Storia Romana Capitolo 11 PDF

Title Storia Romana Capitolo 11
Course Storia Romana I A
Institution Università Ca' Foscari Venezia
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Riassunto capitolo 11 Roma antica - Storia e documenti ...


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11. LA CRISI DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE Le rinnovate modalità della politica Tra la fine del II e il I secolo a.C. emerse in tutta la sua gravità l’inadeguatezza delle istituzioni repubblicane attraverso ripetute infrazioni alla normativa vigente, rappresentata soprattutto dalla legge Villia annale che dal 180 a.C. disciplinava la successione delle cariche. Le violazioni da un lato scaturivano dalla necessità di rispondere alle eterogenee esigenze gestionali dello stato; dall’altro derivavano dall’opportunità di ridefinire gli equilibri di potere all’interno della classe dirigente e di rinnovare le modalità della politica, in ragione delle mutate condizioni economiche, sociali, culturali del I secolo a.C. In pochi decenni si registrò una notevole mobilità sociale: 





Il ceto senatorio e l’ordine equestre subirono pesanti ridimensionamenti in conseguenza del protrarsi delle guerre e del moltiplicarsi di episodi di violenta ritorsione nei confronti della parte soccombente nei conflitti intestini. Silla nell’82 a.C. e i triumviri cesariani nel 43 a.C. ricorsero alle proscrizioni, eliminando migliaia di avversari; anche altri protagonisti sulla scena politica furono mandanti di omicidi e imposero ai loro competitori l’esilio e la confisca del patrimonio, causando per le vittime e gli eredi la perdita dei requisiti censitari per entrare in senato nell’ordine equestre. Inoltre, Silla prima e Cesare poi ampliarono rispettivamente a 600 e a 900 il numero dei senatori. Alle élite italiche e delle province occidentali si aprirono, in tal modo, opportunità di carriera a Roma, che si concretizzarono con l’immissione nei cavalieri e l’accesso al senato. La loro integrazione nella classe dirigente romana era conseguenza dell’accresciuto peso dei loro affari nelle dinamiche economiche della Repubblica, il loro ruolo sempre più incisivo negli scontri militari, l’incremento delle loro relazioni clientelari con i leader romani, nonché la loro progressiva integrazione giuridica. Esponenti delle classi dirigenti della Penisola e di alcune province acquisirono, quindi, l’opportunità di assumere le magistrature divenendo «uomini nuovi». Si avvalevano di un nuovo criterio di promozione sociale: disporre di antenati autorevoli rimaneva un vantaggio ma non rappresentava più un criterio vincolante, mentre si riconosceva valore alle doti militari, essenziali in tempo di conquiste ma anche di conflitti civili armati.

Ritengo che siano due le maniere in cui il senato può essere riformato: o mediante un aumento del numero dei senatori o attraverso l'introduzione dello scrutinio segreto. Questa seconda opzione determinerebbe la propensione dei senatori a votare secondo coscienza. Un aumento quantitativo, invece, causerebbe una maggiore sicurezza e permetterebbe al senato di giovarsi di una più vasta esperienza. Infatti alcuni senatori sono impegnati nello svolgimento dell'attività giudiziaria e altri si occupano degli affari propri o dei loro amici: di conseguenza, essi hanno riservato proprio scarsa attenzione agli affari di stato. Così, singoli aristocratici, con alcuni senatori tanto per dare numericamente più peso al loro potere, approvano, disapprovano, decidono tutto quel che fa loro comodo…(Sallustio, Lettera a Cesare, 1, 11,5, 6).

Le violazioni istituzionali

In seguito a ciò, la vita politica romana subì profonde trasformazioni e lacerazioni istituzionali. Ad ex: 



