Storia della musica occidentale volume 1 PDF

Title Storia della musica occidentale volume 1
Author Stefano Lombardo
Course Storia della musica
Institution Università degli Studi Gabriele d'Annunzio - Chieti e Pescara
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riassunto del manuale di storia della musica ...


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I PARTE. DALLA TRADIZIONE ORALE ALLA TRADIZIONE SCRITTA La tradizione orale pervase quasi completamente i millenni precedenti il IX secolo e continuò a coesistere fianco a fianco con la tradizione scritta fino ai nostri giorni. Nell’antichità greca, in cui giunse a compimento un antico sistema di notazione basato sulle lettere dell’alfabeto, la civiltà greca pur scrivendo sporadicamente la sua produzione musicale non intese affatto tramandarla ai posteri, poiché la considerava alla stregua di un bene di consumo effimero. La nascita della scrittura neumatica ( il neuma , termine che deriva dal greco e significa segno, indica i segni convenzionali con cui si iniziò ad annotare la musica occidentale a partire dal IX-X secolo) avviata intorno al IX secolo, è il diretto antecedente storico della notazione attuale, connessa indissolubilmente con l’esigenza, avvertita nell’epoca carolingia, di trasmettere il repertorio gregoriano in modo che rimanesse assolutamente immutato attraverso lo scorrere dei secoli. Il canto liturgico iniziò così ad appoggiarsi ad un supporto scritto. Le liriche di argomento profano invece rimasero nell’ambito di una prassi esecutiva legata all’estemporaneità e all’improvvisazione. 1.1 LA CIVILTÀ MUSICALE GRECA L’aulós era uno strumento a fiato ad ancia doppia costituito da due tubi di canna, di legno, di osso o di avorio, muniti di fori, che venivano suonati contemporaneamente. Secondo il mito la dea Atena inventa uno strumento musicale costruito di canna, l’ Aulòs appunto, per simulare il grido di Medusa, la gorgone posta a sbarrare le porte dell’Ade a qualsiasi essere vivente. Ma specchiandosi nel fiume Atena vide che suonando lo strumento il proprio volto si deformava nello sforzo di soffiare rendendola simile alla Gorgone e lo scagliò via. Lo raccolse il satiro Marsia, essere già deforme, che pertanto non temeva alcun incantesimo da parte di questo pericoloso strumento. Marsia sfidò Apollo in una gara musicale ma l’aulòs impediva la parola e quindi impediva l’espressione dell’anima razionale dell’uomo. Per questo motivo non trionfò sulla Lyra di Apollo. Marsia fu scorticato vivo e la sua pelle appesa ad un albero continuò ad agitarsi ogni volta che il suono di un aulòs aleggiava nelle vicinanze. Questo mito richiama il fatto che i filosofi greci valutassero la musica soprattutto dal punto di vista dell’efficacia pedagogica. L’aulòs era uno strumento che a differenza della lira rendeva del tutto impossibile la parola e non poteva quindi consentire di esprimere l’anima razionale dell’uomo. Il racconto mitico della costruzione della lyra è tramandato dall’Inno omerico ad Hermes. Hermes trovò una tartaruga, la uccise e ne vuotò il guscio. Applicò a tale cavità due bracci di canna tra i quali tese sette corde: la tartaruga, animale privo di voce, acquistò così la capacità di cantare. La tartaruga che canta di Hermes poteva unire al potere oscuro del suono la ricchezza della parola umana. Nell’ascoltare una simile musica, Apollo rimase talmente rapito da accettare la Lyra in cambio di una mandria trafugata precedentemente da Hermes. I greci concepivano il mondo musicale come gravitante intorno a due poli opposti, che possiamo simboleggiare con i due strumenti fondamentali: la lyra, creata per unirsi alla poesia umana e dunque al discorso e alla razionalità, e l’aulòs, simbolo della musica che si accompagna all’invasamento estatico, alla possessione rituale, alla sfrenatezza. Anche la religione risentiva di questo modo di scindere razionalità e sfrenatezza: da una parte la religione ufficiale, i

