Riassunto Storia dell\'antropologia Ugo Fabietti PDF

Title Riassunto Storia dell\'antropologia Ugo Fabietti
Course Antropologia
Institution Università degli Studi di Milano
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Storia dell’antropologia

GENESI E STRUTTURA DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE: NATURA E ORIGINI DELL’ANTROPOLOGIA: 1.

ANTROPOLOGIA SIGNIFICA… Antropologia, letteralmente, significa “studio del genere umano”, definizione vaga perché sono molti i saperi che si occupano dello studio dell’uomo. Antropologia culturale è lo studio del genere umano dal punto di vista delle idee, dei comportamenti espressi dagli esseri umani in tempi e luoghi distanti tra loro. L’antropologia è l’insieme delle riflessioni condotte attorno a questi comportamenti ed idee, prendendo spunto dal fatto che gli essere umani si rivelano estremamente differenti, sia sul piano storico, che in relazione all’ambiente in cui vivono. Comparsa dell’antropologia. Le origini dell’antropologia come disciplina non sono facilmente databili, ma quelle più lontane risalgono ad Erodoto (VI sec. A.C.), nonostante egli non parli mai di antropologia. Le radici più vicine a noi risalgono all’umanesimo, ai dibattiti aperti dopo la scoperta del nuovo mondo, sorti da quesiti prima poco considerati o inimmaginabili. Con l’espansione coloniale crebbero a dismisura i contatti con i popoli indigeni ed anche le descrizioni dei loro costumi e delle loro istituzioni sociali. Ma per avere un progetto scientifico all’interno di queste descrizioni bisogna attendere i filosofi e gli scienziati naturali, che cominciarono ad elaborare una teoria unitaria del genere umano. Nell’epoca coloniale, gli antropologi si sono distinti dai conquistatori per la volontà di stabilire rapporti di reciproca comprensione con le popolazioni studiate. Cosa fanno gli antropologi? All’inizio gli antropologi si sono occupati di popolazioni contemporanee, ma geograficamente lontane, diversi da quelle europee o di origine europea, studiandone religione, riti, istituzioni sociali e politiche, tecniche di costruzione dei manufatti, arte. Fino a pochi decenni fa, gli antropologi si sono occupati di popoli definiti “selvaggi” o “primitivi”, perché considerati rappresentanti di fasi arcaiche della storia del genere umano. Nella seconda metà dell’Ottocento, gli antropologi non studiavano i popoli direttamente, bensì a distanza, avvalendosi delle

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Storia dell’antropologia

descrizioni fornite loro da viaggiatori, esploratori, funzionari coloniali. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del XX secolo, gli antropologi cominciarono a recarsi di persona nei luoghi delle popolazioni oggetto dei loro studi, dando inizio ad una nuova stagione della ricerca antropologica, una vera rivoluzione perché da qui non si è più tornati indietro. 2.

UNA SOLA ANTROPOLOGIA O TANTE ANTROPOLOGIE? L’antropologia non è frutto esclusivo della cultura occidentale, ma spesso è proprio presso popolazioni semplici e sprovviste di istituzioni che possiamo trovare le più affascinanti visioni dell’uomo e del cosmo. Alcuni antropologi, pertanto, escludono l’idea che il discorso sul genere umano sia prodotto soltanto di una determinata cultura ed epoca. L’antropologia sviluppatasi nella tradizione di pensiero occidentale sarebbe, di conseguenza, solo una delle tante antropologie elaborate in tempi e luoghi diversi. L’antropologia sarebbe solo un modo, tra molti, in cui gli esseri umani pensano a se stessi. L’antropologia culturale è un sapere che opera criticamente su se stesso, sulle sue nozioni, categorie, metodi e su risvolti eticopolitici che accompagnano le sue riflessioni.

OGGETTO E METODO DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE: 2.1

COS’E’ LA CULTURA? La “cultura” è un complesso di idee, simboli, azioni e disposizioni storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e largamente condivisi da un certo numero di individui, mediante i quali questi ultimi si accostano al mondo in senso pratico e intellettuale. Oggetto privilegiato dell’antropologia sono le differenze tra idee e comportamenti che intercorrono tra le varie comunità umane.

