Riassunto libro Antropologia come educazione PDF

Title Riassunto libro Antropologia come educazione
Course Istituzioni di antropologia culturale
Institution Università degli Studi di Bergamo
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Riassunto completo del libro di Antropologia culturale (25284): Antropologia come educazione di Tom Ingold. Corso frequentato preso l’università degli studi di Bergamo...


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Riassunto libro “Antropologia come educazione” di Tim Ingold 1. CONTRO LA TRASMISSIONE Quando comunemente pensiamo all’educazione la prima cosa che ci viene in mente è la scuola, come luogo primario della formazione educativa, mentre le istituzioni prescolastiche sono interpretate come preparazione e quelle post scolastiche come coronamento. In una società democratica è compito: -

dello stato garantire i servizi educativi adeguati; del ministero dell’istruzione di supervisionare le scuole;

è così che la pratica educativa e l’istituzione scolastica risultano inscindibili. Tuttavia ci sono alcune società senza scuole, i cui soggetti sanno molte cose che noi non conosciamo. È compito degli antropologi documentare questi saperi, mostrare la loro complessità, così da denunciare la divisione dei popoli del mondo in colti e selvaggi. Quest’ultima sarebbe infatti frutto di un pregiudizio etnocentrico. Il sapere cambia da cultura in cultura, lo stesso fanno le istituzioni. L’educazione interessa ogni uomo e se concepita come pedagogia (= educazione intenzionale) può essere considerata un tratto unicamente umano. Ciò che interessa Ingold è l’educazione in senso più ampio, come trasmissione di informazioni. Egli critica questa concezione sostenuta da: -

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coloro che pensano che l’educazione avvenga solo a scuola e che considerano quest’ultima come uno spazio separato in cui viene trasmesso il sapere , isolato rispetto al mondo esterno in cui applichiamo concretamente il sapere appreso; coloro secondo cui l’educazione è una pratica pedagogica universale degli esseri umani;

un analoga funzione a quella della scuola (trasmettere la cultura alle generazioni successive) ce l’hanno pratiche istituzionali alternative, come narrazioni di storie, riti di iniziazione. L’obiettivo di Ingold è mettere in discussione l’idea di educazione come trasmissione perché essa deforma lo scopo e il significato dell’educazione stessa. Per fare ciò, Ingold parte dagli scritti, “tra cui il libro “ Democrazia ed educazione”di John Dewey, pragmatista e filosofo, considerato il principale teorico dell’educazione di inizio Novecento PENSIERO DI DEWEY: Dewey, per capire che cosa sia l’educazione, ritiene che dobbiamo occuparci della natura della vita, ovvero cosa distingue un essere animato da uno inanimato. Gli esseri viventi, al contrario di una pietra, crescono, si trasformano, si rinnovano, hanno il compito di generare delle vite e di mantenerle fino a quando quest’ultime non saranno in grado a loro volta di generare altre vite. Perciò la continuità del processo vitale ha un carattere sociale, ed è garantita dall’educazione. La scuola diventa così uno dei numerosi strumenti volti ad assicurare la continuità sociale. Questa però ha come limite l’isolare il sapere informativo dall’esperienza. Di conseguenza per Dewey l’educazione si avrà più al di fuori della scuola. Ciò che è davvero essenziale per Dewey nell’educazione è: la trasmissione e la comunicazione. Questi due elementi sono i pilastri della vita sociale, perché la società sta dentro la trasmissione e dentro la comunicazione. Dewey concepisce questi due termini in modo diverso rispetto al senso comune ( perché noi abbiamo risentito delle rivoluzioni informatiche e tecnologiche della comunicazione, dalla metà del XX secolo). Per lui la comunicazione non è un semplice scambio di informazioni, ma un mettere in 1