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Il consolato venne conferito a uno stesso individuo senza soluzione di continuità anche per 5 anni di seguito (ex Gaio Mario) senza rispettare l’intervallo previsto e in altre occasioni fu attribuito a un solo individuo anziché a una coppia (Pompeo nel 52 a.C.). Il senato riconobbe comandi straordinari per missioni militari specifiche, in violazione della normativa che stabiliva per l’esercizio del potere militare un confine geografico e una durata temporale precisi, nonché il conferimento a un magistrato, non a un privato cittadino. Furono poi stretti accordi extraistituzionali tra leader politici per la gestione dello stato a vantaggio personale (così i triumvirati del 60 a.C. e poi del 43 a.C.). Si consentì ai governatori di amministrare la provincia «in assenza», rimanendo cioè a Roma e delegando l’incarico ai propri legati. La dittatura venne utilizzata in una forma nuova: inizialmente si trattava infatti di una magistratura eccezionale, di durata semestrale, attivata solo per fronteggiare emergenze militari provenienti dall’esterno; nel I secolo a.C. invece fu innanzitutto autoconferita e solo successivamente legalizzata dai comizi; fu motivata dalle esigenze della guerra civile e non da minacce esterne; durò ben più dei 6 mesi previsti; venne giustificata dalla necessità di un riassetto costituzionale (per scrivere le leggi e ridisegnare la costituzione dello stato).

L’affermarsi di grandi personalità Le violazioni istituzionali furono accettate dal popolo in conseguenza di un’importante trasformazione nell’ideologia romana. Nella visione tradizionale Roma agiva come una collettività, che si esprimeva attraverso organismi che prevedevano un’ampia partecipazione (le assemblee popolari e il senato) e mediante magistrati che esercitavano il potere in forma limitata (nel tempo e nelle competenze) e solo per delega del popolo sovrano. La storia di Roma in ciascuna sua fase non era, quindi, il portato dell’azione di singoli individui, ma l’esito di uno sforzo collettivo. Diversamente, nella tarda età repubblicana, amplificando un processo avviatosi alla fine del III e nel II secolo a.C. nel contesto delle guerre contro Cartagine e poi in Oriente, la politica fu gestita da grandi personalità che, attraverso i rapporti clientelari o mediante accordi privati, si assicuravano un eccezionale ruolo di potere a vantaggio di se stessi. La nobiltà senatoria, che per secoli aveva amministrato collettivamente lo stato attraverso il senato e mediante una turnazione nell’esercizio delle cariche, perse gradualmente il controllo delle truppe che divennero di fatto milizie personali dei più rappresentativi esponenti politici sulla scena, e individuò il proprio leader al di fuori della propria cerchia nel personaggio che sembrava rappresentare meglio gli interessi e la visione politica degli ottimati. Dopo aver sostenuto Silla, l’aristocrazia identificò il proprio candidato in Pompeo, un cavaliere. In realtà l’accordo non si produsse in ragione di alcuna convergenza ideologica, ma solo in funzione anticesariana. Cesare e Pompeo, infatti, perseguivano entrambi un progetto autocratico, ma le clientele del primo appartenevano allo schieramento dei popolari e dunque si appoggiarono a Pompeo con la speranza che egli potesse tutelare i privilegi della nobiltà conservatrice.

Episodi di eversione Il clima di illegittimità e di disordine istituzionale portò alla promozione di molti progetti sovversivi. Tentativi di sovvertimento delle istituzioni furono perpetrati, ad esempio, da Lucio Sergio Catilina e da Publio Clodio Pulcro, ma le loro iniziative si conclusero con esiti fallimentari. Catilina, patrizio decaduto e in passato partigiano di Silla, nel 63 a.C. riunì intorno a sé una clientela dal carattere fortemente emarginato e subalterno: schiavi fuggitivi, plebe rurale impoverita e inurbata, veterani che avevano ottenuto terra come buonuscita ma erano stati costretti a vendere l’appezzamento a causa dei debiti contratti con il gioco d’azzardo e la vita dissoluta. Figuravano fra i suoi seguaci anche giovani nobili in difficoltà economica, a causa dei costi ingenti della campagna elettorale, in un sistema in cui era pratica diffusa la compravendita del voto e dove le spese venivano coperte da finanziatori i quali anticipavano cospicue somme che il candidato avrebbe dovuto rifondere una volta eletto o non. In primo luogo erano confluiti a Roma, come in una fogna, coloro che ovunque si distinguevano per corruzione e sfrontatezza e con essi altri che avevano dissipato il proprio patrimonio in eccessi vergognosi e infine tutti quelli che l'infamia o i delitti avevano fatto cacciare dalla loro patria. Molti[...] speravano di ricavare vantaggi analoghi dalla vittoria, qualora avessero preso le armi. Inoltre i giovani […] allettati dalle largizioni pubbliche e private avevano preferito all'ingrata fatica l'ozio cittadino. Costoro, come tutti gli altri, traevano alimento dal malessere sociale (Sallustio).

