Antropologia e diritti umani nel mondo contemporaneo PDF

Title Antropologia e diritti umani nel mondo contemporaneo
Author Marco Danza
Course Antropologia giuridica
Institution Università degli Studi di Milano
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Summary

Riassunto completo del saggio antropologia e diritti umani nel mondo contemporaneo di Vanessa Maher
...


Description

ANTROPOLOGIA E DIRITTI UMANI NEL MONDO CONTEMPORANEO A cura di Vanessa Maher

INTRODUZIONE A UN TEMA ATTUALE Il rapporto degli antropologi con la questione dei diritti umani non è stato semplice. Nel secondo dopoguerra l’UNESCO, che agiva per la Commission for Human Rights delle Nazioni Unite, sottopose a vari personaggi e enti morali la proposta che diventò nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani (UDHR). L’antropologo statunitense Herskovits, pubblicò nel 1947 uno Statement on Human Rights, nel quale espresse due riserve nei confronti del documento della Commissione: che le sue ambizioni universalizzanti si scontravano con le conoscenze scientifiche acquisite dagli antropologi sulle differenze tra le società umane e che gli ideali promossi nella Dichiarazione avevano le loro radici nelle varie dichiarazioni che avevano seguito la guerra di indipendenza americana e la rivoluzione francese e quindi esprimevano i valori di nazioni occidentali potenti e non di tutte le popolazioni mondiali. Propose invece lo spirito del relativismo culturale che ha indotto molti antropologi a diffidare del progetto benevolo dei governi occidentali nei confronti di popolazioni minacciate o oppresse, dati i rapporti coloniali ancora vigenti e segnati da atteggiamenti di razzismo e pretese di superiorità. Puntualizza il fatto che nel mondo vi è una grande diversità culturale e che non si può indurre dei diritti per nostra volontà, il problema è l’applicazione universale dei diritti nonostante le diverse etiche. Questi valori sono solo quelli Occidentali (colonialismo, razzismo, oppressione, sfruttamento…) Un’altra obiezione che venne fatta fu: -

È giusto ed è possibile applicarli? Fino a che punto si può interferire in una cultura a livello di etica? Come si fa a stabilire la ragione degli occidentali? Gli Stati che vengono imposti e si ribellano, con queste regole che dovrebbero essere nazionali ledono la sovranità degli Stati-nazione?

Universalismo, relativismo e etnocentrismo Un tema che diversi antropologi si sentono obbligati ad affrontare è quello dell’universalismo “astratto” del discorso dei diritti umani e delle sue categorie, in gran parte stabilite da esperti occidentali. L’antropologo Jourdan commenta che una categoria come quella di “bambino”, definito legalmente come una persona fra gli zero e i 18 anni, secondo la concezione dei paesi ricchi dove tutti i ragazzi vanno a scuola per molti anni, non ha senso in paesi come il Congo o il Malawi dove l’aspettativa di vita è di 38 anni. D’altra parte, diversi antropologi prendono la distanza dal “relativismo culturale” (qualsiasi idea sarebbe giusta) comunemente attribuito alla loro disciplina. Maybury-Lewis è uno fra i tanti antropologi di diverse nazionalità che dalla Dichiarazione di Barbados del 1971 alla Dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene del 2007 (ONU) hanno lottato insieme alle popolazioni indigene per i loro diritti umani. Ma alcune delle obiezioni di Herskovits sono molto attuali: 1