comune (to common). In ambito educativo significa che persone di generazioni diverse danno il loro contributo e che l’informazione non passa da una testa all’altra senza distorsioni, ma ognuno la legge in base alla propria esperienza, alla propria cultura. È per questo che per condividere e allo stesso tempo educare, devo fare uno sforzo immaginativo per dare alla mia esperienza una forma che sia vicina a quella degli altri soggetti coinvolti nell’educazione. Lo scopo è quello di produrre insieme significato, arrivando a raggiungere, scoprire qualcosa di nuovo. Da qui deriva il carattere trasformativo dell’educazione. La comunicazione diventa il mezzo per raggiungere la trasmissione. Quest’ultima è resa possibile dalla sovrapposizione delle vite degli individui, infatti la trasmissione si compie partecipando alle vite degli altri. Questo processo avviene se la partecipazione si compie da entrambe le parti. Altrimenti si parla di puro addestramento (tranining), il quale non ha uno scopo educativo. Un terzo elemento che ricopre un ruolo chiave nell’educazione è, per Dewey, l’ambiente, concepito come variazione. L’ambiente non riguarda solo ciò che circonda l’uomo, ma anche tutte le cose che lo interessano e che lo mutano. L’educazione diventa un interrogare, un essere interrogati, un rispondere, un ricevere risposta, una corrispondenza. Qui si deduce che mettere in comune e variazione sono interdipendenti, perchè: -

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il vivere comunitario porta a una creazione continua, la quale implica la variazione, il cambiamento. Per questo l’immaturità è una potenzialità di crescita e l’obiettivo dell’educazione diventa un modo per avvicinare giovani e adulti per far sì che la vita sociale vada avanti. Non vi è un punto di arrivo, ma una continua crescita che produce altra crescita. La variazione è possibile solo se c’è la compartecipazione in un ambiente sociale condiviso.

Ne deriva che l’educazione promuove la differenza, come principale fonte della personalità, al contrario dell’addestramento che la sopprime. La comunità è quindi un donare insieme , dove ognuno ha qualcosa da dare perché non vi è niente in comune. L’avere qualcosa in comune è un’aspirazione che esige un comune sforzo di apertura verso gli altri. Educazione non può esserci attraverso la comunicazione diretta, ma solo indirettamente tramite l’ambiente. Tuttavia il concetto di trasmissione che abbiamo noi oggi si riferisce alla comunicazione diretta. IL MODELLO GENEALOGICO Prendiamo in considerazione la relazione genitore-bambino, detta filiazione in antropologia. Negli schemi di parentela gli antropologi la rappresentano con una linea verticale che collega due icone, le quali indicano le persone coinvolte. Questa rappresentazione contiene dei significati nascosti: -

Le vite di genitore e figlio sono tenute ben separate e non sono destinate a incontrarsi mai; La linea rappresenta un insieme di capacità, caratteristiche, istruzioni per vivere la vita; Siccome la linea non si allunga ne si restringe, gli attributi che i soggetti possiedono sono stati assegnati prima. Questi vengono trasmessi, ereditati.

Questo schema segue la logica del modello genealogico, il cui presupposto è che la struttura degli individui viene determinata in maniera indipendente rispetto alla loro vita effettiva nel mondo. Il modello genealogico non va confuso con le storie che le persone narrano sui propri antenati (narrazioni di genealogie), perché queste sono storie di vita. Il modello genealogico è una creazione dell’analisi antropologica formale spesso attribuita a W.H.R. Rivers. Oggi nell’antropologia più recente il modello è stato sottoposto a ripetuta critica. Differentemente, in biologia e psicologia il modello genealogico è ancora vivo e vegeto. Alcuni studiosi hanno proposto teorie secondo cui l’informazione genetica e quella culturale procederebbero parallelamente. 2