cui dei erano associati agli strumenti a corde, dall’altra il culto dionisiaco connesso all’aulòs. Il culto dionisiaco prevedeva la possibilità di un contatto intimo con il divino e il cosmico attraverso l’invasamento estatico: l’uomo poteva trasformarsi in Dioniso uscendo da sé e partecipando della sua natura divina. Per creare lo stato di trance era indispensabile la musica dal ritmo sempre più incalzante suonata da un’orchestra di aulòi e da strumenti a percussione. I greci basavano il loro sistema musicale sulle cosiddette harmoníai, o modi, caratterizzate ciascuna dal nome di un’antica popolazione ellenica: dorica, frigia, lidia, ionica, eolia, ecc. ad ognuna di esse corrispondeva una determinata scala musicale, ma probabilmente ogni harmoníai comprendeva anche tutto l’insieme degli elementi (ritmi, melodie tradizionali, modi di esecuzione, ecc.) della musica dei dori , dei frigi , dei lidi e degli altri popoli. Ogni harmonía causa infallibilmente un ethos cioè un particolare effetto sull’animo e sul corpo umano. L’harmonía dorica ad esempio era considerata la più grave e la più virile, e determinava nell’animo compostezza e moderazione; l’harmonía frigia, al contrario, inseparabile dal dionisiaco aulós, suscitava necessariamente un ethos “entusiastico”. La teoria dell’ethos pervadeva completamente la visione greca della musica: alla musica veniva attribuito un potentissimo effetto non solo sull’animo, ma anche sul corpo umano, ad esempio si usavano melodie per guarire determinati malanni, sugli animali, si pensi per esempio al mito di Orfeo che ammansiva le belve feroci con il suo canto, e sugli esseri inanimati, si pensi per esempio al mito di Anfione che costruì le mura di Tebe muovendo le pietre con il suono della lyra. Il termine greco musiké tradotto con musica in realtà implicava tutta l’arte ispirata dalle Muse quindi musica, poesia e danza e tra il V e il IV secolo a.C. si accese un grande dibattito sullo sfruttamento a fini politici uno strumento così potente per la manipolazione del consenso. Platone affermò che “non s’introducono mai cambiamenti nei modi della musica senza che se ne introducano nelle più importanti leggi dello Stato”. Nella polis ideale di Platone la presenza della musica doveva essere accuratamente regolamentata, per indirizzare i suoi effetti dirompenti esclusivamente verso uno scopo di educazione morale della futura classe dirigente. Il concetto platonico della musica è stato definito “catarsi allopatica” cioè una purificazione ottenuta per mezzo di elementi opposti rispetto a quelli che hanno causato il male. Una musica appropriata può infondere una determinata virtù a chi ne è privo o a chi è in preda al vizio opposto, purificandolo. Solo utilità dunque, e non piacere. Egli permetteva solo le harmoníai dorica e frigia, venivano da lui banditi tutti gli strumenti in grado di suonare anche le altre harmoníai e soprattutto l’aulós. L’unico repertorio ammesso era quello delle melodie tradizionali, quelle che non a caso venivano dette nómoi cioè leggi. Più aperto e permissivo era invece Aristotele, che si basava su un concetto definibile come “catarsi omeopatica” cioè una purificazione ottenuta per mezzo di elementi simili a quelli che hanno causato il male. Anche un ethos negativo è accettabile perché, attraverso un perturbamento controllato, l’animo può espellere fuori di sé le proprie negatività e ritornare allo stato normale. Ma ambedue i filosofi erano pienamente d’accordo nel vietare ai giovani ogni professionismo musicale. La profonda diffidenza che il mondo greco avvertiva nei confronti della musica pratica aveva antiche radici: almeno fin dall’età di Pitagora era considerata vera musica solo quella puramente teorica in quanto fondata sul principio razionale per eccellenza: il numero. Veniva tradizionalmente

