Riassunto - Libro \'\'Antropologia dell’esperienza\'\' – Victor Turner PDF

Title Riassunto - Libro \'\'Antropologia dell’esperienza\'\' – Victor Turner
Course Antropologia Culturale
Institution Università degli Studi di Salerno
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Riassunto - libro - Antropologia dell’esperienza – Victor Turner...


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Antropologia dell’esperienza – Victor Turner Esperienza e performance. Una nuova antropologia processuale L’esperienza viene vista come un autentico passaggio psicologico da un certo modo di vedere e comprendere a un altro, un passaggio precluso a chi rimane saldamente aggrappato ai valori, ai significati, agli scopi e alle credenze con cui crescendo ha imparato a considerare la realtà. Un bravo ricercatore sul campo è colui che è pronto a fare un buon viaggio, vale a dire a sospendere il più possibile i propri condizionamenti sociali per avere una conoscenza di quello che sta accadendo a quanto lo circonda, apprendendo non soltanto il linguaggio, ma anche i codici di comunicazione non verbali, e può essere profondamente trasformato dall’esperienza di campo. Non tutta l’esperienza è trasformativa, perché avvenga la trasformazione, l’esperienza deve essere associata alla performance, e il significato è generato nel processo trasformativo e ne è il frutto principale. Ogni società ha i suoi insiemi di idee, principi, procedure e norme ma la vita, la forza vitale che noi sperimentiamo distrugge e crea di continuo tutti i tipi di sistemi, rendendo persino quelli più duraturi, provvisori e indefiniti. C’è una forte paura del cambiamento, per gli strutturalisti viene visto come l’alterazione di un dato insieme di oggetti all’interno di un gruppo, una questione non di mutazione ma di permutazione; la vita ha un carattere fondamentalmente transizionale, tende ad alterare, a modificare e trasformare e solo in apparenza essa è ripetitiva perché gli organismi hanno breve durata, e il genere umano nega la propria brevità idolatrando leggi universali ed eterne. Turner è favorevole a fondare la vita e l’esperienza di vita su un resoconto ordinato delle vicende umane, che riguardi società specifiche o quello che sappiamo in generale della nostra specie, ognuno di essi è un indizio, il segno di un’interiorità specifica che non possiamo comprendere in nessun altro modo se non attraverso le sue manifestazioni più diffuse e più rare, i suoi strumenti e le sue usanze, le sue immagini, la sua prassi. Siamo una specie i cui membri devono aiutarsi reciprocamente a capire per cosa sta la nostra specie, che cosa significa. Ogni individuo sperimenta la vita in maniera troppo fugace per comunicare ai propri contemporanei e successori i derivati consci di quell’esperienza, tuttavia, impariamo gli uni dagli altri come trovare un senso nelle nostre esistenze individuali e insieme a coloro le cui vite coincidono temporalmente con le nostre. Impariamo che non sono solo la pancia piena, la pelle calda d’inverno a rendere la nostra vita piena, ma anche la rinuncia agli scopi personali, il sacrificio per il bene di altri individui o gruppi, persino quando sappiano che la nostra vita potrebbe estinguersi nell’interesse di una famiglia, una tribù, una nazione, religione o qualche altro ideale di humanitas. Per la nostra specie, il significato è strettamente

