Dadaismo E Fotografia PDF

Title Dadaismo E Fotografia
Course Storia della fotografia
Institution Università di Bologna
Pages 10
File Size 728.5 KB
File Type PDF
Total Downloads 59
Total Views 138

Summary

Relazione tra fotografia e dadaismo per esame online di Marra...


Description

DADAISMO E FOTOGRAFIA “Dada non significa nulla. (…) L’opera d’arte non deve rappresentare la bellezza che è morta. Un’opera d’arte on è mai bella per decreto legge, obbiettivamente, all’unanimità. Dada da un bisogno di indipendenza. Il pittore nuovo crea un mondo i cui elementi sono i suoi stessi mezzi, l’artista nuovo si ribella: non dipinge più ma crea direttamente con la pietra, il ferro, lo stagno, macigni, organismi secondo il vento limpido della sensazione del momento” Tristan Tzara, 1916 Cravan (poeta ottocentesco) sviluppa un confronto tra la poetica generale del fotografico e la poetica complessiva del Dadaismo: a) La fotografia è estranea al sistema tradizionale delle Belle arti ->ma questo non preclude la sua partecipazione con modalità differenti da quelle dell’arte tradizionalmente intesa. b) La fotografia non è uno sviluppo della pittura ma anzi a essa si contrappone in modo assai netto -> nella visione dadaista la competizione tra i due mezzi non si pone (“ Il pubblico moderno e la fotografia”, Baudelaire, 1859) perché la fotografia, nonostante le apparenti somiglianze di ordine materiale non ha concettualmente nulla a che spartire con il quadro, sta dalla parte della vita e dell’estetico, nello stesso modo in cui la pittura sta da quella di una pratica canonica dell’artistico. c) La fotografia riesce ad interpretare perfettamente, nel visivo, quella tipica ansia dadaista tesa a sostituire l’arte con la vita o, se si preferisce, a renderla vita stessa -> Ready-made d) La fotografia come sistema globale, sotto certi aspetti, è già implicitamente dadaista. Nelle posizioni più radicali del movimento troviamo sicuramente Duchamp e Picabia che hanno posto entrambi la macchina e la sua filosofia al centro dei propri interessi di ricerca, in realtà questo processo era già stato avviato dall’avanguardia cubo-futurista che dalla macchina aveva sostanzialmente ricavato una sorta di simbolico principio plasmante che, trasposto formalmente nell’opera, li guidava in una metaforica ricostruzione plastica del reale. Diversamente la “macchinicità” assunta da Duchamp e Picabia, più che coinvolgere il piano linguistico formale dell’opera, finiva per condizionare il loro stesso atteggiamento operativo, facendogli assumere uno sguardo diretto e oggettivo come quello della macchina. Es. “Macinino da caffè”, Duchamp, 1912 - Stile freddo e impersonale - Stilemi del disegno tecnico - Rinuncia ad ogni creatività - Sguardo oggettivo e meccanico

Picabia (1915-1917)

Queste opere sono un esempio di autorialità meccanizzata e potrebbero benissimo essere definite fotografie non tanto perché realistiche e mimetiche, quanto perché senza far vedere la mano, impersonali e oggettive come solo una macchina fotografica potrebbe fare. Se fino a quel momento era stata la fotografia ad inseguire la pittura, ora sembra accadere il contrario. In realtà nessuno insegue nessuno, ma piuttosto si assiste alla modificazione dell’idea generale di arte che permette poi di rivedere il giudizio nei confronti dei singoli linguaggi. La ricerca artistica diventa ancora più interessante quando si arriva a considerare la straordinaria invenzione del “ready –made” elaborata da Duchamp a partire dal 1913 : questi lavori costituiscono ancora oggi la più devastante messa in discussione dello statuto artistico del ‘900. A tal proposito il critico francese Jean Clair, nel confronto tra dadaismo e fotografia, dichiarò: “i ready-made hanno eliminato la mano dal processo artistico. Essi non sono fatti, sono scelti. Ed è in questo certamente, che a un primo livello d’analisi essi si avvicinano alla fotografia” L’intuizione geniale quindi sta nell’aver capito che il confronto non fosse da porre con la pittura ma, paradossalmente, con la tipologia di opere comparse sulla scena artistica proprio in opposizione alla pittura. Tre sono i punti qualificanti della rivoluzione innescata dal ready-made: 1) Superamento della manualità come verifica-controllo dell’artisticità 2) Esibizione diretta della realtà prescindendo da qualsiasi manipolazione materiale dell’autore 3) Convinzione che sia l’atto mentale della scelta a fondare il principio dell’artisticità Il punto 1 e 2 costituiscono l’esatto ribaltamento in positivo dei due maggiori rilievi critici avanzati da Baudelaire, contro il riconoscimento artistico della fotografia, nel testo “Il pubblico moderno e la fotografia” del 1859 che erano i seguenti: - La fotografia non è arte perché troppo realista - La fotografia non è arte perché non richiede una particolare abilità di realizzazione - La fotografia non è arte perché troppo contaminata con l’industria e cioè con la dimensione commerciale-mercantile della vita. Una ruota di bicicletta non può essere arte perché è una ruota vera e non ricostruita (es. scolpita), non può essere arte perché l’artista, o sedicente tale, non ha fatto niente e perché è un prodotto commerciale. In definitiva quindi possiamo concludere dicendo che fotografia e ready-made, pur non assomigliandosi da un punto di vista materiale, di fatto propongono un’artisticità fondata su criteri analoghi: la fotografia sembra un quadro ma funziona come un ready-made. Jean Clair ha notato come la risemantizzazione dell’oggetto comune che si produce nell’esposizione museale (ready-made) trovi una precisa corrispondenza nel processo tecnico che sta alla base della fotografia, cioè nell’esposizione di una lastra sensibile agli effetti della luce. E’ grazie a questo artificio che la realtà individuata dal fotografo, analogamente a quanto accade per l’oggetto duchampiano con il trasferimento nel museo, si decontestualizza proponendosi alla fruizione come opera d’arte.

