teoria generale del diritto PDF

Title teoria generale del diritto
Course Economia
Institution Università degli Studi di Milano
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F. Poggi DISPOSIZIONI E NORME -

CONCETTI DI NORME, DISPOSIZIONI E PROPOSIZIONI TEORIE MONISTE sul DIRITTO TEORIA DI KELSEN sul diritto

1. Il diritto come insieme di norme Secondo un modo di vedere assai diffuso, il diritto è composto anche, esclusivamente o tipicamente da norme. Al riguardo, esistono, però, in letteratura almeno due modi di intendere il termine ‘norma’1: (1) come riferito a significati oppure (2) come riferito a disposizioni, ossia a particolari enunciati. È bene avvertire fin d’ora che la distinzione tra significati ed enunciati è un utile strumento di analisi, ma non deve essere intesa in modo rigido, in quanto tra tali termini intercorrono delle relazioni necessarie, sia empiriche sia concettuali. Da un lato, i significati non possono che essere formulati in enunciati (o, meglio, in enunciazioni); dall’altro, anche se un enunciato può essere insignificante, esso, per definizione, è una formulazione linguistica di forma grammaticalmente compiuta, ossia include almeno un soggetto, un verbo e un complemento oggetto: per accertare la presenza di tali elementi sintattici è, però, indispensabile interpretare l’enunciato, ossia passare dal testo al significato. Ciò premesso, la tesi secondo cui il diritto è composto anche da norme è generica, banale e universalmente accettata: semmai i diversi autori non concordano su cosa sia una norma o su cosa si debba intendere per ‘norma’, da dove derivino o chi produca le norme giuridiche, quali caratteristiche una norma debba possedere per potersi dire ‘giuridica’ e quali altri fenomeni, oltre alle norme, compongano il diritto. La tesi secondo cui il diritto è composto esclusivamente da norme è invece falsa, almeno fino a quando non sia adeguatamente specificata. Sembra, infatti, ovvio che all’interno di quel fenomeno complesso che chiamiamo ‘diritto’ ci sia qualcosa d’altro: quantomeno, azioni umane2. Infine, la tesi secondo cui il diritto è composto tipicamente da norme, ossia la tesi secondo cui una delle caratteristiche peculiari del diritto consiste nel fatto di essere composto da norme, caratterizza un amplissimo novero di autori e di correnti, spesso unitariamente compresi sotto l’etichetta di ‘normativismo’. La tesi normativista risulta generica e incompleta, almeno fino a quando non si precisi che cosa s’intenda per ‘norma’ (disposizioni o significati?), cosa distingua le norme giuridiche da altri tipi di norme e perché l’essere composto da norme sia da assumersi quale caratteristica distintiva del diritto. In questa lezione, esamineremo nel dettaglio tali questioni. Onde evitare ambiguità, in questo testo, il termine ‘norma’ sarà impiegato esclusivamente per far riferimento ai significati, mentre per riferirci agli enunciati impiegheremo il termine ‘disposizione’. In via preliminare, occorre, però, soffermarci più nel dettaglio su tali nozioni. 1.1. Enunciati, disposizioni, norme e proposizioni Per ‘enunciato’, come si è detto, s’intende un’espressione in lingua di forma grammaticalmente compiuta. Per ‘disposizione’ s’intende un enunciato, ossia un’espressione grammaticalmente 1

Cfr. G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Il Mulino, Bologna, 1974, pp. 143ss.; R. Guastini, Distinguendo, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 19ss. e 71ss. 2 Cfr. M. Jori, Linguaggio giuridico, in G. Pino, A. Schiavello, V. Villa, Filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2013, p. 257: «è ovvio che il diritto non è fatto solo di parole; o meglio un diritto fatto solo di parole e dei relativi comportamenti linguistici sarebbe privo di effettività e considerato un diritto estinto».

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compiuta formulata in una data lingua, che sia interpretata o interpretabile come esprimente una norma. Con il termine ‘norma’, come si è anticipato, ci si riferirà a significati, o, meglio, a tipi peculiari di significati: per caratterizzare le norme è utile contrapporle ad un’altra classe di significati, quella costituita dalle proposizioni.