intrecciato all’intersoggettività, a come ci conosciamo, ci sentiamo e ci desideriamo reciprocamente; i nostri mezzi di comunicazione sono ricchi delle esperienze dei nostri progenitori e antenati, ma questi non possono mai essere ri-sperimentati, a meno che non vengano occasionalmente messi in scena. Dobbiamo cercare di rivivere al meglio nella performance – che sia un rituale, il teatro o altre forme attive di religione, legge ect – ciò che ci è stato trasmesso e che ora sembra spento, trasformandoli in criteri guida. Le strutture dell’esperienza di Dilthey. Lo strutturalismo francese cerca di scoprire, nel funzionamento dello spirito, leggi universali, che dipendono a loro volta dalla natura del sistema nervoso centrale e un simile intento significa limitare la ricerca antropologica a testi, manufatti, costrutti mentali piuttosto che alla donna e all’uomo vivi, produttori di tali forme; tale visione, non riesce a rendere conto delle complessità dinamiche dell’esperienza culturale messe in luce dagli antropologi nelle loro ricerche di campo, che costituiscono il fulcro della loro attività. Wilhelm Dilthey fu l’ideatore della distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura, per lui, la vita e l’esperienza sono concetti chiave per fornire un fondamento epistemologico e metodologico per una scienza umanistica della sfera socioculturale individuale e intersoggettiva - Turner ricorre al sostegno di quest’ultimo per ricavare argomentazioni convincenti a favore di un’antropologia dell’esperienza in senso diltheyano. Secondo Dilthey, tutte le strutture di pensiero emergono dall’esperienza e traggono il loro significato dal loro rapporto con l’esperienza, non c’è nessuna distinzione nitida tra il livello razionale dell’esperienza e quello irrazionale, c’è solo l’essere umano, come unità mente-corpo che vive in interazione con il suo ambiente fisico e sociale, e da questa interazione emergono ogni esperienza e ogni pensiero. Parte da un concetto ovvio: noi sentiamo e pensiamo in maniera immediata, viviamo (esperienza) i nostri pensieri e le nostre sensazioni, li sperimentiamo in maniera diretta, ma l’esperienza non è, come asseriscono gli strutturalisti, un insieme coerente di principi intellettivi. Dilthey parla nei suoi scritti di strutture dell’esperienza che includono il pensiero, coinvolgono il sentimento e la volizione, come delle strutture di azione. L’esperienza non è unità isolata o istantanea, poiché racchiude al suo interno dei rapporti diretti con il passato, è distinguibile da un’altra esperienza per il fatto che possiede una funzione specifica in rapporto alla vita di un individuo o di un gruppo nel suo insieme – ogni esperienza è una parte di un tutto. In ogni data esperienza si instaura una tensione tra il carattere determinato di ciò che viene considerato il passato, visto come fonte della realtà presente, e l’indeterminatezza del futuro, che mantiene aperte le possibilità, in rapporto alle quali il valore dell’esperienza cambierà e lo rende passibile di reinterpretazione.

Dilthey fa dell’esperienza vissuta la realtà primaria e trova persino la realtà del mondo esterno nelle esperienze vissute, di azione e reazione, che indicano il nostro coinvolgimento dinamico con il non sé, il pensiero interviene, ma solo per chiarire e integrare ciò che è dato nell’esperienza vissuta quindi Il pensiero è l’interprete dell’esperienza vissuta. Dilthey ha anche riconosciuto l’importanza dell’esperienza inconscia, vale a dire nello studio dell’esperienza soggettiva e intersoggettiva come risultato degno di ricordo di un’esperienza chiave vissuta. Quando le unità sociali – gruppi o comunità – apportano modifiche significative alla propria tradizione, generano una nuova tradizione e convalidano un nuovo simbolo modellato da una nuova metafora che amplia i confini del significato; sono all’opera anche princìpi inconsci e preconsci, anche questi ultimi sono passibili di quell’analisi retrospettiva che era per lui il compito più alto della comprensione: rivivere un’esperienza comporta un processo di interpretazione, e interpretare significa collocare un’esperienza nel suo contesto socioculturale e psichico quando se ne cerca retrospettivamente il significato – viviamo la nostra vita e le nostre esperienze guardando avanti, verso il futuro, e i nostri tentativi di comprenderle ci riportano indietro, al passato. Per Turner, la vita sociale appariva come un alternarsi di sequenze di eventi drammatici e non, che corrispondeva a quell’esperienza sociale direttamente accessibile al ricercatore, il quale è egli stesso, un attore nei drammi e partecipa ai passaggi più tranquilli del tempo sociale. Per Dilthey, i drammi sociali sono esperienza, ovvero ogni unità che include parti di vita legate assieme da un significato comune per il corso della vita, persino quando le diverse parti sono separate e interrotte tra di loro da altri eventi. Per comprendere cosa intende con esperienza, possiamo considerare i rapporti fra 3 diversi insiemi di termini: • La prima è data da significato, valore e fine. • La seconda da passato, presente e futuro. • La terza da cognizione, sentimento e volizione. La categoria del significato si manifesta nella memoria, nella cognizione del passato ed è autoriflessiva, orientata all’esperienza passata, la categoria del valore deriva principalmente dal sentimento e la categoria del fine (scopo o bene) deriva dalla volizione, il potere o la facoltà di usare la volontà, che si riferisce al futuro. Le tre categorie sono irriducibili e non subordinate l’una all’altra, però solo la categoria del significato ci consente di concepire un’affinità tra la successione degli avvenimenti della vita e qualunque cosa possano dirci le categorie del valore e del fine raggiunto.

