Il mondo contemporaneo PDF

Title Il mondo contemporaneo
Author Anna Formato
Course Storia contemporanea
Institution Università degli Studi del Molise
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1. LE RIVOLUZIONI DEL 1848

La crisi rivoluzionaria del ’48 interessò gran parte dell’Europa continentale (fra le grandi potenze solo Russia e Gran Bretagna ne rimasero fuori), anche a causa di alcuni elementi comuni presenti nei vari paesi: la crisi economica che nel biennio 46-47 aveva investito l’Europa creando un clima di acuto malessere, l’azione consapevole svolta dai democratici, l’attesa di un nuovo grande sommovimento rivoluzionario. Simili furono anche i contenuti delle varie insurrezioni: richiesta di libertà politiche e di democrazia, e – in Italia, Germania e Impero asburgico – spinta verso l’emancipazione nazionale. La novità delle rivoluzioni del ’48 risiedette nel massiccio intervento delle masse popolari e nell’emergere di obiettivi sociali accanto a quelli politici. Come era già accaduto nel 1830, il moto rivoluzionario ebbe il suo centro di irradiazione in Francia. La monarchia liberale di Luigi Filippo d’Orleans era certamente uno dei regimi europei meno oppressivi. Ma la stessa maturazione economica, civile e culturale della società francese, faceva apparire sempre meno tollerabili i limiti oligarchici di quel regime e la politica ultramoderata praticata da Luigi Filippo e dal suo primo ministro Guizot. Per i democratici, in particolare, l’obiettivo da raggiungere era il suffragio universale. Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici cercarono di trasferire la loro protesta nel paese reale. Lo strumento scelto fu la campagna dei banchetti (riunioni private che consentivano la propaganda aggirando i divieti governativi). Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il 22 febbraio a Parigi, a innescare la crisi rivoluzionaria. Lavoratori e studenti parigini, già mobilitati da giorni, organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per impedirla il governo ricorse alla Guardia nazionale, il corpo volontario di cittadini armati, già impiegata più volte per reprimere agitazioni o sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata a difendere un governo largamente impopolare, fini col fare causa comune con i dimostranti. Dopo due giorni di barricate e di violenti scontri, che provocarono più di 350 morti, gli insorti erano padroni della città. Il 24 febbraio Luigi Filippo abbandono Parigi e la sera stessa veniva costituito un governo che si pronunciava decisamente a favore della repubblica e annunciava la prossima convocazione di un’Assemblea costituente da eleggere a suffragio universale. Nel governo figuravano tutti i capi dell’opposizione democraticorepubblicana ed erano presenti anche due socialisti: Blanc e Albert. L’inclusione nel governo di due rappresentanti dei lavoratori rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle giornate di febbraio, e riaffermava la vocazione sociale della neonata repubblica. Ma una prima secca sconfitta per le correnti di estrema sinistra venne dalle elezioni per l’Assemblea costituente, che si tennero il 23 aprile 1848. Il suffragio universale porto, infatti, alle urne un elettorato rurale, i cui orientamenti erano assai più conservatori di quelli prevalenti nella capitale. I veri vincitori furono i