attribuita a Pitagora una teorizzazione degli intervalli musicali basata su proporzioni numeriche. La musica pratica non era considerata degna di essere tramandata ai posteri: quindi non giunse mai alla fase della redazione scritta, poiché era fondata sulla trasmissione orale di tecniche e di repertori consacrati dalla tradizione. 1.2 La musica nella tragedia greca: l’Oreste di Euripide Aristotele lamentava la mancanza nella lingua greca di una denominazione adatta a indicare “l’arte che adopera le nude parole e quella che adopera i versi”, fino all’epoca ellenistica l’espressione poetica e quella musicale erano legate da un nesso inscindibile. I principali generi musicali della Grecia classica erano la citarodia (canto accompagnato dalla kithara) e l’aulodia (canto accompagnato dall’ aulós) che utilizzavano moduli ritmico-melodici caratteristici già noti e codificati (detti nómoi) variandoli o elaborandoli. Abbiamo notizia di composizioni esclusivamente strumentali. L’efficacia descrittiva di tali musiche tuttavia va probabilmente ascritta all’uso simultaneo della danza nonché a quello di nómoi già noti al pubblico: l’esecuzione della melodia forse richiamava alla memoria dell’uditorio il testo che solitamente ad esso era associato. L’apporto della musica nella drammaturgia ellenica era tanto decisivo che tragediografi e commediografi erano al tempo stesso compositori delle musiche e coreografi, oltre ad occuparsi personalmente della messinscena delle loro opere. Aristotele ci informa anche che la musica non accompagnava ininterrottamente l’azione scenica, ma interveniva in momenti definiti. Nella struttura fondamentale di una tragedia alla pàrodo e agli stàsimi, cioè le parti cantate e danzate dal coro nell’orchestra, si alternavano gli episodi recitati sulla scena da uno, due, tre o, raramente, quattro attori, che potevano interpretare più di un personaggio a testa. La pàrodo era cantata in metro anapestico ( ˘˘ˉ ),un metro marziale particolarmente adatto al canto di ingresso del coro sulla scena. Prologo, episodi ed esodo, costituiti dai monologhi e dai dialoghi degli attori, erano prevalentemente scritti in metro giambico ( ˘ˉ ), secondo Aristotele il più vicino al tono normale della conversazione, oppure in anapesti o in trochei ( ˉ˘ ). Nelle parti degli attori potevano anche essere introdotte serie di versi lirici: il canto poteva intervenire dunque anche nelle parti recitate dagli attori oltre che nelle sezioni con il coro. Nell’Oreste di Euripide ( messa in scena nel 408 a.C.) in corrispondenza con ciascuno dei primi tre stàsimi l’azione si arresta momentaneamente dando modo al coro di commentare la vicenda e ad Elettra di esprimere il suo stato d’animo. Nel quarto stàsimo e nei canti inseriti nell’esodo invece il coro prende parte attiva all’azione. Nel terzo stàsimo, invece, il coro viene sostituito dal canto solistico di Elettra. Il canto di Elettra sancisce ormai l’affermazione definitiva dell’attore sul coro negli spettacoli tragici e si giustifica drammaturgicamente in quanto mette allo scoperto il fattore psicologico che determina la successiva svolta nel dramma. Ci rimangono solo due brevissimi frammenti della musica scritta per un passo dell’Ifigenia in Aulide e per un passo dell’Oreste di Euripide. Questa carenza può giustificarsi tenendo conto del fatto che fino alla metà del V secolo a.C. si rappresentavano solo le “prime” teatrali, era possibile inscenare le repliche solo al di fuori della città di Atene. Inoltre dalle testimonianze in nostro possesso sembra che i greci considerassero la musica come una componente attinente alla performance, destinata ad una fine effimera, a essere rinnovata, reinventata ad ogni (eventuale) ripresa dello spettacolo. La notazione

musicale inoltre, quand’anche fosse stata presente nei copioni, era probabilmente incomprensibile ai non specialisti. Non fa meraviglia allora che quella notazione non sia stata trascritta insieme al testo. Verso il 330 a.C. il politico e oratore ateniese Licurgo ordinò che si compilasse una copia di Stato dell’opera dei tre grandi tragici. Di queste copie si servirono a loro volta i filologi alessandrini che redassero le versioni delle tragedie di cui tutt’ora disponiamo. Essendo utili soltanto alle compagnie teatrali i papiri che contenevano le notazioni musicali invece ben difficilmente poterono finire in una biblioteca e dunque furono per la maggior parte dispersi. 