1.1.1. Norme vs. proposizioni Il termine ‘proposizione’, come il termine ‘norma’, designa, o, almeno, è spesso impiegato per designare, un significato: in particolare, con ‘proposizione’ si designa un significato, un contenuto di senso, descrittivo – la proposizione è una “entità” del linguaggio descrittivo – mentre con ‘norma’ si designa un significato, un contenuto di senso, prescrittivo – la norma è una “entità” del linguaggio prescrittivo. Per comprendere questa distinzione, consideriamo la differenza che intercorre tra ‘La porta è chiusa’ (quale risposta ad una domanda del tipo ‘La porta di casa è aperta?) e ‘Chiudi la porta!’ (intesa come diretta nei confronti di qualcuno che è appena entrato in casa, lasciando la porta aperta). Entrambe queste enunciazioni vertono sulla porta e impiegano il verbo chiudere; la prima enunciazione, però, esprime un significato, dice qualcosa di, vero o falso, mentre la seconda, pur avendo un significato, non dice qualcosa di vero o falso. In termini più precisi, sia le norme sia le proposizioni sono significati di enunciati (o, meglio, di enunciazioni) che fanno riferimento al mondo: tuttavia, mentre le proposizioni dicono come le cose effettivamente stanno, cioè forniscono informazioni sul mondo, le norme svolgono la funzione di dirigere, guidare, i comportamenti. La differenza può essere illustrata ricorrendo a un esempio formulato per la prima volta da Elizabeth Anscombe (e poi ripreso da vari autori)3. Un uomo va al supermercato con la lista della spesa, compilata dalla moglie, su cui sono scritti i prodotti che egli deve acquistare: ad esempio, ‘bietole, sale grosso, detersivo per piatti’. Un investigatore privato lo segue col compito di annotare tutti i suoi acquisti. Se l’investigatore svolge correttamente tale incarico, all’uscita del supermercato avrà in mano una lista identica a quella dell’acquirente: anche l’investigatore avrà una lista in cui è scritto ‘bietole, sale grosso, detersivo per piatti’. Le funzioni delle due liste sono però profondamente diverse. Nel caso della lista dell’acquirente, scopo della lista è, per così dire, quello di adattare il mondo alle parole: si suppone che egli compia azioni tali da conformarsi alla lista. Nel caso dell’investigatore, invece, lo scopo della lista è quello di adattare le parole al mondo: si suppone che egli rediga la sua lista in conformità alle azioni dell’acquirente. Se l’investigatore si rende improvvisamente conto che l’acquirente ha comprato spinaci e non bietole può rimediare all’errore semplicemente depennando dalla propria lista la parola ‘bietole’ e sostituendola con ‘spinaci’. Ma se l’acquirente torna a casa e la moglie gli fa notare che ha comprato spinaci invece di bietole, egli non potrà rimediare al suo errore semplicemente depennando dalla propria lista la parola ‘bietole’ e sostituendola con ‘spinaci’. In altri termini: la lista dell’acquirente svolge una funzione normativa, la funzione di guidare i comportamenti dell’acquirente. Si può dire che tale lista possiede una direzione di adattamento che 3

Cfr. G.E.M. Anscombe, Intention, Basil Blackwell, Oxford, 1957, § 32; A. Kenny, Action, Emotion and Will, Routledge & Kegan Paul, London, 1963, p. 217; J. Searle, A Taxonomy of Illocutory Acts, in K. Gunderson (ed.), Language, Mind and Knowledge, Univerty of Minnesota Press, Minneapolis, 1975, pp. 344-369 (trad. it., Per una tassonomia degli atti illocutori, in M. Sbisà (ed.), Gli atti linguistici, Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 168-198); B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica, Giappichelli, Torino, 1994, p. 695-7.

