dei condannati che nell’ottica di Mussolini meritavano questo trattamento perché avevano osato sfidare ed offendere i pubblici poteri con i loro comportamenti devianti.

4. Istruzione e cultura nella Costituzione 6

Alla Repubblica, con i precetti costituzionali, viene attribuito il dovere tanto di promuovere quanto tutelare la cultura nel suo senso più ampio; non è però chiaro quali siano i connotati che l’intervento statale deve assumere per poter assolvere alle proprie funzioni. Questi aspetti sono concentrati principalmente negli artt. 9, 33 e 34 della Costituzione; non è semplice, in ogni caso, comprendere quale sia l’accezione attribuibile al concetto di cultura. Vi sono a questo riguardo principalmente due orientamenti ermeneutici: uno, cosiddetto selettivo o ristretto che limita il concetto alle sole manifestazioni superiori dell’intelletto umano consistenti nelle sue espressioni artistiche e scientifiche; l’altro, più ampio, che possiamo definire espansivo secondo cui la cultura dell’art. 9 sarebbe quella che nasce dal libero sviluppo della personalità dell’uomo, dalla sua libertà di scelta dei processi formativi, dalla libera formazione del suo sistema di valori. 5. Dalla Costituzione alla legge n. 354 del 1975 E’ noto che l’attuazione dei principi costituzionali in ambito penitenziario abbia tardato ad arrivare. Nell’Ordinamento Penitenziario del 1975 l’istruzione compare prima di tutto nell’art. 15: in esso, ci si riferisce all’istruzione quale mezzo del quale avvalersi principalmente nel trattamento dei detenuti. L’istruzione, per il legislatore del 1975, costituisce un mezzo irrinunciabile, ma non esclusivo, (deve quindi esser comunque integrato con altri strumenti per la riabilitazione del detenuto) né obbligatorio, per la prima volta nella storia. Il legislatore rispetta quindi la volontà del soggetto affidando a questi la scelta di accettare o meno le opportunità offerte; inoltre si è arrivati a capire che la mancata istruzione non è sinonimo di criminalità. L’istruzione assume quindi connotati del tutto nuovi rispetto a prima: essa è orientata a promuovere la crescita personale dell’individuo. L’art.19 O.P è specificatamente rivolto all’istruzione: - il primo comma esprime la problematicità legata all’art.19 , ovvero la presenza del termine cura: infatti, in esso si stabilisce che negli istituti penitenziari la formazione culturale e professionale è curata attraverso l’organizzazione di corsi corrispondenti a quelli previsti per la scuola dell’obbligo. Del testo contenuto nel comma 1 dell’art. 19, vi sono varie interpretazioni, in base alle quali esso rispetto (o sembra non rispettare) i dettami costituzionali. Indubbiamente, una interpretazione costituzionalmente orientata interpreta in questo testo normativo la volontà del l...


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