Testi Epica (Omero) PDF

Title Testi Epica (Omero)
Author Nicola Vasallucci
Course Cultura Letteraria Della Grecia Antica 
Institution Università degli Studi di Bari Aldo Moro
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testi omero ...


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POESIA EPICA • OMERO

Fig. 1 La battaglia contro i Cìconi Da Friedrich Preller (1804-1878), Odyssee-Landschaften. Postkarten in Vierfarben-Druck

Fig. 2 Odìsseo porta via i compagni dalla terra dei Lotòfagi Stampa da un libro francese del XVIII secolo

Fig. 3 Pellegrino Pellegrini, detto il Tibaldi (1527-1596) Storie di Ulisse: Eolo dona a Odìsseo l’otre dei venti (1549-51) Sala di Ulisse, Palazzo Poggi (Bologna)

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Fig. 4 L’attacco dei Lestrìgoni alle navi di Odìsseo Affresco dalla Casa di via Graziosa sull’Esquilino (Roma), I sec. a.C. Biblioteca Apostolica Vaticana (Città del Vaticano)

Fig. 5 Odìsseo, seduto tra Eurìloco e Periméde, evoca l’ombra di Tirésia Cratere a calice a figure rosse (ca. 380 a.C.) Cabinet des Médailles, Bibliothèque Nationale de France (Parigi)

Fig. 6 Jan Styka (1858-1925), Scilla divora sei compagni di Odìsseo Illustrazione del volume dell’Odissea tradotta da Eugène Bareste (1922-27)

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Fig. 7 Pellegrino Pellegrini, detto il Tibaldi (1527-1596) Storie di Ulisse: l’uccisione delle vacche del Sole (1549-51) Stanza di Ulisse, Palazzo Poggi (Bologna)

Fig. 8 Acquaforte ispirata a un dipinto di Johann Heinrich Füssli (1741-1825) Odisseo tra Scilla e Cariddi (prima metà dell’Ottocento) British Museum (Londra)

Fig. 9 Jan Bruegel il Vecchio (1568-1625), Grotta fantastica con Odìsseo e Calipso (ca. 1616) Johnny van Haeften Gallery (Londra)

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Fig. 10 Euricléa lava i piedi a Odìsseo Skýphos a figure rosse (ca. 440 a.C.) Museo Nazionale Etrusco (Chiusi)

Fig. 11 Francesco Primaticcio (1504-1570) Ulisse a Itaca. La prova dell’arco (1563) Musée National du Chateau (Fontainebleau)

Fig. 12 Odìsseo, con l’aiuto di Telemaco ed Euméo, uccide i Pretendenti Cratere a campana a figure rosse (ca. 330 a.C.) Museo del Louvre (Parigi)

Fig. 13 Marc Chagall (1887-1985), La pace ritrovata [da: L’Odyssée d’Homère illustrée par Marc Chagall] (1974) Musée National «Marc Chagall» (Nizza)

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Fig. 14 François Hédelin, abate d’Aubignac (1604-1676)

Fig. 15 Giambattista Vico (1668-1744)

Fig. 16 Robert Wood (1717-1771)

Fig. 17 Friedrich August Wolf (1759-1824)

Fig. 18 Gottfried Hermann (1772-1848)

Fig. 19 Karl Lachmann (1793-1851)

Fig. 20 Adolph Kirchhoff (1826-1908)

Fig. 21 Ulrich F. von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931)

Fig. 22 Wolfgang Schadewaldt (1900-1974)

Fig. 23 Milman Parry (1902-1935)