Turner sperimenta un collegamento tra il modello di Dilthey e la struttura processuale del dramma sociale: come le esperienze, anche i drammi sociali sono aperti e rimandano a drammi precedenti, il loro epilogo non è mai del tutto definitivo, nonostante ciò poiché si ripercuotono sull’attenzione pubblica, hanno un inizio riconoscibile; tipicamente, un dramma sociale presenta quattro fasi, ciascuna delle quali possiede uno stile, un ritmo e una durata propri, anche se questi variano da cultura a cultura e all’interno di ogni società tra tipi diversi di gruppi e differenti livelli di organizzazione. Prima fase. La prima fase è la rottura delle consuete relazioni sociali governate dalla norma, dovuta all’infrazione di una legge, una regola, un contratto, un codice di comportamento, cioè di ogni norma d’azione autorizzata dal gruppo o dalla comunità; tale rottura può essere premeditata oppure può essere un atto spontaneo o incontrollabile, che consiste in un una parole casuale o in un atto di calcolata violenza, se le circostanze sociali sono mature per il dramma, ha inizio la fase successiva. Seconda fase. Alla rottura fa seguito la crisi, quando altre persone o sottogruppi si schierano a favore o contro colui che ha infranto la norma, si formano coalizioni o fazioni; i rappresentati della tradizione o dell’ordine cercano di sanare la frattura prima che si allarghi abbastanza da minacciare la sopravvivenza strutturale o culturale del gruppo e i capi delle varie fazioni ricorrono a diversi espedienti e stratagemmi. La crisi rappresenta di solito uno di quei punti di svolta o momenti di pericolo e incertezza in cui si rivela il vero stato delle cose, è una prova della forza della lealtà e del dovere; se la crisi persiste, le persone sono obbligate a prendere partito in merito e spesso devono farlo contro i loro stessi interessi o le loro inclinazioni. Dal momento che la violenza reciproca, verbale e/o fisica, liberata nella crisi tende a essere contagiosa, quelli che si dichiarano a capo del gruppo cercano di applicare dei meccanismi riparatori e adattativi per porre fine alla crisi, disciplinare o punire in altro modo coloro che vengono riconosciuti come violatori della pace, riconciliare le parti in contrasto, assegnare un risarcimento a colore che hanno subito qualche perdita nella crisi e soprattutto ripristinare la fiducia nei significati, nei valori e negli obiettivi che definiscono il gruppo. A volte la leadership perde la propria legittimità e un nuovo gruppo cerca di rimpiazzare quello vecchio, oppure i ribelli concentrano la loro azione su una ristrutturazione dell’ordine politico-giuridico. Terza fase. È disponibile una vasta gamma di procedure di riparazione, dal rituale profano a quello sacro, dalla costrizione sancita socialmente alla maledizione sacerdotale e all’anatema; quel che è importante, nella terza fase, è la sua riflessività , e in essa il gruppo sociale lacerato, si ripiega su se stesso per articolare gli eventi in un modo che produca senso. Nella prospettiva di Dilthey, vediamo nel contesto del dramma sociale, la seconda fase, quella della crisi, un caos di armonie e dissonanze che non