“I diritti umani nel XX secolo non possono essere circoscritti dagli standard di alcuna singola cultura” oppure: “Gli ideali occidentali sono contaminati dalla pratica coloniale e hanno portato alla demoralizzazione della personalità umana e alla disintegrazione dei diritti umani fra le popolazioni dove i paesi occidentali hanno esercitato la loro egemonia”. Negli ultimi anni il concetto di diritti umani è stato utilizzato da gruppi all’interno di uno stato per pretendere il riconoscimento del loro status di “minoranza” e dei loro “diritti culturali”. La definizione dei diritti umani in realtà dovrebbe riflettere la dinamicità della società stessa, evitando la tendenza diffusa criticata dagli antropologi, a vedere altre società come caratterizzate da “culture immobili” oppure “fuori della storia”. Ad esempio, la questione dei diritti umani delle popolazioni indigene non scaturisce da un loro desiderio di rimanere immobili, ma dal bisogno di scegliere come configurare modi di vita propri senza subire pressioni costanti e spesso violente ad abbandonarli. Per molti gruppi che si considerano indigeni oggi, l’indigenità è sinonimo di rapporto anche spirituale con la terra ed è l’alterazione di questo rapporto, spesso orchestrato dall’esterno con uso della forza, che sembra più seriamente minacciare la loro esistenza. La perdita di connessione fra territorio, residenza, sussistenza e pratiche culturali è quasi sempre il risultato di imposizioni che non arricchiscono l’esperienza della gente. L’importanza dell’antropologia e dell’antropologo L’antropologia è utile per: 1. ridimensionare il nostro etnocentrismo, ad esempio il concetto dei diitti d’infanzia-bambino (0-18) dove dare dell’infante ad un ragazzo di 18 anni non è normale, in alcune culture certi ragazzi a 14 anni possono già sposarsi ed avere una famiglia; 2. comprendere più punti di vista, ma assumere il proprio su basi socio-scientifiche, studiando culture e strutture sociali diverse impariamo a relativizzarci; 3. riconoscere i pregiudizi, si può iniziare a decostruire un pregiudizio grazie a informazioni corrette e fondate; 4. evitare l’uso essenzialista del concetto di “cultura”, non reificare i processi culturali, le culture sono processi vi è un continuo cambiamento di valori perché vi è un’interazione tra diverse culture, c’è sempre uno scambio, non bisogna generalizzare; 5. riconoscere la violenza strutturale, vi sono delle cornici culturali che le contengono, le culture sono sessiste, vanno a discapito del genere femminile, non esiste una pari dignità o che le donne hanno più diritti rispetto agli uomini; 6. riconoscere la processualità dei fatti umani, tenerla presente e lavorarci insieme, ogni fatto umano è un processo in itinere di conseguenza; 7. partecipare attivamente a questi processi: interagire-negoziare; spostare l’attenzione dalla “cultura” alle relazioni sociali, non sono le diversità culturali che creano del disagio ma delle diseguaglianze sociali e di poteri; le persone sono sociali, non dobbiamo mai dimenticare che ci troviamo in una relazione e quest’ultime sono importanti per i diritti. La persona secondo una prospettiva antropologica, è nodo di relazioni sociali, ma è anche fonte di concezione di giustizia.; 8. diritto alla Agency in relazioni sociali: agire umano ma consapevole in una cornice sociopolitica nelle relazioni sociali, essere attivi dentro i limiti del rispetto umano (se negozio un diritto sono un soggetto attivo anche in politica). 2

Quale può essere il ruolo dell’antropologo oggi per quanto riguarda la definizione e la messa in pratica dei diritti umani? La ricerca sul campo e l’etnografia sono state la via indicata dagli antropologi novecenteschi per mettere in discussione le congetture universalizzanti ed etnocentriche dell’antropologia evoluzionista. Gli antropologi hanno preferito in genere svolgere ricerche etnografiche locali, tese ad afferrare la visione del mondo indigeno. Immobilismo e negazione dell’agency In un mondo dove tutto si muove, molti profughi e migranti sono intrappolati in un limbo politico e sociale per decenni, condizione che viene definita “immobilismo”. D’altra parte non sempre è la persona che lascia un luogo a essere nella situazione peggiore, come sa ogni migrante. La “localizzazione” (l’essere confinati in un luogo) può essere una fonte di deprivazione materiale e culturale grave nel mondo globalizzato ed è una delle cause dell’emigrazione di massa. Conosciamo tutti delle persone che hanno aspettato per anni un’occasione per emigrare o per farsi raggiungere dalla famiglia. La figura del migrante clandestino, così spesso richiamata dai media, dai ministri e dai commentatori occidentali, ci ricordano che alcuni esseri umani godono della libertà di residenza e circolazione e altri no. Dal punto di vista della corrispondenza fra “paesi natii” e popolazioni residenti, il mondo è cambiato. Circa 50 milioni sono profughi che hanno lasciato le loro case involontariamente. Molte di queste persone non godono di diritti umani di base perché il criterio per il conferimento di questi diritti, in un mondo diviso in stati-nazione, è quello di cittadinanza. Oggi le persone che emigrano provengono spesso da paesi a “stato debole” dove non godono di molti diritti, specie se sono membri di una minoranza invisa come, per esempio, i rom. Se si muovono, il loro stato non li protegge all’estero e si trovano spesso nell’impossibilità di godere di diritti politici, civili e sociali, se non nello status “illegale”, oggetto di atteggiamenti discriminatori e ostili.