Fonte 1 – Catilina: il progetto di un sovvertimento sociale Sallustio, che dedica una monografia storica al racconto della congiura di Catilina contro il console del 63 a.C. Marco Tullio Cicerone, interpreta l’azione eversiva come un tentativo di sovvertimento sociale allo scopo di impadronirsi delle ricchezze dei più abbienti e ottenere le magistrature: Ecco allora Catilina promettere la cancellazione dei debiti, la proscrizione dei ricchi, magistrature, sacerdozi, rapine e tutto ciò che comporta la guerra e la sfrenatezza dei vincitori (Sallustio, La congiura di Catilina, 21).

I partecipanti appartenevano a diversi ceti sociali: Nel frattempo Manlio in Etruria si adoperava a indurre alla ribellione la plebe, che la povertà e il risentimento per le ingiustizie subite inducevano alla rivoluzione, poiché sotto il regime di Silla aveva perduto i campi e tutti i beni; inoltre reclutava predoni di ogni genere, dei quali nella regione vi era grande abbondanza, e anche alcuni coloni di Silla, ai quali i vizi e la prodigalità non avevano lasciato nulla delle loro grandi rapine (Sallustio, La congiura di Catilina, 28).

L’obiettivo di Catilina era acquisire una posizione di potere nello stato. Inizialmente si era presentato per il consolato nel 65 a.C., ma era stato respinto per indegnità; nel 64 a.C. si era candidato alla stessa carica, fallendo, e si era ripresentato nel 63 a.C., quando la magistratura era detenuta da Marco Tullio Cicerone, «uomo nuovo» originario di Arpino, e da Marco Antonio Ibrida. All’epoca sembra fosse sostenuto da Marco Licinio Crasso e aveva buone relazioni anche con Cesare. Dopo il secondo insuccesso elettorale, aveva optato per la via dell’illegalità, organizzando un’azione eversiva mirante all’uccisione di Cicerone e di numerosi senatori, grazie al supporto di un esercito allestito in Etruria. Scoperta la congiura, il console ottenne dal senato l’emanazione di un senatusconsultum ultimum; Catilina, dichiarato nemico pubblico, morì in battaglia nei pressi di Pistoia all’inizio del 62 a.C. Cicerone fece giustiziare per strangolamento i complici, senza

che fossero sottoposti a regolare processo, nonostante il parere contrario espresso sia da Crasso che da Cesare; la circostanza, interpretata come abuso di potere, costò all’Arpinate l’esilio nel 58 a.C. su iniziativa di Publio Clodio Pulcro. Pulcro, esponente del patriziato come Catilina, individuò a sua volta nella strumentalizzazione delle masse popolari il mezzo per la propria affermazione politica. Dalla prestigiosa famiglia Claudia a cui originariamente apparteneva transitò alla plebe attraverso un’adozione, per poter adire al tribunato e disporre così dell’iniziativa legislativa, essenziale ai suoi disegni di trasformazione dello stato. Eletto a tale carica nel 58 a.C., propose numerose leggi filopopolari, tra cui la legge Clodia, che stabiliva la distribuzione gratuita del grano alla plebe urbana, sottraendo il popolo alla dipendenza alimentare dalle clientele, e l’abrogazione di un decreto del senato del 64 a.C. che aveva sciolto tutte le associazioni professionali. I collegia erano corporazioni private, in prevalenza confraternite di mestiere, ma anche associazioni religiose finalizzate a garantire ai soci una degna sepoltura. Esse riunivano membri socialmente subalterni, che Cicerone definiva con disprezzo plebs tabernaria, cioè popolo di bottegai. Durante le guerre civili erano divenute gruppi di pressione politica schierate in larga maggioranza dalla parte dei popolari; per tale motivo erano state sciolte dal senato. La legge di Clodio sancì, invece, la liceità di tali corporazioni e ne determinò la rinascita; tali associazioni armate si misero al servizio di Clodio, che se ne avvalse per condizionare la vita politica. Gli scontri tra gruppi di facinorosi ritardavano, o impedivano, lo svolgimento delle regolari elezioni dei magistrati e la disponibilità di squadre di armati consentiva azioni di intimidazione funzionali al controllo dell’attività legislativa e giudiziaria. Delle contrapposizioni tra bande armate fu vittima lo stesso Clodio, assassinato nel 52 a.C. lungo la via Appia nel corso di tafferugli con le squadre di Milone, sostenitore di Pompeo. Nonostante la difesa di Cicerone, Milone fu condannato. Clodio era forse il braccio armato di Cesare a Roma mentre questi era impegnato nella campagna gallica.