repubblicani moderati: furono loro a costituire l’ossatura del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti Blanc e Albert. Invano il popolo parigino tento di riprendere l’iniziativa sul terreno delle manifestazioni di piazza. Le manifestazioni di giugno furono stroncate con spietata durezza. Nei mesi successivi la situazione rimase tuttavia sotto il controllo dei repubblicani moderati. In novembre l’Assemblea costituente approvo a stragrande maggioranza una costituzione democratica, ispirata al modello statunitense, che prevedeva un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo per la durata di quattro anni e un’unica Assemblea legislativa eletta anch’essa a suffragio universale. Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i repubblicani si presentarono divisi, mentre i conservatori di ogni gradazione fecero blocco sulla candidatura di Luigi Napoleone Bonaparte, che ottenne una valanga di suffragi. Portato al potere da una coalizione di conservatori, clericali e moderati ex-orleanisti, Luigi Napoleone Bonaparte mostro subito di voler mantenere gli impegni assunti col “partito dell’ordine”. I gruppi conservatori, che avevano favorito l’elezione di Bonaparte in quanto ritenevano di poterlo controllare facilmente, guardavano con sospetto a un eccessivo rafforzamento del suo potere personale. Nel luglio del ’51, la Camera respinse la proposta di modificare quell’articolo della costituzione che impediva la rielezione di un presidente alla scadenza del mandato. Ma pochi mesi dopo, un colpo di Stato attuato con l’appoggio dell’esercito consenti a Bonaparte di sbarazzarsi contemporaneamente della maggioranza moderata e dell’opposizione democratica. Il 2 dicembre 1851 la Camera fu occupata dalle truppe e sciolta d’autorità. La resistenza dei quartieri popolari di Parigi e i tentativi isolati di insurrezione in provincia furono facilmente repressi dall’esercito. Il 21 dicembre, un plebiscito a suffragio universale sanzionò a maggioranza schiacciante l’operato di Bonaparte e gli attribuì il compito di redigere una nuova costituzione. Promulgata nel gennaio successivo, la costituzione stabiliva in dieci anni la durata del mandato presidenziale; ripristinava il suffragio universale, ma toglieva alla Camera l’iniziativa legislativa, riservandola al presidente; istituiva un Senato vitalizio, ovviamente di nomina presidenziale. La Repubblica era ormai tale solo di nome. E la finzione fu abolita nel dicembre 1852, da un nuovo plebiscito che approvava, con una maggioranza ancor più schiacciante la restaurazione dell’Impero sotto Napoleone III. In marzo, il moto rivoluzionario si propago all’Impero asburgico, agli Stati italiani e alla Confederazione germanica. Il malcontento suscitato dalla crisi economica si univa alla protesta contro la gestione autoritaria del potere e si mescolava alle tensioni provocate dalle numerose “questioni nazionali” che il congresso di Vienna aveva lasciato irrisolte. Diversamente da quanto era accaduto in Francia, la componente sociale rimase in secondo piano e lo scontro principale fu

combattuto fra la borghesia liberale e le strutture politiche dell’assolutismo. Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a Vienna, il 13 marzo. L’occasione della rivolta fu data da una grande manifestazione di studenti e lavoratori duramente repressa dall’esercito. Dopo due giorni di combattimenti, gli ambienti di corte furono costretti a sacrificare il cancelliere Metternich: l’uomo simbolo dell'età della Restaurazione dovette abbandonare il potere, che deteneva ininterrottamente da quasi quarant’anni, e rifugiarsi all’estero. Le notizie dell’insurrezione di Vienna e della fuga di Metternich fecero precipitare la situazione nelle già irrequiete province dell’Impero asburgico e nella vicina Confederazione germanica. In Ungheria le promesse del governo imperiale di concedere ai magiari una propria costituzione e un proprio parlamento non bastarono a fermare l’agitazione autonomistica. Sotto la spinta dell’ala democratico-radicale, che faceva capo a Lajos Kossuth, i patrioti ungheresi profittarono della crisi in cui versava il potere centrale per creare un governo nazionale e per agire in totale autonomia da Vienna. Fu eletto un nuovo Parlamento a suffragio universale. In luglio, infine, Kossuth comincio a organizzare un esercito nazionale, primo passo verso la piena indipendenza, che costituiva ormai l’obiettivo finale degli insorti. Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo provvisorio. I patrioti cechi, per lo più di orientamento liberale, non mettevano in discussione il vincolo con la monarchia asburgica, ma si limitavano a chiedere più ampie autonomie per tutte le popolazioni slave dell’Impero. A giugno si riunì a Praga un congresso cui parteciparono delegati di tutti i territori slavi soggetti alla corona asburgica. Ma, a pochi giorni dall’apertura del congresso, alcuni scontri scoppiati fra la popolazione e l’esercito fornirono alle truppe imperiali il pretesto per un intervento. La capitale boema fu assediata e bombardata e il congresso slavo fu disperso e il governo ceco sciolto. La sottomissione di Praga segno l’inizio della riscossa per il traballante potere imperiale, che riprendeva gradualmente il controllo della situazione, sfruttando la rivalità fra slavi e magiari. Dopo la repressione di una nuova insurrezione a Vienna (ottobre ’48), saliva al trono imperiale Francesco Giuseppe. Nel marzo ’49 il nuovo imperatore sciolse d’autorità il Reichstag e promulgo una costituzione “moderata”, che prevedeva un Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri molto limitati e ribadiva al tempo stesso la struttura centralistica dell’Impero. La rivoluzione di Berlino iniziata il 18 marzo 1848, costrinse inizialmente re Federico Guglielmo IV di Prussia a concedere la libertà di stampa e a convocare un Parlamento prussiano (Landtag). Ma intanto agitazioni e sommosse erano scoppiate in molti degli Stati e staterelli che componevano la Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi spontaneamente, la richiesta di un’Assemblea costituente dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi: nacque cosi la Costituente di Francoforte. Ben presto fu chiaro pero che l’Assemblea di Francoforte non aveva i poteri necessari per imporre la propria autorità ai sovrani e ai governi degli Stati tedeschi e per avviare un processo

di unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano che dipendere da quanto accadeva nello stato più importante, la Prussia. Ma proprio in Prussia il movimento liberal-democratico conobbe un rapido declino. Ai primi di dicembre Federico Guglielmo sciolse il Parlamento prussiano ed emano una costituzione assai poco liberale. Nel frattempo la Costituente di Francoforte, spaccata tra le tesi di “grandi tedeschi” e “piccoli tedeschi”, offri al re di Prussia la corona imperiale, ma questi la rifiuto in quanto gli veniva offerta da un’assemblea popolare, nata da un moto rivoluzionario. Il gran rifiuto di Federico Guglielmo segno in pratica la fine della Costituente di Francoforte. All’inizio del 1848, e prima della rivoluzione di febbraio in Francia, negli Stati italiani c’erano forti aspettative di un’evoluzione interna dei vecchi regimi. La sollevazione di Palermo, in gennaio, induceva Ferdinando II di Borbone a concedere una costituzione; il suo esempio era subito seguito da Carlo Alberto di Savoia, Leopoldo II di Toscana e Pio IX. Lo scoppio della rivoluzione in Francia dava nuova spinta all’iniziativa dei democratici italiani e riportava in primo piano la questione nazionale. A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici, l’avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell’Arsenale militare, costringeva i reparti austriaci a capitolare. Il 23 un governo provvisorio presieduto da Manin proclamava la costituzione della Repubblica veneta. A Milano l’insurrezione inizio il 18 marzo, con un assalto al palazzo del governo, e si protrasse per cinque giorni, le celebri cinque giornate milanesi. Borghesi e popolani combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco, forte di quindicimila uomini comandati dal maresciallo Radetzky. Ma furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso degli scontri, che costarono agli insorti circa 400 morti. La direzione delle operazioni fu assunta da un consiglio di guerra composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Il 23 marzo, all’indomani della cacciata degli austriaci da Venezia e Milano, il Piemonte dichiarava guerra all’Austria. Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto a questa decisione: la pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi dell’Impero asburgico l’occasione per liberare l’Italia dagli austriaci; la tradizione aspirazionale della monarchia sabauda ad allargare verso est i confini del Regno; infine il timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro di agitazione repubblicana. Anche in questo caso la decisione condiziono Ferdinando II di Napoli, Leopoldo II di Toscana e Pio IX che decisero di unirsi alla guerra antiaustriaca. La guerra piemontese sembrava cosi trasformarsi in una guerra di indipendenza nazionale e federale, benedetta dal papa e combattuta col concorso di tutte le forze patriottiche. Ma l’illusione duro poco. Carlo Alberto dimostro scarsa risolutezza nel condurre le operazioni militari e si preoccupo soprattutto di preparare l’annessione del Lombardo-