I diritti degli indigeni in America Latina I cosiddetti diritti dei popoli indigeni, nonostante abbiamo percorso un lungo cammino, hanno contribuito a cambiare le modalità di rapporto tra gli indigeni e la società dominante in cui questi si trovano a vivere. La lotta per questi diritti è stata una storia di successo internazionale con la formazione di nuove istituzioni all’interno del corpo delle Nazioni Unite e l’adozione di norme sovranazionali a cui i singoli stati sono stati chiamati ad aderire. Per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti indigeni vi sono due pietre militari che hanno contribuito a ciò: da una parte la Dichiarazione di Barbados del 1971, e dall’altra la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni del 2007. Nel primo, vi fu la partecipazione attiva di diversi antropologi che decisero di scrivere e diffondere un comunicato: “Per la liberazione degli indigeni” nel quale si puntava il dito sulle responsabilità degli stati, delle missioni religiose e dell’antropologia. I primi erano sollecitati a garantire alle popolazioni indigene il diritto di essere se stesse, a riconoscere il fatto che prima fossero portatrici di diritti, le seconde a riconoscere l’aspetto sostanzialmente etnocentrico del lungo processo di evangelizzazione e quindi a sospendere qualsiasi attività missionaria, i terzi a non riconoscere più gli indigeni come oggetti di studio ma ad assumere responsabilità politica. La Dichiarazione di Barbados ha favorito senza dubbio la formazione di associazioni indigene che, con il supporto economico del Programma di lotta contro il razzismo, erano presenti alla convocazione del 1977 che ha prodotto la seconda Dichiarazione di Barbados. In quest’ultima si sottolineava la 3

necessità di una organizzazione politica propria supportata da una carica ideologica capace di ottenere una liberazione dalla dominazione politica e culturale ancora in atto. Nel 2007 il lungo iter che ha accompagnato la gestazione della Dichiarazione era concluso ed i quattro pilastri su cui è costruita sono rimasti: riconoscimento del diritto collettivo di esistenza come popoli distinti e di protezione contro il genocidio; il riconoscimento del diritto collettivo di proprietà, del possesso e dell’utilizzo di terre e di risorse tradizionalmente occupate o usate; il diritto dell’autodeterminazione; il riconoscimento di uno status legale internazionale. Barbados non è stato solo il momento in cui gli antropologi sono stati parte attiva in questo processo di riconoscimento dei diritti indigeni. Già nel 1968, nel Congresso internazionale degli americanisti tenuto a Monaco, alcuni antropologi hanno fondato un’associazione che ha preso il nome di International Work Group for Indigenous Affairs, nota come IWGIA. Importante testimonianza fu quella di Mark Munzel, il quale attraverso articoli di giornali e narrazioni, ha trattato del deliberato genocidio perpetuato nei loro confronti. Riferiva di padri e madri uccisi, di bambini catturati e venduti, di denunce fatte presso il Dipartimento degli affari indigeni e di autori di misfatti non consegnati alla giustizia. A partire dagli anni Settanta e sul fronte delle Nazioni Unite, la prospettiva antropologica ha aiutato a formulare la definizione relativa al termine indigeno, inserendosi nella discussione a quali fossero i portatori dell’indigenità. Willemsen Diaz, già dal 1972 proponeva una definizione di massima secondo la quale popolazioni indigene erano quelle che: avevano continuità storica; avevano sperimentato la colonizzazione; avvertivano una divergenza di ordine culturale e sociale con la popolazione maggioritaria; versavano in una condizione di marginalità economica e politica rispetto a quest’ultima. Questa definizione è venuta ulteriormente ampliandosi con il confluire di altri studi: erano popolazioni indigene quelle che occupavano terre ancestrali; che parlavano una lingua specifica e che si distinguevano per altri tratti culturali; che avevano coscienza della loro diversità come gruppo e che da questo erano riconosciuti come apparenti.