2.2

LA NATURA DELLA CULTURA: Il genoma umano non possiede le informazioni indispensabili per poter far fronte al mondo circostante, un uomo nasce incompleto. Il nostro modo di disporci al mondo ci è stato insegnato dal gruppo in cui siamo venuti al mondo, che è a sua volta frutto di una lunga storia di rapporto con l’ambiente. Nei pensieri e negli atti, gli esseri umani sono determinati perché per vivere in mezzo ai loro simili, devono adottare codici di comportamento pratico e mentale che siano riconoscibili e condivisi da altri. Gli antropologi hanno messo in evidenza alcune caratteristiche della cultura che riguardano il modo in una essa è organizzata al proprio interno, la sua natura strumentale e le sue capacità di adattamento e di trasformazione.

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NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA Nel 1799 -grazie a Louis-Françoi Jauffret- nacque a Parigi la Sociètè des Observateurs de l’homme, il cui intento era quello di comprendere i punti più oscuri della storia primitiva, paragonando costumi, abitudini ed il linguaggio dei diversi popoli.! Quando tale società fu creata, esisteva già una considerevole letteratura sui “selvaggi”, composta soprattutto da racconti esotici e di viaggio. In particolare questi ultimi sono costituiti da resoconti di missionari, esploratori, mercanti e soldati, pertanto erano caratterizzati dal moralismo, pregiudizio e dall’esotismo. Accanto a questa letteratura c’erano le idee di Michel de Montagne e Jean-Jacques Rousseau, i quali avevano subordinato l’attenzione per i “selvaggi” ad una critica dei valori espressi dalla società del tempo. In questa tradizione detta “filosofica”, il discorso dei selvaggi era legato alle polemiche sulla religione, sulla battaglia antischiavista dei filantropi e conteneva una critica del potere assolutistico di tipo monarchico. Il “nobile e virtuoso selvaggio” di Rousseau era una metafora nella quale l’europeo poteva veder “raddrizzata” la sua scomposta figura.! Rousseau non considerava il selvaggio come soggetto sociale autonomo e diverso, ma i loro “usi e costumi” rappresentavano dei punti di riferimento e di confronto attraverso i quali trovare le risposte ai problemi sollevati dal confronto ideologico. Il gesuita Joseph-François Lafitau, aveva pubblicato nel 1724 i “Costumi dei selvaggi americani comparati con quelli dei tempi più antichi”: secondo alcuni questa opera rappresenta l’inizio di una nuova scienza, l’etnologia}lo studio comparativo delle diverse culture umane, fondato sui dati raccolti dall'etnografia. I Costumi dei selvaggi americani furono scritti dopo anni di permanenza dell’autore tra alcune popolazioni dei Grandi Laghi Nordamericani. In quest’opera Lafitau adottò una specie di “metodo comparativo” per dimostrare che presso tutti i popoli era presente l’idea di un essere superiore. La Sociètè des Observateurs de l’homme! Il contesto politico e ideologico A partire dal 1792 la ragione, che era considerata lo strumento della critica illuminista contro il potere assoluto, diveniva essa stessa elemento del potere.! Il Comitato d’Istruzione Pubblica organizzò un Istituto Nazionale, cioè un settore nel quale avrebbe dovuto promuovere ricerche nel campo della vita sociale, della legislazione, dell’economia politica e della geografia. Erano qui presenti tutti gli elementi che permettevano di cominciare a concepire una “scienza avente per oggetto l’uomo” come essere naturale e sociale dotato di ragione. Questi furono anche gli anni in cui l’Europa si affacciò sull’Oriente. Fu un periodo cruciale per la storia europea: gli interessi di un continente in rapida espansione furono alla base di un senso di superiorità indiscutibile dell’Europa cristiana, bianca e tecnologicamente sviluppata nei confronti di tutti gli altri popoli.