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1. Gli aedi (a) Femio [Odissea, 1.325-352] In mezzo a loro [i pretendenti (Proci) riuniti a banchetto nella reggia di Odìsseo] cantava l’aedo famoso, ed essi sedevano e ascoltavano in silenzio. Cantava il ritorno dei Dànai, il triste ritorno da Troia che a loro inflisse Pallade Atena. Dalle sue stanze udì quel canto divino la figlia di Icario, la saggia Penelope. Discese la lunga scala; non era sola, andavano con lei due ancelle. Quando giunse fra i Proci, la donna bellissima, si fermò accanto a un pilastro che sosteneva il solido tetto e si coprì, con il velo luminoso, le guance. A fianco le stavano, da una parte e dall’altra, le fedeli ancelle. E al divino cantore ella disse, piangendo: «Femio, molti altri canti conosci, che ammaliano gli uomini: imprese di dèi, gesta di eroi, quelle che celebrano tutti gli aedi. A loro canta una di queste, ed essi bevano il vino, in silenzio. Ma questo tristissimo canto interrompi, che sempre mi strazia il cuore nel petto. Dolore tremendo, insopportabile è in me, che un grande uomo rimpiango e senza tregua ricordo, un eroe la cui fama di gloria riempie l’Ellade intera e giunge al cuore di Argo». Le disse allora il saggio Telemaco: «Perché, madre mia, non vuoi che l’aedo fedele canti come gli detta il cuore? Non hanno colpa gli aedi, è Zeus che agli uomini distribuisce le sorti, come vuole, a ciascuno. Non bisogna adirarsi con lui se canta il crudele destino dei Dànai: gli uomini amano di più quel canto che al loro orecchio suona più nuovo». (b) Demòdoco canta la contesa tra Achille e Odìsseo [Odissea, 8.62-92] Venne l’araldo [presso la sala del banchetto, nella reggia di Alcìnoo], guidando il valente cantore. Molto la Musa lo amò, e gli diede il bene e il male: gli tolse gli occhi, ma il dolce canto gli diede. Per lui Pontònoo pose un trono con le borchie d’argento al centro dei convitati, appoggiato a un’alta colonna: l’araldo appese a un chiodo la cetra sonora, lì sul suo capo, e gli mostrò come prenderla con le mani; vicino poneva un canestro e una tavola bella; vicino, una coppa di vino per bere quando volesse. Ed essi sui cibi pronti, imbanditi, le mani tendevano. Poi, quando ebbero scacciata la voglia di bere e di cibo, la Musa indusse l’aedo a cantare le glorie degli uomini, da un tema la cui fama allora arrivava al vasto cielo, la lite di Odìsseo e del Pelìde Achille, come una volta contesero in un lauto banchetto di dèi con parole violente […]. Questi fatti il cantore famoso cantava, e Odìsseo, con le forti mani afferrato il gran manto purpureo, se lo tirò sulla testa, nascose i bei tratti del viso: si vergognava di spargere lacrime dalle ciglia davanti ai Feaci. Quando il cantore divino smetteva il suo canto, toglieva il mantello dal capo, dopo essersi asciugate le lacrime, e alzata la coppa a due anse libava agli dèi; quando cominciava di nuovo e i nobili Feaci l’incitavano al canto (poiché gioivano ai suoi racconti), Odìsseo singhiozzava di nuovo, dopo essersi coperta la testa.

Fig. 24 Francesco Hayez (1791-1882) Odìsseo nella casa di Alcìnoo (1813) Galleria Nazionale di Capodimonte (Napoli)

(c) Demòdoco canta la vicenda del cavallo di Troia [Odissea, 8.471-499] Venne l’araldo [presso la sala del banchetto, nella reggia di Alcìnoo], guidando il valente cantore Demòdoco, stimato da tutti, e lo fece sedere in mezzo ai banchettanti, appoggiato a una colonna. […] Quando ebbero scacciata la voglia di bere e di cibo, allora l’astuto Odìsseo parlò a Demòdoco: «Demòdoco, io ti apprezzo al di sopra di tutti gli uomini: ti ha istruito la Musa figlia di Zeus, oppure Apollo. Hai cantato bene il destino dei Greci, cosa fecero, cosa patirono e quanto soffrirono, come l’avessi visto in persona, 6

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o sentito da un altro. Ma su, ora cambia, e canta del cavallo di legno che costruì Epèo con l’aiuto di Atena, l’inganno che introdusse in città il nobile Odìsseo, dopo averlo riempito degli uomini che devastarono Troia. Se canterai bene anche di questo, senz’altro voglio dire a tutti quanti gli uomini che un dio benigno ti ha concesso il canto divino». Disse, e Demòdoco, spinto dal dio, cominciò a cantare.

Fig. 25 Giorgio De Chirico (1888-1978) Le Muse inquietanti (1917) Collezione privata

2. I proemi omerici e l’invocazione alla Musa (a) L’inizio dell’ Iliade [Iliade, 1.1-7] Canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Pèleo, rovinosa, che mali infiniti provocò agli achei e molte anime forti di eroi sprofondò nell’Ade, e i loro corpi fece preda dei cani e di tutti gli uccelli, si compiva il volere di Zeus, dal primo istante in cui una lite divise l’Atrìde [Agamennone], signore di popoli, ed Achille divino. (b) L’inizio dell’Odissea [Odissea, 1.1-10] Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, molti dolori patì sul mare nell’animo suo, per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni. Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo: con la loro empietà si perdettero, stolti, che mangiarono i buoi del Sole Iperìone: ad essi egli tolse il dì del ritorno. Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.