sono legate tra loro da un rapporto musicale e ogni individuo, ogni parte e fazione lottano per massimizzare le proprie gratificazioni, per promuovere i propri interessi e minimizzare o ostacolare quelli degli avversari ed escogita mezzi – tattiche, strategie, piani – per raggiungere i propri obiettivi. Il compito dei giudici è rendere giustizia – cioè significato nel contesto presente – nel caso loro sottoposto selezionando e combinando regole e applicandole secondo una logica culturalmente accettabile, per dar forma a un sistema di significato applicabile alla controversia; nel comunicare decisioni che potenzialmente hanno un impatto su numerosi individui, i giudici formulano un insieme di scopi nuovi per il gruppo in generale. Tutte le società hanno qualche tipo di procedimento giudiziario, ma spesso esso convive con procedure magiche e religiose di risoluzione della crisi: ovunque degli esseri e/o delle forze invisibili e sovrumane siano considerate come la causa prima e ultima di fenomeni e processi percepibili, si può ritenere che tali entità siano coinvolte in modo decisivo nei drammi sociali, sia come causa di avvenimenti avversi, sia come possibili agenti di risoluzione, nel caso ci si rivolga loro secondo adeguati mezzi culturali – che includono la divinazione, il rituale, la preghiera, il sacrificio, sortilegi e altre procedure magiche. Turner, nel suo lavoro di campo tra gli ndembu dello Zambia, evidenzia che quando il conflitto era a un livello più profondo, si tendeva ad adoperare i meccanismi rituali che potevano essere di afflizione per esorcizzare i demoni o placare la collera degli antenati; spesso un conflitto profondo si manifestava in superficie con la morte o una malattia grave, attribuite all’azione segreta e malevola di streghe - la malattia era considerata una punizione per la discordia all’interno della comunità. Malattia, infortuni, sfortuna nella caccia e morte sono tutti sintomi di un disordine morale nascosto, nei confronti del quale quello che noi consideriamo l’ordine naturale reagisce. Una parte dell’intero processo rituale, che comprende la divinazione tramite vari mezzi (trance, strumenti e oggetti simbolici) e la confessione pubblica di rancori segreti dinanzi a santuari improvvisati, comporta un minuzioso esame retrospettivo e riflessivo delle azioni di coloro che sono vicini alla persona malata o deceduta. L’azione riparatrice può avere luogo immediatamente dopo la performance rituale, e assume spesso la forma di gesti conciliatori tra avversari fino ad allora velati, o di tentativi per dissipare i rancori; in società di piccole dimensioni, un alto potenziale di cooperazione e la disponibilità alla condivisione hanno un valore di sopravvivenza. È quando non si può trovare una soluzione per vie legali o razionali che si fa ricorso quasi sempre a procedure e meccanismi riparatori di carattere magico o religioso. Si attribuisce la responsabilità a forze invisibili che devono essere esorcizzate, placate o gli si