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va dal mondo alle parole: il mondo, i fatti, ossia le azioni dell’acquirente, devono adattarsi alle parole scritte sulla lista. La lista dell’investigatore svolge, invece, una funzione descrittiva, e, pertanto, possiede una direzione di adattamento che va dalle parole al mondo: in questo caso sono le parole che devono adattarsi, devono corrispondere, al mondo. Riassumendo. Le proposizioni sono significati descrittivi, che informano, descrivono il mondo, i fatti, possiedono, per così dire, una direzione di adattamento che va dalle parole al mondo, ossia sono giudicate vere se corrispondono ai fatti, false in caso contrario. Il mondo, la realtà è il criterio con cui si valutano le proposizioni. Le norme, invece, sono significati prescrittivi, dirigono il comportamento, possiedono una direzione di adattamento che va dal mondo alle parole, ossia è il mondo che va giudicato in base al fatto che corrisponda o meno alle norme. Le norme costituiscono uno standard di comportamento in base al quale valutare i fatti, le proposizioni, invece, sono affermazioni il cui standard di valutazione sono i fatti. Norme e proposizioni hanno in comune la capacità referenziale: la capacità, cioè, di far riferimento al mondo, in particolare, nel caso delle norme giuridiche, a comportamenti umani. L’elemento differenziale è, invece, costituito dal diverso rapporto tra ciò che viene detto ed i fatti su cui tale affermazione verte, ossia dalla diversa direzione di adattamento tra parole e mondo. 1.1.2. Norme vs. disposizioni Ricapitolando, le norme sono significati, mentre le disposizioni sono enunciati che sono interpretati o interpretabili come esprimenti norme. È importante distinguere le norme dalle disposizioni che le esprimono per la stessa ragione per cui è importante distinguere i concetti dai termini o sintagmi che li esprimono, ossia perché si danno casi di non corrispondenza biunivoca: casi in cui ad una disposizione non corrisponde una sola norma oppure casi in cui una norma non corrisponde ad una sola disposizione. Ciò accade almeno in due ipotesi. In primo luogo, possono darsi disposizioni ambigue: disposizioni che esprimono disgiuntamente più di una norma. Così, ad esempio, ‘Ieri ho visto una fiera’ è un enunciato ambiguo, in quanto può significare sia ‘Ieri ho visto un animale feroce’ sia ‘Ieri ho visto un’esposizione commerciale’. Anche le disposizioni giuridiche, gli enunciati che fanno parte delle fonti del diritto e che, pertanto, sono interpretati come esprimenti norme giuridiche, possono soffrire di ambiguità. Consideriamo un paio di esempi4. (i) Art. 31 della legge 352/1970: «Non può essere depositata richiesta di referendum [abrogativo ex art. 75 Cost.] nell’anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere»: tale disposizione può significare sia che la richiesta non può essere depositata nell’anno solare anteriore alla scadenza di una Camera (così, ad esempio, se la scadenza è il 30.03.2008, non potrebbe essere depositata oltre il 31.12.2007) sia che la richiesta non può essere depositata nei 365 giorni anteriori alla scadenza di una Camera (e, in tal caso, se la scadenza è il 30.03.2008, non potrebbe essere depositata oltre il 30.03.2007). (ii) Art. 59, II comma, Cost. (già citato nella Premessa): «Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini, ecc.»: come si è detto, tale enunciato può significare che ogni (nuovo) Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini (e, quindi, in ogni legislatura ci potrebbero essere più di cinque senatori a vita di nomina presidenziale) oppure che il Presidente della Repubblica inteso diacronicamente, come organo, può nominare solo cinque senatori a vita (e, quindi, in ogni legislatura non ci potrebbero essere più di cinque senatori a vita di nomina presidenziale).

In secondo luogo, possono darsi enunciati sinonimi: enunciati che esprimono la stessa norma. Così, ad esempio, sono sinonimi i tre seguenti enunciati: ‘Tutti gli studenti nati nel comune di Milano devono alzarsi in piedi’; ‘Tutti gli studenti che non sono nati al di fuori del comune di Milano devono alzarsi in piedi’; ‘A tutti gli studenti nati 4

I due esempi seguenti sono tratti da R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Giuffrè, Milano, 1998.