Quindi ogni individuo erediterebbe due set di caratteristiche , uno attraverso la replicazione genetica, l’altro attraverso la replicazione di analoghe unità di cultura. Questo modello è stato successivamente smentito. Dewey afferma che non è possibile che le credenze e i comportamenti che un gruppo sociale coltiva nei suoi membri immaturi vengano inculcate con la forza e possono diffondersi per instillazione, poiché sono idee, la cui formazione stessa dipende dall’esperienza. Così l’imitazione viene vista come corrispondenza e non come quell’elemento in base al quale un comportamento osservato si imprimerebbe nella mente dell’osservatore come uno schema nascosto da poter replicare. Ne consegue che essa non può essere concepita come una modalità di trasmissione, non per come quest’ultima viene intesa dal modello genealogico. La critica di Dewey ha scarso impatto sulla psicologia convenzionale. A tal proposito alcuni professionisti hanno tentato di individuare meccanismi cognitivi incorporati che permettessero l’estrazione dell’informazione dalla mente di un portatore e l’innesto in quella di un ricevente. Successivamente alcuni psicologi e antropologi chiameranno meme gli elementi mentali che possono essere trasmessi da un portatore a un ricevente per imitazione. La stessa idea viene condivisa da Sperber, il quale sostiene che i meme (chiamati da lui rappresentazioni), sono direttamente contagiosi. Per cui l’aria è piena di informazioni che noi afferriamo quotidianamente, perché predisposti a riceverle per ragioni ereditarie. Dewey prende in esame l’esempio di Sperber secondo cui un tempo ci sarebbero stati dei suoni che codificavano le istruzioni per preparare la salsa Mornay. Quindi i significati dovevano essere attribuiti in anticipo, in modo indipendente dal contesto. Per Dewey invece era necessario un contesto per codificare i suoni per ricevere le istruzioni per preparare la salsa. Per cui il significato delle istruzioni della ricetta dipende dal familiare ambiente domestico. Per Dewey né i suoni verbali né i segni grafici della scrittura hanno già significati incorporati, ma li assumono a partire dalla partecipazione a un’esperienza condivisa di un’attività congiunta. L’accordo sul significato delle parole deriva dal mettere in comune, che non è mai definitivo. Ciò che condividiamo con gli altri è il muoverci attraverso un campo di compiti collegati, che Ingold chiama taskscape. È così che io seguo un percorso che fa crescere in me la conoscenza. Gli antropologi hanno messo in evidenza la funzione educativa della narrazione,ma il loro limite è aver concepito le narrazioni come mezzi per trasmettere informazioni,il cui significato è insito in esse. Al contrario i significati delle storie devono essere trovati dagli ascoltatori, confrontandoli con la propria esperienza. mentre nel modello genealogico non c’è corrispondenza, mutazione, mettere in comune, nelle narrazioni di genealogie sì. Dewey si pone il quesito: come è possibile che, nonostante la critica diffusa alle idee di insegnamento inteso come travaso e di apprendimento come assorbimento passivo, queste continuino a rimanere presenti nella pratica in modo così radicale? La storia dell’antropologia ci permette di rispondere. L’antropologia ha avuto un lungo problema con la definizione del concetto di cultura. Tylor dice che la Cultura è un grande processo di civilizzazione con cui l’umanità si era evoluta e innalzata al di sopra di popoli che erano rimasti un passo indietro. Riferendosi ad essa Tylor parla di un insieme complesso. Al contrario per Lowie la cultura è un miscuglio caotico di modi di vivere e pensare che noi assorbiamo senza sforzo. La differenza tra i due sta nell’acquisizione della cultura. Per il primo l’individuo acquisisce la cultura attivamente , attraverso l’indagine intellettuale, per il secondo, l’uomo acquisisce la cultura passivamente come un’eredità di per sé completa. Questo ci ha permesso di creare quel binomio: popoli primitivi e popoli civilizzati. Uno stesso ragionamento lo possiamo fare mettendo in relazione la scienza e i saperi tradizionali. La scienza, concepita come acquisizione del sapere attraverso l’indagine empirica e quella razionale, ha contribuito alla nascita del suo opposto, ovvero l’eredità della tradizione. Ne consegue che i modi di pensare aperti e dinamici vengono ripensati dalla scienza sottoforma di formule fisse, che vengono tramandate acriticamente. La cultura si adatta a 3