Veneto al Piemonte, suscitando l’irritazione dei democratici e la diffidenza di altri sovrani. Il 29 aprile il Papa annuncio il ritiro delle sue truppe; lo imitavano, pochi giorni dopo, il granduca di Toscana e Ferdinando di Borbone. Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi, mentre fra maggio e giugno venivano indetti nei territori liberati frettolosi plebisciti per sancire l’annessione al regno sabaudo, l’iniziativa torno nelle mani dell’esercito asburgico. Il 23-25 luglio, nella prima grande battaglia campale, che si combatte a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il Ticino. Il 9 agosto fu firmato l’armistizio con gli austriaci. A combattere contro l’Impero asburgico restavano i democratici italiani (oltre a quelli ungheresi). In Sicilia resistevano i separatisti, che si erano dati un proprio governo e una propria costituzione democratica. A Venezia, rimasta in mano degli insorti anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin aveva nuovamente proclamato la repubblica. In Toscana si formava un triumvirato democratico composto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni. A Roma, dopo la fuga del papa (novembre ’48) l’Assemblea proclamo la decadenza del potere temporale dei papi e annuncio che lo Stato avrebbe assunto il nome glorioso di Repubblica romana. Intanto i democratici ripresero l’iniziativa in Piemonte. Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto riprendeva la guerra contro l’Austria. Le truppe di Radetzky affrontarono l’esercito sabaudo il 22-23 marzo nei pressi di Novara e gli inflissero una gravissima sconfitta. La sera stessa Carlo Alberto per non mettere in pericolo le sorti della dinastia abdico in favore del figlio Vittorio Emanuele II. I governi rivoluzionari venivano sconfitti in tutta Italia: terminava la rivoluzione autonomistica siciliana, gli austriaci ponevano fine alla Repubblica toscana e occupavano le Legazioni pontificie, i francesi intervenivano militarmente contro la Repubblica romana. Gli ultimi focolai rivoluzionari a soccombere furono quello ungherese e veneto, in entrambi i casi per l’intervento asburgico. La causa fondamentale del generale fallimento delle rivoluzioni del ’48 va individuata nelle fratture all’interno delle forze che di quelle rivoluzioni erano state protagoniste: nei contrasti, cioè, fra correnti democratico-radicali e gruppi liberal-moderati. Aveva pesato inoltre, nel determinare la sconfitta delle esperienze rivoluzionarie italiane, l'estraneità delle masse contadine, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione.

4. L’UNITA' D’ITALIA In Italia, la “seconda restaurazione” – cioè il ritorno dei sovrani legittimi dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48-49 – bloccò ogni esperimento riformatore e frenò pesantemente lo sviluppo economico dei vari Stati, mentre veniva sancita l’egemonia austriaca nella penisola. Aumentava