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nel comune di Milano è vietato non alzarsi in piedi’. Nel diritto possono darsi casi di sinonimia o, almeno di sinonimia parziale. Tale è, ad esempio, la relazione che pare intercorrere tra l’art. 25, II comma, Cost. («Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso») e l’art. 1 c.p. («Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite»). Analogamente, l’art. 8 della legge n. 62/1953 («La regione esercita la potestà legislativa sulle materie e nei limiti stabiliti dalla Costituzione e secondo le norme del proprio Statuto») sembra sinonimo di una serie di disposizioni costituzionali. O, ancora, la norma secondo cui gli atti governativi che hanno valore o forza di legge devono essere controfirmati dal Presidente del Consiglio è espressa sia dall’art. 89, II comma, Cost. («Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri»), sia dall’art. 5, I comma, lett. d, della legge n. 400/1988 («[Il Presidente del Consiglio dei Ministri a nome del Governo] controfirma gli atti di promulgazione delle leggi nonché ogni atto per il quale è intervenuta deliberazione del Consiglio dei Ministri, gli atti che hanno valore o forza di legge e, insieme con il Ministro proponente, gli altri atti indicati dalla legge»)5. Ebbene, nell’analisi del concetto di diritto oggettivo, un primo importante problema riguarda la questione se sia preferibile considerare il diritto (essenzialmente, principalmente) come un insieme di norme o, invece, come un insieme di disposizioni o, meglio, di disposizioni canoniche6. Per ‘disposizioni canoniche’ o ‘disposizioni in forma canonica’ s’intendono gli enunciati fissi, gli enunciati che hanno una formulazione linguistica autoritativamente fissata da certi organi mediante certe procedure (ossia le disposizioni formalmente valide: cfr. CAPITOLO TERZO, §2.2). Ovviamente, la tesi secondo cui il diritto è composto solo da disposizioni canoniche è falsa non solo perché, come si è detto, il diritto consta sempre anche di comportamenti non linguistici, ma anche per l’esistenza di norme consuetudinarie. Tali norme svolgevano un ruolo predominante negli ordinamenti giuridici antichi e anche oggi la maggior parte degli ordinamenti giuridici moderni contempla la consuetudine (almeno quella secundum legem) tra le fonti del diritto. Le norme consuetudinarie possono essere – e spesso sono – trascritte in disposizioni, in enunciati, ma si tratta di disposizioni non canoniche, che, come si suol dire, costituiscono fonti di cognizione e non di produzione del diritto: eppure non v’è dubbio che le norme consuetudinarie siano norme giuridiche. La questione, pertanto, è piuttosto quella di stabilire se sia preferibile considerare il diritto come composto – oltre che da comportamenti e altri fatti linguistici – solo da disposizioni canoniche e da norme (consuetudinarie)7 o se, invece, sia preferibile rappresentare il diritto come un insieme di significati (eventualmente, ma non necessariamente, 5

Gli ultimi due esempi sono tratti R. Guastini, Il diritto come linguaggio, Giappichelli, Torino, 2006, pp. 3031. La sinonimia è generalmente considerata un difetto dei testi normativi: ciò ha dato luogo ad una presunzione di economicità della legge, in forza della quale si ritiene che il legislatore eviti ripetizioni e che pertanto, ove possibile, occorra evitare di interpretare due o più disposizioni giuridiche come esprimenti la stessa norma (c.d. argomento economico). 6 Sul concetto di disposizione in forma canonica o ‘norme in forma linguistica standard’ cfr. M. Jori, Il formalismo giuridico, Giuffrè, Milano, 1980, passim.