un nuovo contesto, ma il come e il perché di questo adattamento non è noto a coloro che devono spendere la cultura nella pratica, ma solo agli studiosi che l’hanno formulato. Quindi nel passaggio dalla tradizione alla ragione la scienza deve rieducare,all’interno della cultura, tutti coloro che vivono la cultura, ne sono immersi. Un simile paradosso lo troviamo anche nei discorsi contemporanei sull’educazione. I bambini ingenui sono sperati dagli adulti intelligenti e per passare da una condizione all’altra gli adulti devono restituire ai bambini, in modo razionalizzato, il mondo che quest’ultimi conoscono dall’esperienza. non c’è in questo modo una relazione con l’ambiente. La logica della ragione e dell’ereditarietà riproduce continuamente questa disparità di intelligenza. La cultura umana, nell’immaginario pedagogico è vista come un’immensa piramide, al cui vertice c’è la ragione e alla base i meme. Gli individui sono i vettori, chiunque viene infettato con lo stesso meme dirà la stessa cosa. Il mondo secondo la pedagogia è un teatro di marionette, dove la ragione è il burattinaio che muove i fili dei personaggi, fatti degli elementi della tradizione tramandata. Per esempio il teorema di Pitagora viene visto come una formula da tramandare e non come un ragionamento che deve essere capito. Dewey vede nella scuola l’inclinazione a ridurre la conoscenza a informazione, a separare ciò che viene insegnato e appreso dalla vita quotidiana. È così che si arriva a una divisione tra eccellenza tecnica e sapere comune. Ciò che diceva Dewey, un secolo dopo, si è avverato. Quale possibile soluzione possiamo trovare? In un mondo complesso come il nostro un qualche tipo di istituzione scolastica risulta indispensabile. Inoltre per evitare disparità e svantaggi è fondamentale che l’istruzione formale sia disponibile a tutti. La questione diventa come bilanciare in maniera equilibrata le modalità di educazione formali e informali. Una conseguenza di questo squilibrio è la tendenza a pensare all’educazione solo nel linguaggio della pedagogia e a cercare le sue preoccupazioni nella capacità di creare cultura, considerata propria dell’essere umano. In conclusione… Ingold in questo capitolo ha messo in discussione la contrapposizione tra ragione ed ereditarietà che sottende il modello dominante di pedagogia. Questo modello traccia un solco tra modi di conoscere e il contenuto delle conoscenze trasmesse. L’efficienza del metodo di trasmissione usato dalla pedagogia viene stabilita in base alla trascrizione da una testa all’altra di un contenuto preesistente. La tesi di Ingold si trova nella pratica partecipativa, anziché nella pedagogia. Ogni modo di conoscere è una linea di vita distinta. Ne consegue che diventare sapienti è parte integrante del diventare le persone che siamo. L’educazione democratica è produzione di differenza. Non è un processo attraverso cui si diventa umani, ma è essere umani in divenire. 2. A FAVORE DELL’ATTENZIONE Ingold vuole riflettere sulla differenza tra il dare senso/direzione alla vita e il semplice vivere. Per capire cosa significhi dotare di senso la propria vita, Ingold ritiene che sia fondamentale fare riferimento all’educazione. Educare, deriva dal latino ducere, cioè condurre, accompagnare, guidare. Ciò che davvero fa la differenza tra le due pratiche è l’attenzione. Anche questo termine deriva dal latino ad tendere, nel senso di tendere verso, è la tensione della vita che cerco. Ingold declina i diversi significati, collegati tra loro, di attendere: -

Ascoltare attivamente; Prendersi cura delle persone/delle cose, in maniera pratica e al contempo coscienziosa; Aspettare; 4

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Essere presente, comparire in qualcosa che si fa; Procedere insieme con gli altri, nel senso di unirsi a loro/accompagnarli; Aspirare, longing ( significato temporale), indica il distendersi della vita lungo una linea, una direzione. Questo è possibile grazie a una memoria del futuro che permette a ogni momento presente di essere un nuovo inizio.