anche il fossato che separava i sovrani dall’opinione pubblica borghese, fenomeno evidente soprattutto nei due Stati che più perseguirono una politica repressiva e autoritaria: lo Stato pontifico e il Regno delle due Sicilie. Ben diversa da quella degli altri Stati italiani fu la vicenda politica del Piemonte sabaudo. Il regno di Vittorio Emanuele II comincio con un duro scontro con la Camera elettiva per questioni riguardanti la pace di Milano. La corona e il governo, presieduto dal moderato Massimo D’Azeglio, decisero di sciogliere la Camera e di indire nuove consultazioni, mentre il re indirizzava agli elettori un messaggio (proclama di Moncalieri: rappresentanti più moderati). Una volta approvata la pace dalla nuova Camera, il governo D’Azeglio poté portare avanti l’opera di modernizzazione dello Stato già avviata negli ultimi anni del regno di Carlo Alberto. Una tappa fondamentale in questo senso fu rappresentata dall’approvazione di un progetto Siccardi che riordinava i rapporti fra Stato e Chiesa, ponendo fine agli anacronistici privilegi di cui il clero godeva ancora nel regno Sabaudo. La battaglia per l’approvazione delle leggi Siccardi vide emergere nelle file della maggioranza liberal-moderata la figura di un nuovo e dinamico leader: il conte Camillo Benso di Cavour, aristocratico e uomo d’affari, proprietario terriero e giornalista, direttore di un battagliero organo di stampa dal titolo “Il Risorgimento”. Si affermava cosi un politico dai vasti orizzonti culturali e dall’ampia conoscenza dei problemi economici, animato dalla fede nelle virtù della libera concorrenza e da un liberalismo pragmatico e moderno. Cavour entro a far parte del gabinetto D’Azeglio nell’ottobre 1850, come titolare del ministero dell’Agricoltura e Commercio. Due anni dopo, nel novembre 1852, quando D’Azeglio dovette dimettersi per contrasti con il re, fu incaricato di formare il nuovo governo. Prima ancora di diventare presidente del Consiglio, Cavour si era reso protagonista di una piccola rivoluzione parlamentare promuovendo un connubio tra centro-destro (di cui egli stesso era il leader) e centro-sinistro (comandato da Urbano Rattazzi) e creando cosi una nuova formazione politica di centro che gli permetteva di allargare la base parlamentare del suo governo e spostarne l’asse verso sinistra: il che gli consenti non solo di far propria la politica patriottica e antiaustriaca sostenuta fin allora dai democratici, ma anche di rendere più incisiva la sua azione riformatrice in campo politico ed economico. Prima come ministro dell’Agricoltura, poi come presidente del Consiglio, Cavour si adopero per sviluppare l’economia del suo paese e per integrarla nel più ampio contesto europeo. Premessa essenziale della sua politica fu l’adozione di una linea decisamente liberoscambista (trattati commerciali con Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna; fra il ’51 e il ’54 fu gradualmente abolito il dazio sul grano. Notevoli progressi si registrarono anche nel campo delle opere pubbliche (costruiti strade e canali; modernizzazione porto di Genova; sviluppate le ferrovie). In questo quadro generale di sviluppo non mancavano i ritardi e gli squilibri. Le condizioni delle classi subalterne non conobbero miglioramenti, anche a

causa del peso crescente delle imposte indirette; il tasso di analfabetismo si mantenne elevato. Eppure alla vigilia dell’unita italiana il Piemonte poteva vantare un bilancio quanto mai lusinghiero: agricoltura in fase di espansione e modernizzazione e industria in sviluppo ponevano il Piemonte tra i primi posti nella classifica degli Stati italiani. Le sconfitte del ’48-49 non avevano mutato nella sostanza la strategia di Mazzini e dei mazziniani, più che mai convinti che l’unita italiana sarebbe scaturita da un moto insurrezionale e avrebbe potuto attuarsi solo nel quadro di una generale ripresa del processo rivoluzionario. Mazzini da un lato si preoccupo di intensificare i contatti con i maggiori esponenti di tutto il movimento democratico europeo, dall’altro si adoperò instancabilmente per ritessere dall’esilio di Londra le fila dell'attività cospirativa in Italia. Sul piano pratico, pero, i risultati furono fallimentari in rapporto agli altissimi costi umani sostenuti. Negli anni 1851-52 la polizia austriaca inferse duri colpi all’organizzazione mazziniana; ma nonostante i gravi vuoti aperti nelle file del movimento rivoluzionario, Mazzini ritenne di poter tentare ugualmente la carta dell’insurrezione. Il 6 febbraio 1853, a Milano, poche centinaia di operai e di artigiani assalirono con armi improvvisate i posti di guardia austriaci. Ma il moto fu facilmente represso e ne seguirono nuovi arresti e nuove condanne a morte. Mazzini pero non si arrese e fondo ...


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