2.1 LA MONODIA LITURGICA CRISTIANA Comunemente viene denominato canto gregoriano, ma sarebbe più corretto definirlo monodia liturgica cristiana. La monodia è un canto ad una voce sola, che può essere intonata da uno o più cantori; questa si contrappone alla polifonia, che significa invece canto a più voci, le quali svolgono contemporaneamente linee melodiche diverse. La liturgia è l’insieme delle preghiere ufficiali della religione, per il cristianesimo si tratta essenzialmente della messa, della celebrazione dei sacramenti e dell’ufficio delle ore. Nulla sappiamo di preciso su ciò che riguarda il canto cristiano dei primi secoli, si può ragionevolmente supporre che la prima comunità cristiana usasse per le sue celebrazioni un tipo di canto non troppo dissimile da quello delle sinagoghe. La liturgia ebraica era caratterizzata dal fatto di essere interamente “cantillata”, caratterizzata cioè dall’ amplificazione della parola liturgica proclamata con solennità. I salmi (preghiere in poesia della Bibbia adottate poi integralmente dal cristianesimo) venivano cantati imperniandone la recita su un’unica nota continuamente ripetuta, fatta precedere e seguire da formule di intonazione e di cadenza. I cristiani però non attinsero esclusivamente al mondo giudaico. Il greco divenne la lingua maggiormente usata nella liturgia e in greco furono scritti i Vangeli e tutti gli altri libri del Nuovo Testamento. In Occidente il latino iniziò ad affiancarsi al greco come lingua liturgica solo con molta gradualità, divenne lingua ufficiale della Chiesa d’occidente non prima della seconda metà del IV secolo. La struttura della messa latina così come la conosciamo oggi non risale a prima dell’VIII secolo. Una grande svolta avvenne nel 313, quando Costantino e Licinio emanarono il cosiddetto Editto di Milano: il cristianesimo inaugurò così un’epoca in cui il proprio ruolo nella vita politica e religiosa dell’impero divenne sempre più influente: il passaggio tra IV e V secolo fu scandito dagli editti di Teodosio (380) e di Onorio (408) che giungevano sino ad eliminare i templi e gli atti di culto di tutte le altre religioni. Nel IV secolo si costruirono numerose basiliche e ci si avviò ad istituzionalizzare, ampliare e fissare per iscritto il cerimoniale liturgico, fino ad allora gestito dalle singole comunità in modo libero e creativo. Parte integrante della solennità del rito era fin dalle origini la musica, così la proclamazione del testo liturgico s’innalzava dal semplice livello di linguaggio umano a quello di Parola di Dio. Oltre a questa funzione di amplificazione rituale, la musica svolgeva una più umile ma non trascurabile funzione di amplificazione fonica, infatti nelle basiliche affollate di fedeli la parola cantata era molto più facilmente percepibile rispetto a quella parlata. Una terza e fondamentale funzione della musica applicata al testo sacro è

quella che possiamo definire come amplificazione melodica: la monodia liturgica cristiana non faceva altro che rendere esplicita l’intrinseca musicalità della lingua latina. Gli accenti delle parole consistevano soprattutto nell’elevazione melodica della voce. Se queste parole venivano proclamate durante una celebrazione liturgica, il seme melodico racchiuso nella lingua parlata germogliava in un vero e proprio canto e il suo grado di melodizzazione dipendeva dallo stile richiesto nelle singole circostanze. In una veloce antifona (breve versetto che introduce e conclude il canto di un salmo) la melodia era più semplice, e tale stile veniva detto stile sillabico (ad ogni sillaba del testo corrisponde un’unica nota oppure pochissime note); in un canto solistico quale l’offertorio il cantore poteva elaborare lo schema di partenza in uno stile più ricco, denominato stile melismatico o stile fiorito (con il termine melismi, o fioriture, si denominano le sovrabbondanti volute melodiche applicate ad una sola sillaba di testo). L’intimo legame tra la linea melodica del canto e l’accentuazione del testo liturgico caratterizza circa l’80% del repertorio gregoriano che è giunto fino a noi. Le eccezion sono : 1. Melodie molto tarde, in cui si era perso il ricordo dell’accentuazione melodica. 