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Osservare l’umanità Quando Jauffret e i suoi colleghi fondarono la Sociètè des Observateurs de l’homme si poteva già parlare, all’interno di un quadro scientifico, di uomo come genere universale. Della Sociètè facevano parte filosofi, medici, linguisti, viaggiatori, storici (definiti “savants”), il loro scopo era quello di osservare l’umanità nella sua variabilità fisica, linguistica, geografica e sociale. Osservare voleva dire proporre un metodo d’indagine che si allontanasse dall’esperienza derivante dalla conoscenza della propria società, per adottare il principio del confronto con la differenza. Il fatto che, lo studio dell’umanità fosse riconosciuto come “socialmente utile” permise a Jauffret di iniziare un’attività di ricerca e di insegnamento: raccolta di dati sui costumi dei popoli esotici e sulle lingue; raccolta di oggetti appartenenti alla cura materiale di diversi popoli; conferenze; piano per l’allestimento di un museo etnografico. Il programma del viaggiatore filosofo Joseph-Marie de Girando, specializzato in linguistica, scrisse una lunga nota per gli “osservatori” in partenza per l’emisfero australe. Lo scritto, del 1800, s’intitolava “Considerazioni sui metodi da seguire nell’osservazione dei popoli selvaggi” e presentava diversi punti, quali: 1.

l’utilità dello studio dei selvaggi per conoscere le tappe della storia trascorsa dell’umanità;

2.

l’utilità del istituzioni;

3.

l’utilità di risiedere tra costoro per periodi prolungati;

4.

l’utilità di comparare i loro costumi per meglio conoscere l’Uomo.

recarsi

presso

di

loro

per

osservarne

usi

e

Il filosofo doveva farsi “viaggiatore”, percorrere spazi alla ricerca di quei selvaggi che avrebbero potuto costituire l’esempio vivente della condizione originaria dei popoli civilizzati. Il tramonto di un progetto scientifico La Sociètè ebbe vita breve a causa delle mutate condizioni politiche di quel periodo. Nel 1805, anno dello scioglimento della Società, Napoleone aveva già fatto chiudere quelle sezioni dell’Istituto Nazionale in cui si facevano ricerche nel campo delle scienze politiche e morali. Questo corrispondeva ad un programma di rigida subordinazione della scienza alle esigenze di uno stato burocratico e militarista. Gli Osservatori vennero chiamati da Napoleone ideologues, “ideologi” cioè coloro che si occupano “soltanto” di idee. Progresso o degenerazione dell’uomo? Con l’allontanamento della scienza sociale dal potere, la scienza dell’uomo, che fino ad allora aveva rappresentato un’estensione del progetto civile e politico della Repubblica, non rappresenta più lo strumento per la comprensione dell’alterità culturale. Nel 1805 con la Sociètè, chiudeva anche l’etnologia concepita come studio e comprensione della differenza.! A metà ‘800 torna il discorso sulle società selvagge, anche se ora non rappresenterà più uno strumento di critica sociale e politica, ma Pagina ! 4

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acquisterà caratteristiche sempre più marginali; come nel caso delle opere degli economisti britannici, dove l’economia del selvaggio rappresenterà solo uno stato-limite su cui sarà possibile edificare le ideologie del carattere “naturale” dei concetti e dei sistemi economici. Per quanto riguarda il continente europeo, prevarranno le teorie della “degenerazione del selvaggio”, le cui origini risalgono alla “filosofia del potere teologico” di Joseph De Maistre.! Egli vedeva la ragione illuminista come un atto di superbia nei confronti della volontà divina, quindi negava l’esistenza del progresso della ragione universale che aveva ispirato il lavoro degli “osservatori”. De Maistre rappresentava l’ala più radicale della “reazione romantica” all’illuminismo. Secondo lui, l’idea di un progresso umano rappresentava una sfida all’ordine divino e l’unico atto di saggezza possibile era sottomettersi ad esso ed ai poteri terrestri che ne erano i garanti, cioè la chiesa e la monarchia. Egli sosteneva che l’uomo non era progredito da uno stato di barbarie ad uno stato di civiltà. Il selvaggio rappresentava la degradazione dell’uomo a cui questo era condannato a causa del peccato originale e l’esempio estremo della caduta dalla grazia divina: il selvaggio era l’oggettivazione del peccato originale, era il simbolo del peccato e rappresentava un’umanità a cui era stata negata la grazia.! In Gran Bretagna le tesi di De Maistre sulla “degenerazione” furono riprese dal vescovo di Dublino Richard Wathely: il progresso non poteva essere sostenuto senza un esplicito intervento divino, poiché ai selvaggi era consentito progredire solo se aiutati da un’umanità già in possesso di una civiltà ottenuta per grazia divina. Egli non credeva nel progresso autonomo dell’uomo perché, dal giorno della creazione, una parte dell’umanità aveva progredito per grazia divina mentre l’altra era decaduta. Le principali tesi del degenerazionismo erano: 1.