1957 : Convenzioni ILO – Organizzaz. Internaz. Lavoro principi tipo: protezione, assistenzialismo, aiuti subdola o forzata vivere in ‘riserve’ … • 1986-89 : criteri di AUTO-IDENTIFICAZIONE NON DISCRIMINAZIONE CITTADINANZA PARTECIPAZIONE ai PROCESSI DECISIONALI SPECIFICITÀ CULTURALI (LINGUE) NECESSITÀ LOCALI •

assimilazione

1° Dichiarazione di Barbados 2° Dichiarazione di Barbados Convenzione ILO - Popoli Indigeni e Tribali Dichiarazione Diritti Popoli Indigeni + Programma Lotta contro il Razzismo + Forum Mondiali È stato necessario prima riconoscere : 1 - che avevano DIRITTO AI DIRITTI già PRIMA di essere inglobati negli STATI COLONIALI • • • •

1971 : 1977 : 1989 : 2007:

2 - DIRITTO allo STATUS di ‘POPOLO’ 4

dato che NON hanno un LORO STATO  processi x la legalizzazione delle LORO TERRE : “POPOLI-NAZIONE” con DIRITTI di PROPRIETÁ COLLETTIVA delle TERRE 3- riconoscere ed eliminare gli aspetti ETNOCENTRICI dell’evangelizzazione: RISPETTO delle RELIGIONI INDIGENE 4 - NON considerare gli Indigeni come ‘oggetti di studio’, ma ASSUMERSI RESPONSABILITà nei loro confronti : sostenere le POLITICHE DEGLI INDIGENI il LORO DIRITTO a ORIENTARE la SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE che LI RIGUARDA ( autodeterminazione ) Casi di studio dal Paraguay e dall’Argentina Il primo a portare in Paraguay lo spirito delle dichiarazioni di Barbados era stato Miguel Chase Sardi, etnologo che per anni è stato punto di riferimento dell’indigenismo paraguayano. Gli indigenisti locali formarono una rete composta da avvocati, antropologi e religiosi che agivano per un fine comune: il riconoscimento di circa 10 000 indigeni presenti nel paese. Frutto di questo impegno congiunto è stato un progetto di legge in favore delle comunità indigene che, nel 1981, è stato licenziato come Ley 904. L’approvazione di questa legge ha significato un’enorme trasformazione da un punto di vista giuridico, in quanto riconosceva le comunità indigene e il loro diritto collettivo alla proprietà della terra e alla protezione delle risorse naturali. Nel giugno 1987, venne approvata la Ley del alborigen 2435, una legge in favore del gruppo indigeno presente nel territorio di Misiones, gli Mbya-Guaranì. Due furono i punti fondamentali della legge: il riconoscimento dell’esistenza del popolo guaranì come entità giuridica e il trasferimento del titolo di proprietà della terra a nome di tutto il popolo e non delle singole comunità. Il disegno di legge era stato di Ana Maria Gorosito, docente di antropologia, con il supporto di un gruppo di studenti che avevano il compito di coinvolgere le varie comunità indigene allo scopo di rendere partecipativo l’iter legislativo. L’ANTROPOLOGIA FRA DIRITTI UMANI E DIRITTI INDIGENI Testimonianza dell’antropologo Giuliano Tescari nella Sierra Madre del Messico. Un maggiorente della comunità wirràrika ha richiamato la sua attenzione: Geronimo, all’epoca ricopriva l’incarico di commissario dei beni comunali e incarnava il ruolo del leader indigeno. La sua instancabile battaglia era per il riconoscimento dei diritti territoriali acquisiti all’epoca sotto il regime coloniale, allorchè nella terza decade del 700 il Re di Spagna aveva sottoscritto le cedulas reales che davano valore legale ai confini riconosciuti alla Comunità. La sua “mission impossible” era ottenere il riconoscimento di quei diritti di cui tuttavia non rimaneva traccia , tranne, forse, che nell’archivio generale delle Indie a Siviglia, in Spagna. E forse proprio qui l’antropologo lo avrebbe potuto aiutare setacciando gli archivi alla ricerca di quei documenti che avrebbero potuto riscattare le terre di cui i Wirràrika erano stati spogliati. Vi sono due assiomi della loro cultura: non c’è futuro, non c’è vita possibile senza uno sguardo costante, attento e rispettoso per il passato e per ciò che esso ha significato e costruito; e non vi è vita degna di esser vissuta laddove questa non si svolga in una relazione armonica e dialettica con i luoghi, la terra e i territori che l’hanno generata e tutelata e che in contraccambio ricevono le cure, l’affetto e la devozione dei suoi abitanti. Ogni unità sociale s’identifica e si riconosce in una porzione di territorio che è il suo rifugio, l’estensione spaziale nel cui ambito quell’unità gode di un relativo senso di sicurezza e ei sui confronti prova e alimenta sentimenti e affetti che trascendono il presente fino a risalire alle origini del tempo. In definitiva è la 5