Antagonisti sulla scena I grandi protagonisti della stagione politica negli anni centrali del I secolo a.C. furono Gneo Pompeo, Gaio Giulio Cesare e Marco Licinio Crasso. In un periodo storico in cui l’individualismo prevalevano sulla dimensione collettiva, Pompeo, Cesare e Crasso si avvalsero della loro alleanza per accrescere e consolidare ciascuno il proprio potere personale. Al momento della stipula del I triumvirato, nel 60 a.C., erano forti ognuno di prerogative diverse: Pompeo della brillante fama conseguita attraverso le sue campagne di conquista; Cesare del favore dell’esteso bacino clientelare della parte popolare; Crasso delle enormi fortune economiche, che ne facevano l’uomo più ricco di Roma. Il primo triumvirato, secondo la tradizione si dovette all’acuta visione politica di Cesare, che riuscì a superare l’antica ostilità che divideva i due colleghi. Un accordo privato decideva le sorti della Repubblica, manifesto della radicale trasformazione compiutasi nel I secolo a.C. La carriera illegale di Pompeo Gneo Pompeo era figlio di Gneo Pompeo Strabone, uno dei consoli vittoriosi sugli Italici insorti nella guerra degli alleati. La sua carriera, eccezionale per successi e onori tanto da meritargli il soprannome di Magno, si svolse all’insegna delle violazioni della normativa

repubblicana. Si distinse fin dall’83 a.C., quando Silla era rientrato in Italia e il giovanissimo Pompeo, che non ricopriva alcuna magistratura, pose ai suoi ordini per la guerra contro i Mariani i reparti che aveva arruolato di sua iniziativa presso i clienti paterni nel Piceno. Proprio in seguito alla guerra che condusse vittoriosamente contro i mariani in Africa Pompeo ottenne il suo primo trionfo, nell’81 a.C., su concessione di Silla. Nel 78 a.C. impedì un colpo di stato da parte del console Marco Emilio Lepido, sostenitore pentito delle riforme sillane, agendo anche in tal caso senza disporre di una magistratura ma investito di un comando propretorio, mandato attribuitogli dal senato come potere straordinario, connesso con la missione specifica di opporsi al console. Dal 77 a.C. al 71 a.C. Pompeo esercitò un comando proconsolare in Spagna per la lotta contro il mariano Sertorio, che lo vide infine vincitore e nuovamente trionfatore. Ancora una volta deteneva un potere militare senza aver in precedenza assunto la magistratura corrispondente. Rientrato in Italia, partecipò all’ultima fase della repressione contro Spartaco. Nel 70 a.C. fu eletto finalmente console, ma senza disporre dei requisiti anagrafici e senza aver assunto le cariche da ricoprire prima del consolato. Suo collega era Marco Licinio Crasso, che doveva l’elezione alle sue enormi ricchezze, conseguenti ad attività finanziarie e di speculazione edilizia, nonché agli estesi consensi di cui godeva presso il ceto equestre. .. [Crasso] verificò che [il suo patrimonio] valeva 7100 talenti. La gran parte di queste ricchezze, se si deve dire la verità a rischio d'essere accusati di diffamazione, egli la ottenne dal fuoco e dalla guerra, trasformando le calamità pubbliche nella fonte principale dei propri guadagni. Infatti, quando Silla si impadronì dell'Orbe e mise in vendita i beni di coloro che aveva fatto eliminare, considerandoli e dichiarandoli bottino di guerra e desiderando che i personaggi più influenti si macchiassero della medesima scelleratezza nel maggior numero possibile, Crasso non si stancò né di arraffare né di acquistare. Inoltre, vedendo come fossero calamità congenite e abituali a Roma gli incendi e i crolli degli edifici, si mise ad acquistare schiavi che fossero architetti e muratori. Allorché ne ebbe più di 500, acquistò le case bruciate e adiacenti a quelle bruciate che i proprietari vendevano a basso prezzo per la paura e il dubbio che crollassero da un momento all'altro. Così la maggior parte di Roma entrò in suo possesso (Plutarco, Vita di Crasso, 2,3-5).