nessuno aveva fornito una qualche prova del passaggio dallo stato selvaggio alla civiltà;

2.

nessun popolo selvaggio visitato a distanza di anni aveva dimostrato di aver compiuto un qualche progresso per conto proprio;

3.

la presenza di un qualche standard della popolazione superiore.

manufatto ritenuto superiore allo era stato ricevuto da un popolo

Ciò che veniva negata era l’idea che l’umanità fosse avanzata, sul piano materiale e spirituale, unicamente in virtù delle proprie forze. Questa teoria della degenerazione poggiava sulla convinzione che la storia dell’uomo fosse riducibile ad un arco di tempo delimitato dalla data di creazione del mondo ufficialmente accettata dalla Chiesa d’Inghilterra, il 4004 a.C.! L’idea che l’umanità e la natura di oggi fossero come all’epoca della creazione era facilmente accettata da chi si atteneva a tale cronologia biblica, la quale era tacitamente accettata anche dalla Royal Society di Londra, la più autorevole istituzione scientifica del tempo.! Ma l’autorità delle Sacre Scritture cominciò a vacillare con i risultati di alcune ricerche compiute nel campo degli studi biblici. Già alla fine del 1700 alcuni studiosi della Bibbia avevano cominciato a studiare l’Antico Testamento come un documento storico, e non più come un libro contenente delle verità assolute ed immutabili. La Bibbia diventava così una fonte potenziale di conoscenze sulla società stessa.!

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Verso la fine degli anni 1850 creazionismo ed evoluzionismo rappresentavano due opposte interpretazioni della storia naturale e umana. Creazionismo postulava la fissità delle specie viventi, e l’idea che ogni loro variazione fosse il frutto di un intervento estraneo ai processi e alle forze del mondo della natura.!

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Evoluzionismo Darwin ipotizzò una teoria rivoluzionaria della storia naturale: le forme di vita sarebbero trasformate in base ad un processo lento di mutazioni dovute all’influenza esercitata su di esse dall’ambiente e alla capacità o meno che gli esseri viventi avevano di adattarsi con successo a quest’ultimo, e quindi di riprodurre, nella discendenza, le loro caratteristiche.!

Le teorie evoluzionistiche ebbero un effetto traumatico sul costume e sulla mentalità di allora, perché ipotizzavano una natura animale dell’uomo. Il quadro ideologico e teorico dominante Col Congresso di Vienna l’Europa sembrava aver raggiunto un assetto politico -definito “Restaurazione”- stabile nel tempo, che mirava ad uno sviluppo economico, sociale e scientifico.! Il pensiero filosofico e scientifico dell’800 colse le trasformazioni economiche e sociali generate da questo modo di produzione indipendentemente dalle modalità di funzionamento del sistema che le aveva prodotte. L’immagine della società che scaturì da questo sguardo particolare fu quella di una società in rapido sviluppo, pensabile grazie al concetto di progresso.! A fornire questa immagine concorsero le applicazioni in campo produttivo delle scoperte scientifiche. La fiducia nel progresso materiale e sociale costituì il quadro ideologico nel quale venne organizzandosi il lavoro teorico degli antropologi evoluzionisti. Per loro quello di progresso era un concetto sintetico attraverso il quale era possibile esprimere contemporaneamente le idee di cumulabilità e di continuità culturale. Praticamente, le leggi che governavano l’aumento della produzione intellettuale e materiale della società presente sono le stesse che prima lentamente, poi via via sempre più rapidamente, hanno determinato lo sviluppo delle società passate e quindi il passaggio da uno stadio culturale inferiore ad uno stadio superiore.! Questa immagine progressiva della storia produsse due conseguenze: 1.