2. Salmi, la cui intonazione doveva rimanere fissa su un’unica nota (detta corda di recita) e quindi era impossibile seguisse il profilo di ogni singola parola; 3. Gli inni, composizioni poetiche di lode a Dio, cantate (in greco) fin dagli inizi del cristianesimo. L’innodia in latino, soprattutto per impulso di sant’Ambrogio, conobbe una vastissima diffusione, assumendo forma strofica con versi regolarmente ritmati e testo facilmente comprensibile. Poiché la musica della prima strofa andava ripetuta identica per tutte le altre è facile comprendere come non potesse sussistere uno stretto legame parola-musica. 4.L’ultima causa per cui la regola dell’amplificazione melodica veniva trascurata era rappresentata dal caso in cui la parola meno importante sacrificasse la sua naturale curva melodica in favore di uno slancio più incisivo verso l’apice dell’intera frase. Il testo liturgico dava luogo a tradizioni di canto diverse nelle varie regioni d’Europa, subendo anche l’influenza degli stili di canto locali. Dal IV secolo in poi, sotto la spinta della raggiunta ufficializzazione della Chiesa, si avviò un lento processo di coagulazione della liturgia e del canto liturgico in vaste unità regionali. Intorno al IV secolo l’Europa ecclesiastica si presentava con la Chiesa d’occidente di lingua latina e rito vetero-romano (a Roma e nell’Italia centrale), rito ambrosiano (a Milano e in parte della Lombardia), rito aquileiese, rito beneventano, rito gallicano (in Francia), rito celtico (in Irlanda, Inghilterra e in Bretagna) e rito ispanico (detto anche visigotico-mozarabico). Dall’altra parte si trovavano le chiese d’oriente, frammentate in una pluralità di riti e di lingue diverse che si avviavano ad una prima separazione da Roma (tra il 482 e il 518), seguita solo nel 1054 dalla scissione definitiva tra cattolici e ortodossi. Il VI secolo si concluse sotto il papato di S. Gregorio

Magno (590-604), colui dal quale il canto gregoriano prese il nome, anche se studi recenti hanno rivelato come non esista alcun documento attendibile che dimostri un intervento del celebre papa riguardo alla musica. 2.2 La trasmissione del canto liturgico nella Chiesa d’occidente fino al IX secolo: l’esecuzione/ricreazione del tractus Deus, Deus meus I più antichi codici rimastici, notati integralmente con neumi originali sono databili al X secolo. Di conseguenza fino a quell’epoca la trasmissione del canto liturgico sembra essere avvenuta esclusivamente per tradizione orale. Poiché un servizio liturgico senza l’uso della parola cantata era inconcepibile, l’ampiezza dei repertori associati ai riti nelle diverse Chiese d’occidente richiese ben presto la nascita di scuole ad hoc per l’istruzione dei cantori. Già nel IV secolo per esempio è attiva la scuola episcopale di Milano. All’operare di papa Sergio I (687-701) si fa risalire l’istituzionalizzazione di una schola cantorum pontificia che diverrà presto la più fiorente di tutto l’occidente. La mancanza di una notazione musicale non impedì il fiorire di una rigogliosa tradizione di canto liturgico. Il lungo apprendistato richiesto ai cantori delle scholae era di più di dieci anni. Si osservarono via via apparire in filigrana le tracce delle antichissime strategie utilizzate nell’esecuzione e nella trasmissione dei repertori musicali di tradizione orale, strategie che combinavano le tecniche di memorizzazione a quelle improvvisative. Lo psicologo Bartlett elaborò una teoria secondo cui la rievocazione di un ricordo non è il semplice ripescaggio di dati registrati, ma è una ri-creazione condotta utilizzando una traccia essenziale. Neisser ha paragonato l’attività mnemonica a quella di un paleontologo: chi vuol ricordare un racconto non rimette semplicemente in fila tutte le parole che ha udito, ma seleziona nella vicenda alcune caratteristiche salienti e attorno ad esse ricostruisce la storia, organizzandole anche sulla scorta di nozioni apprese da esperienze passate. Gli inizi e le conclusioni dei racconti rappresentano le zone che tendono a mantenersi più stabili nei repertori tramandati oralmente. Va considerato innanzitutto che ciascun canto liturgico si può accomunare ad altri in quanto espressione di un certo “tipo melodico”. Il tractus della domenica delle palme Deus, deus meus condivide con altri tractus la stessa caratteristica di intonare in prevalenza i suoi versetti sulla “corda di ...


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