Ingold richiama di nuovo Dewey che riflette sulla continuità della vita, nel libro “ Arte come esperienza”. Qui discute sul significato dei termini: -

Fare (doing); Subire (undergoing);

In ogni esperienza, per Dewey, si trovano entrambi. La questione è capire la relazione che c’è tra i due termini e cosa fa la coscienza per cogliere quella relazione. Partiamo dall’assunto che per Dewey la vita è continua, non episodica, perciò ogni azione che intraprendiamo, porta con sé e trae il suo significato da quello che abbiamo subito durante il nostro agire precedente e viceversa. Il processo vitale si caratterizzare per il suo continuo rinnovarsi. Qui Dewey introduce un terzo termine, l’abitudine (habit), il quale è fortemente ambiguo perché il senso comune fa riferimento all’abitudine: sia come tutto quello che porta gli uomini ad agire in un determinato modo, sia alle conseguenze prodotte negli uomini in seguito alla continua ripetizione di quelle stesse azioni. Dewey pone l’abitudine in mezzo a questi due possibili significati e la sposta dall’idea d causa e conseguenza a quella di processo. L’abitudine è dunque un principio di produzione, attraverso cui un individuo immerso nelle proprie pratiche è ripetutamente generato da esse. Da ciò risulta che ogni esperienza fatta e subita modifica chi agisce e chi subisce e al tempo stesso, influisce inevitabilmente sulle esperienza successive. Cosa accadrebbe se ogni azione subita dipendesse da un’azione compiuta e non viceversa? Si produrrebbe il principio di volizione, per cui qualsiasi azione sarebbe la conseguenza di un’intenzione che la precede. Tra l’inizio e la fine dell’azione ci sono cose che chi agisce deve subire, ma anche i soggetti sotto il suo controllo dovranno sopportarne gli effetti e subire un cambiamento. Con il principio di volizione, fare e subire vengono separati come azione attiva e passiva, agentività (agency) e passività (patiency). Al contrario con il principio d’abitudine, tale opposizione scompare, si subisce quello che si fa e si fa quello che si subisce. Il subire attivo, assimila, immette i fini del fare e li emette, li estrude come inizio. La dimensione passiva dell’esperienza è un abbandonarsi , ma anche un fuoriuscire di energia, con il fine di riceverla. L’atto di raccogliere e ricevere energia è detto “corrispondenza”. Questo comporta una trasformazione dall’interno, perché l’agire è dentro il subire. Ne consegue che ciò che caratterizza l’esperienza è il fatto di viverla, abitarla. L’abitare, nella tesi di Ingold, è un processo di attenzione. ESEMPIO DELLA CAMMINATA Immaginiamo di fare una camminata, all’inizio partiamo stabilendo una meta, un percorso, abbiamo come obiettivo fare esercizio fisico e mentale. Queste intenzioni fanno parte del principio di volizione. Ma mentre camminiamo il principio di volizione lascia il posto a quello d’abitudine,perché io sono immerso nella camminata, la vivo, senza aver stabilito niente in precedenza. Io divento la camminata, il camminare mi conduce e ogni passo mi modifica, mi trasforma continuamente. Camminare non diventa più qualcosa che faccio in automatico, ma diventa un’abitudine di pensiero. Questo pensare si mischia con il corpo e permette di comprendere il mondo. A tal proposito noi dobbiamo aprirci al mondo, diventare ricettivi e camminare nell’incertezza. Questo significa abitare la pratica del camminare. L’io dell’abitudine è 5

immerso nell’azione, le finalità emergono durante l’azione e costituiscono un nuovo inizio. L’io è continuamente messo in questione. Al contrario del principio di volizione che pretende di avere tutto sotto controllo, per quello d’abitudine non si è mai completamente padroni dei propri atti. Infatti se l’agentività fosse in continua formazione e trasformazione a partire dall’azione stessa diventerebbe “agendo”. Infatti il principio d’abitudine sostituisce l’agentività con l’agencement. La differenza tra i due è che l’agentività è una proprietà che ci appartiene, in qualità di individui dotati di intenzioni e ci permette di agire. L’agencement è il compito che siamo tenuti ad assumerci in quanto individui ricettivi e responsabili. Quindi il risultato del processo educativo è la capacità di un ulteriore educazione. Altri due aspetti fondamentali dell’attenzionalità, che Ingold usa per la sua concezione di educazione, sono: 1. Cura (care). Conferisce una dimensione etica all’attenzione che in quanto esseri corecettivi ci compete naturalmente. È...


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