i “primitivi” contemporanei dovevano rappresentare lo stadio più remoto dello sviluppo culturale;

2.

in base al criterio della complessità culturale crescente, diveniva possibile classificare le società in inferiori e superiori all’interno di una scala generale di sviluppo. L’uniformismo

Nei decenni centrali dell’800, in Gran Bretagna, ci fu una rivoluzione delle scienze della natura e dell’uomo. Geologia, biologia e archeologia assunsero la prospettiva dell’uniformismo. Tale ipotesi fu enunciata Pagina ! 6

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dallo scozzese Charles Lyell, nel libro “Principi di geologia”, 1830, secondo il quale i processi che trasformano la crosta terrestre erano di natura identica a quelli che, operando in passato, avevano modellato l’attuale superficie del globo. L’importanza di queste teorie consisteva nel fatto che consentivano di fornire una spiegazione alternativa al creazionismo.! Anche Darwin riprese l’ipotesi -nell’”Origine della specie”, 1859- di Lyell, sostenendo che l’evoluzione delle specie poteva essere spiegata sulla base degli stessi meccanismi che attualmente operano nei processi di differenziazione delle varietà animali addomesticate. L’uniformiamo permise agli antropologi evoluzionisti di sottrarre la storia dell’uomo all’evoluzionismo e di naturalizzare quei processi di trasformazione che il creazionismo, e il degenerazionismo, non consideravano come prodotto autonomo dell’attività umana.

John Lubbock scrisse “Prehistoric Times”, nel 1865, in cui suddivise l’età della pietra in due periodi: paleolitico e neolitico. Inoltre, quest’opera contribuì a far circolare l’idea per cui la vita dei primitivi abitanti dell’Europa poteva essere paragonata a quella dei “selvaggi” contemporanei. Il parallelismo tra Europei preistorici e selvaggi “esotici” rifletteva l’assunto centrale di tutta l’antropologia evoluzionista: a causa della sostanziale identità delle facoltà mentali umane, i popoli elaborano, ad un livello di pari sviluppo intellettuale, tipi di adattamento simili sul piano materiale. Poiché esistono popoli più organizzati di altri sul piano tecnologico, sociale ed economico ciò vuol dire che esiste una via che porta dallo stato selvaggio alla civiltà. Più un popolo è organizzato da questo punto di vista, più esso è “avanti” nella scala dello sviluppo che porta dallo stato selvaggio alla civiltà.

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L’ANTROPOLOGIA EVOLUZIONISTA DELL’ETA’ VITTORIANA Fu con la regina Vittoria -governò dal 1837 al 1901- che l’Inghilterra s’impose come maggiore potenza industriale, coloniale, militare e politica; sempre in questo periodo nacque l’antropologia moderna. Il proletariato inglese aveva lentamente migliorato le proprie condizioni grazie alla nascita dei sindacati, dovuta alla spinta del socialismo riformista. I progressi nel campo tecnico-scientifico e le conquiste in campo coloniale e sociale diedero il via ad una visione ottimistica e progressiva del divenire storico. Proprio questo ottimismo fu la chiave d’interpretazione della storia dell’umanità, che per essere sostenuta aveva bisogno di prove empiriche, fornite proprio dall’antropologia. EDWARD B. TYLOR: La “scienza delle società primitive” L’antropologia che si sviluppò nell’epoca vittoriana, fu una scienza “ottimista”, come la società che l’aveva prodotta. Essa fu definita “la scienza del riformatore”, nel senso che l’antropologia, con il suo sapere, poteva dare un contributo utile ad una um...


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