3. Modelli di comportamento: l’eroe Ettore [Iliade, 22.92-130] Ettore aspettava il gigantesco Achille che si faceva sempre più vicino. Come un serpente sui monti, appostato presso la tana, aspetta l’uomo; gonfio di veleni e in preda a una furia tremenda, avvolge le sue spire sopra la tana, lanciando sguardi terribili; così Ettore, pieno di inestinguibile ardore, non arretrava di un passo, lo scudo luminoso appoggiato a una sporgenza del muro. Con l’animo turbato diceva però a se stesso, al suo cuore generoso: «Ahimè, se passo le porte e rientro tra le mura, Polidamante mi coprirà di ingiurie per primo, lui che mi consigliava di guidare i Troiani verso la città quella notte, la notte di sventura in cui è riapparso il divino Achille. Ma io non l’ho ascoltato; eppure sarebbe stato meglio. Ora che, per la mia follia, ho condotto l’esercito alla rovina, provo vergogna davanti ai Troiani e alle Troiane dalle lunghe vesti; temo che un giorno qualcuno, inferiore a me, possa dire: “Ettore si è fidato della sua forza e ha rovinato il suo popolo”. Questo diranno. E allora è molto meglio per me affrontare Achille e ritornare dopo averlo ucciso, o essere ucciso da lui, ma con gloria, davanti alla mia città. E se invece depongo lo scudo convesso e l’elmo pesante, se appoggio al muro la lancia e vado incontro al nobile Achille, se gli prometto di restituire agli Atrìdi Elena – che se la riportino indietro – e con lei tutti i tesori, tutti quelli che Alessandro [Paride] portò a Troia sulle concave navi (e fu l’inizio della contesa), se prometto di far parte agli Achei di tutto ciò che possiede questa città, facendo giurare agli anziani di Troia di non nascondere nulla, ma di dividere tutti i beni che la nostra bella città racchiude fra le sue mura… Ma che cosa mi suggerisce il mio animo? Se gli vado incontro, non avrà certo pietà di me, né rispetto, e se depongo le armi mi ucciderà così, nudo e inerme come una donna. No, non è il momento di parlare del più e del meno come fanno i giovani con le fanciulle e le fanciulle con i giovani nei loro colloqui d’amore. Meglio lo scontro, subito; vedremo a chi dei due il re dell’Olimpo vorrà dare la gloria». 7

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4. L’antieroe Tersìte (a) Il Tersìte omerico [Iliade, 2.210-270] Solo Tersìte vociava ancora smodato, lui che molte parole sapeva in cuore, ma a caso, vane, non ordinate, per sparlare dei re […]. Era l’uomo più brutto che venne sotto Ilio. Era camuso e zoppo a un piede, le spalle erano storte, curve e rientranti sul petto; il cranio aguzzo in cima e il pelo vi fioriva rado. Era odiosissimo, soprattutto ad Achille e a Odìsseo, poiché di loro sparlava sempre; ma allora contro il glorioso Agamennone diceva ingiurie, vociando stridulo; certo gli Achei con lui l’avevano terribilmente, l’odiavano, ma dentro il cuore; quello però, gridando forte, accusava Agamennone: «Atrìde, di che ti lamenti, che cosa ti manca? Hai piene di bronzo le tende, e nelle tende ci sono donne scelte, che noi Achei ti diamo per primo, quando prendiamo una città. Forse ti manca ancora l’oro che ti porta da Troia qualcuno dei Troiani, abili nel domare i cavalli, per il riscatto del figlio che io – o qualcun altro degli Achei – ho preso e legato, o una giovane donna per farci l’amore e godertela solo, in disparte? Ma non è giusto che il capo porti alla rovina i figli degli Achei. Vergogna a voi, Achee e non Achei, torniamo a casa sulle nostre navi e lasciamo costui a Troia, a digerirsi i suoi doni, che veda se noi gli siamo d’aiuto oppure no; lui che anche adesso ha offeso Achille, un guerriero molto migliore di lui, gli ha tolto il suo dono e se lo tiene. Ma Achille è conciliante, non ha rabbia nel cuore; altrimenti, Atrìde, per l’ultima volta l’avresti offeso» […]. A lui si avvicinò rapido il glorioso Odìsseo, guardandolo bieco lo investì con dure parole […] e con lo scettro gli percosse il petto e le spalle; quello si contorse, gli cadde una grossa lacrima, un gonfiore sanguinolento si sollevò sul dorso sotto lo scettro d’oro; sedette e sbigottì dolorante, con aria stupida si asciugò la lacrima: gli altri scoppiarono a ridere di cuore di lui, benché afflitti. (b) Il Tersìte shakespeariano [W. Shakespeare, The Tragedy of Troilus and Cressida (1601), atto II, scena I] (entrano Aiace e Tersite, incontrandosi) AIACE: Tersìte! TERSÌTE (tra sé, non badando ad Aiace): Ma Agamennone, e se avesse una foruncolosi, se fosse pieno di pustole! AIACE: Tersìte! TERSÌTE (tra sé, non badando ad Aiace): E se dalle pustole scorresse il pus? Dimmi un po’: non sarebbe un generale che cola? Non sarebbe un grumo di marcio? AIACE: Cane! TERSÌTE (tra sé, non badando ad Aiace): Finalmente qualcosa la manderebbe fuori, mentre ora non ne vedo uscire nulla. AIACE: Figlio di cagna bastarda, sei sordo? E allora senti questo. (lo picchia) TERSÌTE: Ti pigli la peste, bastardo, testa di lardo! AIACE: Parla, lievito ammuffito, parla! Ti faccio diventare bello a forza di botte! TERSÌTE: Faccio prima io a darti un po’ d’intelligenza e di grazia a furia d’insulti; ma credo che farebbe prima il tuo cavallo a imparare a mente una preghiera che tu a pregare senza libro in mano. Le botte le sai dare, vero? Venga la peste ai tuoi scherzi da ronzino!