Crasso era un sillano e si era distinto prima nella battaglia di Porta Collina e poi nella guerra contro Spartaco. I suoi rapporti con Pompeo, espressione della stessa politica conservatrice, non erano buoni. Nell'orazione pronunciata a difesa della legge del 66 a.C. proposta da Manilio che attribuiva a Pompeo il comando della guerra contro Mitridate re del Ponto Cicerone mette in luce l'eccezionalità della carriera del generale piceno che nel 70 a.C. non avrebbe avuto il diritto di candidarsi alla carica di console: Che c'è di più strano del fatto che, pur essendo disponibili due consoli illustri e valorosi, si inviasse un cavaliere romano a comandare una guerra grande e terribile con il grado di proconsole? [...] Che c'è di più eccezionale del fatto che, esentato in forza di un decreto del senato dalle restrizioni imposte dalle leggi, ottenesse la nomina a console prima che le leggi gli permettessero di assumere qualunque altra magistratura? (Cicerone, Prolege Manilia, 21, 62).

Nel 67 a.C., grazie alla legge Gabinia contro i pirati, proposta dal tribuno della plebe Aulo Gabinio, Pompeo ottenne un comando proconsolare di 3 anni sull’intero bacino mediterraneo e sulle sue coste fino a 50 miglia nell’entroterra. L’incarico era finalizzato alla lotta contro i pirati che, da basi dislocate lungo la costa africana, in Asia Minore e a Creta, infestavano il Mediterraneo pregiudicando i traffici commerciali e provocando nell’Urbe continue carestie per le difficoltà degli approvvigionamenti. I Romani avevano inviato proprie forze contro i pirati; Marco Antonio aveva subìto però una pesante sconfitta presso Creta, altri comandanti avevano ottenuto risultati positivi, per quanto non decisivi. Nemmeno l’istituzione

nel 74 a.C. della provincia di Cirenaica e nel 67 a.C. della provincia di Creta erano valse a risolvere il problema. La legge Gabinia riconobbe a Pompeo la facoltà di reclutare 20 legioni e una flotta di ben 500 navi. L’autorizzò anche a utilizzare i proventi delle province e ad attingere all’erario. Il suo era, quindi, un altro comando militare straordinario, non sottoposto alle norme che disciplinavano la durata, il contenuto e i limiti del potere proconsolare. Data l’ampiezza delle sue prerogative, questo comando non era limitato all’ambito di una sola provincia, ma era «equo», ovvero paritario rispetto a quello dei proconsoli. Fonte 2 – La legge Gabinia Velleio evidenzia il potere eccezionale conferito a Pompeo attraverso tale legge: Due anni dopo, poiché i pirati seminavano il terrore ovunque con azioni di guerra e con vere e proprie flotte, e avevano saccheggiato addirittura alcune città d’Italia, il tribuno Aulo Gabinio propose una legge secondo la quale Pompeo fosse mandato a combatterli, fornito di poteri equivalenti a quelli dei proconsoli di tutte le province in un raggio di 50 miglia dalle coste. Con questo decreto si affidava a un solo uomo il dominio di quasi tutto il mondo (Velleio 2, 31, 2).

Anche Plutarco menziona tale legge: In questo modo la potenza dei pirati si diffuse in tutto il Mar Mediterraneo, tanto che esso divenne impraticabile ai navigatori e precluso a qualsiasi commercio. Fu soprattutto tale situazione a spingere i Romani, indotti dalla mancanza di approwigionamenti e dalla paura di una grande carestia, a inviare Pompeo a liberare il mare dai pirati. Allora Gabinio, uno degli intimi amici di Pompeo, elaborò una proposta di legge che gli conferiva, non dico il comando della flotta, ma addirittura un potere assoluto e universale, sottratto a ogni controllo....


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