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espressi da disposizioni canoniche). Non si tratta di una questione oziosa: come vedremo meglio nelle prossime lezioni, tale problema riveste una notevole importanza per quel che riguarda sia il concetto di validità sia l’individuazione dei soggetti che producono il diritto. Così, ad esempio, se si ammette congiuntamente che il diritto sia un insieme di norme, che, come pare ovvio, possono esservi disposizioni canoniche ambigue e che non esiste un criterio oggettivo per scegliere tra i diversi significati alternativamente espressi da una disposizione, allora deve ammettersi che i giudici (anche i giudici) creino, e non possano che creare, diritto: ossia, la giurisprudenza deve includersi tra le fonti del diritto di tutti gli ordinamenti, anche di quelli di civil law. 2. Il concetto di norma giuridica Mettendo momentaneamente da parte il problema di stabilire se sia più opportuno configurare il diritto come composto solo da norme oppure da disposizioni canoniche e da norme consuetudinarie, chiediamoci ora che cosa lo distingua da altri fenomeni normativi: che cosa differenzia il diritto dalla morale, dalla religione e dalle regole dell’etichetta? Alcuni autori hanno individuato la risposta a tale quesito a livello delle singole norme: hanno sostenuto, cioè, che il diritto si distingua da altri fenomeni normativi per il fatto di essere composto da norme di un certo tipo o da disposizioni che esprimono norme di un certo tipo, con certe peculiari caratteristiche. Questi autori, insomma, hanno avanzato una teoria monista delle norme e/o delle disposizioni giuridiche: hanno sostenuto o che tutte le disposizioni giuridiche sono tali per il fatto di esprimere norme di un certo tipo, con una data struttura e/o un dato contenuto, o che tutte le norme giuridiche sono tali in quanto presentano una data struttura e/o un dato contenuto. 2.1. Le teorie moniste: alcuni esempi Generalmente si cita come esempio tipico di teoria monista la c.d. teoria imperativista del diritto sostenuta da Jeremy Bentham (1748–1832) e John Austin (1790–1859). Al riguardo, come abbiamo visto (CAPITOLO PRIMO, §§2.1ss.), Bentham sostiene, in effetti, che le norme giuridiche siano comandi (ossia espressioni di volontà o desiderio), provenienti da un sovrano (ossia da colui o da coloro che sono abitualmente obbediti e che non obbediscono abitualmente a nessuno) e rette dalla minaccia di una sanzione8: tuttavia l’imperativismo (e, di conseguenza, il monismo) 7

Oltre alle norme consuetudinarie, costituiscono esempi di norme prive di disposizioni in forma canonica anche i precedenti giurisprudenziali e le norme implicite costruite dagli interpreti, dalla giurisprudenza o dalla dogmatica, mediante ragionamenti a partire da una o più norme espresse. 8

Cfr. J. Bentham, Of the limits of the penal branch of jurisprudence, cit., pp. 24-5.

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di Bentham è senza dubbio moderato, dal momento che egli ammette anche l’esistenza di norme permissive, sopravvenute o originarie, e di poteri. Più radicale è, invece, la posizione di Austin9, il quale definisce il diritto positivo come l’insieme delle leggi (laws) o delle regole, poste da uomini che sono i superiori politici di una nazione, o società politica, indipendente10 e precisa che le leggi (laws) in questione sono imperativi, ossia regole poste «per la guida di un essere intelligente da parte di un [altro] essere intelligente, che ha potere su di lui» 11, le quali appartengono al genere dei comandi, ossia costituiscono manifestazioni espresse o tacite del desiderio che qualcuno si comporti in un certo modo accompagnate dal potere e dall’intenzione di infliggere un male nel caso in cui tale desiderio sia disatteso 12. Peraltro anche Austin ammette l’esistenza di norme non imperative, che svolgono una funzione accessoria rispetto a queste e che sono costituite da leggi interpretative (le c.d. leggi di interpretazione autentica), leggi imperfette perché prive di sanzioni (e, pertanto, equiparabili a consigli o raccomandazioni) e leggi abrogatrici (che costituiscono delle revoche di comandi preesistenti). Un’altra nota teoria monista è quella sostenuta da Hans Kelsen. Come abbiamo visto (cfr. CAPITOLO PRIMO, §2.5.1), secondo Kelsen tutte le norme giuridiche sono riconducibili alla forma ‘Se I, allora deve essere S’ (che egli denomina ‘norma giuridica primaria’), dove ‘I’ sta per ‘Illecito’, ossia per un comportamento umano cui il diritto connette una sanzione, e ‘S’ sta, appunto, per una data sanzione (reclusione, arresto, multa, ammenda, esecuzione forzata, ecc.), ossia per la privazione di un bene (dove per ‘bene’ s’...


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