Fig. 26 Henry Courtney Selous (1803-1890) Illustrazione a W. Shakespeare, The Tragedy of Troilus and Cressida (atto II, scena I) [1601]

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5. Il codice eroico [Iliade, 12.310-328] [Sarpédone, re dei Lici e alleato dei Troiani, si rivolge a Glauco, uno dei capi lici] Perché, Glauco, in Licia ci riveriscono dandoci il posto d’onore, carne e coppe ripiene, e tutti ci considerano come dèi, e abbiamo una grande e bella proprietà sulle rive del fiume Xanto, un terreno coltivato a grano e ad alberi da frutto? Per questo, perché siamo i primi tra i Lici, oggi dobbiamo resistere e affrontare la battaglia ardente, perché i Lici dalle forti corazze possano dire: «Non sono privi di gloria i nostri re che governano la Licia e mangiano grasse pecore e bevono vino scelto, dolce, ma hanno grande forza, perché si battono in prima fila tra i Lici». Amico mio, se noi, fuggendo da questa battaglia, potessimo vivere eterni, immuni da morte e vecchiaia, di certo io non combatterei in prima fila, né ti spingerei alla battaglia gloriosa; ma attorno a noi stanno sempre in gran numero i destini di morte, che noi mortali non possiamo evitare. Andiamo, dunque: o noi daremo gloria al nemico, o lui a noi.