devono dedicare dei sacrifici e ciò inevitabilmente porta nel dramma sociale il tentativo di assegnare significato facendo riferimento a miti e testi sacri concretizzati nei processi rituali. Quarta fase: Re-integrazione o riconoscimento di uno scisma irrimediabile . Dopo l’impiego dei meccanismi di riparazione, si ha un ritorno alla crisi (seconda fase) o un’accettazione delle decisioni prese da coloro che sono riconosciuti come rappresentati legittimi del gruppo. Una piena accettazione comporta il ripristino della pace e delle relazioni normali, quindi il gruppo adesso può tornare a occuparsi delle faccende abituali, al dare e avere, al procreare e produrre; se invece un segmento significativo non accetta l’accordo proposto, può scindersi dal gruppo originario e stabilirsi altrove con un altro insieme di norme o una nuova costituzione, può trattarsi di pochi abitanti o dell’esodo di un’intera popolazione in un nuovo territorio. È comunque possibile ritornare del tutto allo stato sociale vigente prima che il dramma sociale si manifestasse, però nuove alleanze si saranno formate, le diverse fazioni possono aver subito cambiamenti di dimensioni e potere, i capi possono aver perso o guadagnato legittimità attraverso le loro azioni, nuove risorse possono essere state sfruttate, con nuovi capi che le controllano. I semi di un nuovo dramma sociale possono essere stati piantati, nel terreno stesso della risoluzione della crisi presente, infatti nulla è permanente nelle vicende umane. Nonostante ciò, si è raggiunta una sorta di acme sociale, conseguita grazie alla risoluzione della crisi che ha richiesto molto tempo, un grande impegno. Nelle società africane, il raggiungimento dell’acme viene talvolta celebrato con un rituale che impone la collaborazione dei principali antagonisti del precedente dramma. Il cerchio dell’esperienza che si chiama dramma sociale è così completato. Il significato della parola esperienza. Molte parole, e non solo parole, ma anche le frasi e altre forme linguistiche, hanno subito con l’usura del tempo strani cambiamenti: così troviamo che il termine inglese to play – giocare o praticare uno sport – deriva dall’anglosassone to strike (colpire) o to clap (battere), quindi non indica più una battaglia mortale o un combattimento; il termine esperienza, come love (amore), ha radice indoeuropea e le sue connotazioni non hanno subito molte modifiche, significa verifica, prova o esperimento. Il Webster attribuisce nella lingua odierna cinque principali significati all’esperienza: • Il primo è l’atto di vivere uno o più eventi: il coinvolgimento personale in un evento o l’osservazione di eventi che capitano. Sono qui coinvolti i due aspetti che caratterizzano tradizionalmente l’antropologia: la partecipazione e l’osservazione. L’esperienza è, quindi, sin dal principio ambigua, essendo al tempo stesso interna al flusso degli eventi intersoggettivi ed esterna al loro flusso. Gli antropologi possono essere fedeli fino in fondo al gruppo che studiano e che sperimentano in maniera molto intensa, ma significa anche che si allontanano

dall’orientamento comparativo che hanno adottato in quanto scienziati sociali; possono essere fedeli al modello del confronto oggettivo, ma spesso significa negare ciò che hanno appreso per anni in un’altra cultura e l’unicità che la caratterizza. • Il secondo significato di esperienza è qualunque cosa sia osservata o vissuta: significato attribuito da Dilthey. • Il terzo significato ha due parti: una riguarda tutto ciò che è successo finora a qualcuno nella sua vita e l’altra ogni cosa fatta o subita da un gruppo, dalle persone in generale ecc. L’esperienza coinvolge la biografia, la storia di vita, la storia di un caso e la storia locale, tribale, nazionale e universale. Il lavoro di campo dell’antropologo deve essere sensibile a queste modalità di riflessione sull’esperienza individuale e comune ed egli deve anche essere consapevole delle strutture narrative di questi generi se desidera comunicare le modalità di altre tradizioni agli studiosi e agli scienziati occidentali. • La quarta definizione del Webster solleva ancor di più il problema di come raccogliere una storia di vita e come valutare l’autobiografia: l’effetto su una persona di qualunque cosa o tutto ciò che gli è successo; la reazione individuale a eventi, sentimenti ecc. Vincent Crapanzano, nel suo libro Tuhami osserva che al pari dell’autobiografia e della biografia, la storia di vita e la storia di caso sono generi letterari e non solo riflettono gli interessi superficiali di una data epoca storica o di una data tradizione culturale, ma rispecchiano anche i modi più basilari di pensare e valutare l’individuo, il tempo, la natura, il soprannaturale e i rapporti interpersonali. La storia di caso, come la biografia: presenta una visione del soggetto dal punto di vista esterno di un narratore, che può anche permettersi un’analisi e una valutazione obiettiva del suo soggetto. Invece nella storia di vita, come nell’autobiografia: il soggetto è presentato dalla sua stessa prospettiva, e a differenza dell’autobiografia, rappresenta una risposta diretta a una domanda posta da un altro e quindi la storia di vita è per così dire scritta due volte cioè prima durante l’incontro vero e proprio, e poi durante il re-incontro letterario. • La quinta definizione di esperienza data dal Webster ha un’attinenza diretta con l’esperienza personale dell’antropologo: attività che include una for...


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