terra che è casa per gli esseri umani, che li accoglie alla nascita, che li ospita in vita e che provvede alla loro sopravvivenza, e in modo simmetrico a ogni unità sociale corrisponde la sua casa, il suo terreno o territorio dove esercitare i diritti e le prerogative che le competono. Come nel termine autoctono wirrarika, infatti quella terra è molto più di una mera proprietà, risorsa o bene materiale: il significato primario indica l’esistenza di un legame storicamente fondato e consolidato tra un gruppo umano e la terra su e di cui vive. Viene presa in considerazione anche la Comunidad indigena in Messico, la quale richiede il riconoscimento di un’unità sociale particolare e discreta, legata necessariamente ai diritti sulla terra sia per la sovranità su di essa, sia per la sopravvivenza. Questi diritti si realizzano solo all’interno di una specifica cultura e storia, non esistono in astratto al di fuori di essa. Autoctono, vale a dire indigeno: una parola che per lungo tempo ha denominato soprattutto la sudditanza, l’inferiorità, la marginalità e che negli ultimi decenni si è ribaltato in un vessillo di dignitosa fierezza: nel riconoscimento come indigeni e come popoli indigeni, vi è infatti implicata e annunciata una restituzione molto più sostanziale di quella delle terre e delle risorse di cui sono stati depravati: la riconsegna di quella dignità che è stata a lungo negata e insieme la riconsegna dell’effettiva possibilità di determinare il proprio destino in ogni ambito. Il concetto di Popolo indigeno è stato definito dalla segreteria del forum permanente sulle questioni indigene dell’ONU ed è la seguente: “Le comunità, i popoli e le nazioni indigeni sono quelle che, avendo una continuità storica con le società che si sono sviluppate sui loro territori anteriormente alle invasioni o alla colonizzazione, si considerano diversi da altri settori delle società che oggi predominano su quei territori o su alcune loro parti. Inoltre viene ritenuto indigeno colui che: vive su terre ancestrali, ha lingua e cultura specifica (alcuni bambini che nascono nelle favelas e che hanno subito un processo di colonizzazione, come fanno ad essere madrelingua?), ha vissuto la colonizzazione, ha coscienza della sua diversità-identità, ha differenza con la popolazione maggioritaria, ha marginalità economica e politica. Uno dei principali paradossi nell’uso del termine “indigeno” è che si riferisce a gente con un’identità primordiale, un attaccamento persistente al luogo, e a culture che hanno continuato a esistere per secoli o millenni, anche se il concetto di per sé è relativamente nuovo. I popoli indigeni e le loro culture sono visti come gli ultimi avamposti della differenza locale contro la globalizzazione della cultura, ma la comprensione del perché gli indigeni del Canada, dell’Indonesia, dell’Africa occidentale e del Brasile condividono una comune esperienza di “popoli indigeni” è essa stessa un prodotto della globalizzazione. Con poche eccezioni per quanto riguarda i diritti dei popoli indigeni, nel quarto secolo in cui tra Forum permanente sulle questioni indigene (PFII) e Gruppo di lavoro sui popoli indigeni (WGIP) si lavora alla Dichiarazione che verrà infine adottata nel 2007...


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