6. Achille (a) La sottrazione del dono [Iliade, 1.148-171] Achille dai piedi veloci guardò con odio Agamennone e gli disse: «Uomo impudente e avido di guadagno, quale mai degli Achei sarà pronto a obbedirti, a seguirti nelle marce o nelle aspre battaglie? Non sono venuto qui a combattere a causa dei Teucri, a me nulla hanno fatto; non mi hanno rubato né buoi né cavalli, non mi hanno distrutto il raccolto nella fertile Ftia [capitale della Ftiotide, dove Achille regnava], terra di eroi: monti pieni d’ombra sono fra noi, e il mare dai molti echi. Te abbiamo seguito, uomo senza vergogna, per tua soddisfazione, per l’onore di Menelao e per il tuo onore, bastardo, nei confronti dei Teucri. Non pensi a questo, non te ne curi; e minacci di togliermi il dono [Briseide], quello per cui tanto ho penato, quello che mi hanno donato i figli dei Dànai. Mai io ricevo un premio eguale al tuo, quando gli Achei distruggono una popolosa città dei Troiani; eppure sono le mie braccia a reggere il peso maggiore della guerra violenta; ma quando è il momento di spartire il bottino, a te tocca il dono più grande mentre io torno alle navi con il mio, piccolo e caro, dopo la fatica della battaglia. Ora però me ne vado a Ftia, perché è molto meglio tornare a casa sulle concave navi piuttosto che rimanere qui senza onore a raccogliere tesori e ricchezze per te». (b) Il rifiuto dei doni ‘riparatori’ [Iliade, 9.378-426] Odiosi mi sono i suoi [di Agamennone] doni, e lui calcolo niente. Neanche se mi donasse dieci e venti volte di più di quanto ora possiede, o se altre ricchezze da qualche altra parte gli venissero […], se mi desse tanto quant’è la sabbia o la polvere, neanche così Agamennone potrebbe persuadere il mio cuore. Non sposerò la figlia di Agamennone figlio di Àtreo […]. Ci sono tante donne achee a Ftia […]. Molto, molto mi spinge il mio nobile cuore, quando avrò sposato una donna che sia degna di me, a godermi là i beni conquistati dal vecchio Péleo. Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di Ilio fiorente possedeva prima, in tempo di pace, prima che giungessero i figli dei Dànai; non le ricchezze che, dietro la soglia di pietra, racchiude il tempio di Apollo signore dei dardi, a Pito [Delfi] rocciosa; si possono rubare buoi e pecore pingui, si possono acquistare trìpodi e cavalli dalle fulve criniere; ma la vita dell’uomo non ritorna indietro, non si può rapire o riprendere, quando ha passato la barriera dei denti. Mia madre, Teti dai piedi d’argento, mi parla di due destini che mi conducono a morte: se resto qui a battermi intorno alle mura di Troia, non farò più ritorno ma eterna sarà la mia gloria; se invece torno a casa, nella patria terra, per me non vi sarà gloria, ma avrò lunga vita, non mi raggiungerà presto il destino di morte. Ed anche a tutti gli altri io vorrei dire: prendete il mare, tornate a casa: mai vedrete la fine dell’alta città di Ilio, su di essa Zeus dalla voce tonante ha steso la mano, i guerrieri hanno ripreso coraggio. Ora voi ritornate e riferite ai principi achei il mio messaggio – è compito, questo, dei capi – affinché meditino un altro piano, un piano migliore, per salvare le navi e con le navi tutto l’esercito acheo; a nulla serve quello cui hanno pensato mentre io persistevo nell’ira. (c) L’uccisione di Licàone [Iliade, 21.49-127] Il divino Achille dai piedi veloci vide Licàone, inerme: non aveva elmo né scudo, non aveva lancia, tutto aveva gettato per terra, e nella fuga dal fiume lo spossava il sudore, la fatica gli piegava i ginocchi […]. E Licàone gli andò vicino, spaurito, per abbracciare le sue ginocchia, desiderava in cuor suo sfuggire la morte crudele e il nero destino. Per colpirlo Achille glorioso sollevò la lunga lancia, ma Licàone curvo corse di sotto e gli afferrò le ginocchia; l’arma, passando oltre il dorso, si conficcò per terra avida di carne umana. E Licàone con una mano stringeva le ginocchia di Achille, con l’altra teneva la lancia aguzza 9

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e non la lasciava; e gli rivolse la parola e gli disse: «Ti scongiuro, Achille, abbi pietà; per te sono un supplice, eroe divino, abbi rispetto; […] il destino fatale mi ha messo di nuovo nelle tue mani: certo mi odia Zeus che a te mi riconsegna; e a vita breve mi ha generato mia madre [Laòtoe], […] perché non credo che sfuggirò alle tue mani se un dio mi ci ha spinto. Ma ti dirò una cosa, e tu imprimila nel tuo cuore: io non sono fratello carnale di Ettore che ha ucciso il tuo amico forte e generoso [Patroclo]: risparmiami dunque». Così parlò, supplicando, lo splendido figlio di Priamo, ma udì un’amara risposta: «Sciagurato, non parlare a me di riscatto; prima che Patroclo giungesse al giorno fatale, allora mi era caro risparmiare Troiani e molti, vivi, li ho presi e venduti; ma ora non c’è nessuno che possa sfuggire alla morte se davanti a Ilio un dio lo getta nelle mie mani, nessuno dei Teucri e soprattutto dei figli di Priamo. Muori anche tu, mio caro. E perché piangi? È morto Patroclo che era migliore di te. E vedi me, come sono forte e bello? E ho un nobile padre, e per madre una dea; eppure la morte e il destino implacabile mi sono vicini: all’alba, al tramonto nel cuore del giorno, qualcuno in battaglia mi toglierà la vita, con un colpo di lancia o con una freccia scoccata dall’arco». Disse così, e a lui vennero meno le ginocchia e il cuore; lasciò andare la lancia e si accasciò tendendo le mani; Achille sguainò la spada affilata e lo colpì alla clavicola, vicino al collo, tutta dentro si immerse l’arma a doppio taglio; sulla terra, bocconi, egli giacque disteso, scorreva il sangue nero e bagnava la terra. Achille lo afferrò per un piede e lo scagliò nel fiume, e si vantò su di lui con queste parole: «Giaci là, in mezzo ai pesci che, noncuranti, ti leccheranno il sangue dalla ferita....


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