Negli anni ottanta Rosalind Krauss si occupò del rapporto tra ready-made e fotografia in un saggio dal titolo “Duchamp o il campo immaginario”: sostiene che la fotografia stia dalla parte della vita, del basso, del volgare e scrive che “se Duchamp si è lanciato sulla via del volgare in arte, fu per esplorare un ambito particolare di cui la fotografia è un risvolto”. La studiosa ricorda inoltre che lo stesso processo di risemantizzazione ottenuto attraverso la ricollocazione dell’oggetto nel museo era stato definito da Duchamp “effetto di istantanea”, in quanto analogo al rapporto immediato, diretto, indicale che si stabilisce tra una fotografia e il proprio oggetto. Una relazione di carattere indicale e cioè basata su un rapporto unico e necessario col proprio oggetto, esattamente come unica e necessaria è la relazione stabilita in fotografia tra immagine e realtà.

DUCHAMP E MAN RAY Duchamp viene definito come un artista-fotografo, ha quindi un approccio nei confronti della fotografia ben diverso da quello del fotografo-fotografo. Quest’ultimo è un operatore rigidamente legato alle specificità tecniche del mezzo e pensa di utilizzarle con opportuna maestria per produrre arte. Totalmente diverso è l’atteggiamento del cosiddetto artistafotografo che utilizza la fotografia con un esplicito disinteresse per gli apparati tecnici, tanto che Duchamp ha delegato all’amico Man Ray la realizzazione pratica delle proprie opere -> rifiuto di un buon utilizzo del mezzo, rifiuto totale della manualità, privilegiato il piano della concettualità. Duchamp, performance e body art Dagli anni settanta in avanti (rilancio della rivoluzione innescata dalle Avanguardie storiche) gli autori con caratteristiche simil-duchampiane sono stati tanti come pure quelli che hanno utilizzato la fotografia senza scattare direttamente le immagini, ma nessuno dei loro nomi compare nelle tradizionali “storie” ripetutamente pubblicate. Nel 1919 Duchamp si fece fotografare da Man Ray di spalle, la nuca rasata a forma di stella, o meglio di cometa con la coda protesa verso la fronte. “Tonsure” è il titolo del lavoro che può essere considerato come uno dei primi tentativi di Body Art a complicità fotografica. Non bisogna affatto pensare all’utilizzo della fotografia come svilito, documentario ma occorre invece riconoscere che senza essa il gioco non sarebbe stato possibile e che il gesto dell’artista, l’azione, il comportamento non avrebbe acquisito quella credibilità che solo la certificazione fotografica è in grado di conferire. Questa fotografia di Duchamp (“Tonsure”) non è un documento ma casomai una testimonianza: il documento è qualcosa che dall’esterno, in modo separato, parla di una certa cosa; la testimonianza è invece una certificazione dal di dentro, ripropone quel principio di connessione diretta con l’oggetto, tipica dell’indice peirciano.

Nel 1921 realizza una serie di ritratti dedicati a Rrose Selàvy, impareggiabile alter ego al femminile dell’artista. Le foto sono state scattate da Man Ray e Duchamp si cala nei credibilissimi panni di una misteriosa e affascinante avventuriera, il cui intenso e promettente sguardo punta spavaldamente al centro dell’obiettivo. L’intenzione era quella di sostenere l’effettiva esistenza del personaggio Rrose Selàvy, di renderla credibile, di pensarla come reale e non immaginaria: da qui il ricorso al mezzo fotografico, impareggiabile e indiscutibile certificatore dell’esistenza di qualcuno o di qualcosa. L’ossatura del lavoro poggia sulla nozione peirciana di indice, cioè di un segno che è traccia del proprio referente e che in quanto generato direttamente da questo ne costituisce testimonianza incontrovertibile. Se di Rrose Selàvy possediamo una fotografia, significa che esiste. Duchamp allora insiste nell’accumulare prove e indizi del suo alter ego, tanto che il logo RS insieme al volto di Rrose, ricompare sull’etichetta di una boccetta di profumo di nome Belle Haleine (1921). Due anni più tardi, nel 1923, Duchamp chiuderà il cerchio su questo intrico di identità con il lavoro intitolato “Wanted $ 2000 Reward”, perfetto rifacimento di una locandina poliziesca da ricercati. Questa volte il duplice ritratto utilizzato è quello al naturale di Duchamp, non trasformato in Rrose. Il testo sottostante però ricorda come il ricercato in questione, tale “George W.Welch, alias Bell, alias Pickers sia pure conosciuto come Rrose Selàvy” Un ritratto fotografico-meccanico in stile poliziesco che si potrebbe pensare agli antipodi del classico ritratto con ambizioni estetiche, ma capace, dopo Duchamp, di sollecitare altri artisti proprio perché espressione di quell’automaticità che caratterizza in profondità il processo fotografico. Queste opere rispecchiano perfettamente le intenzioni generali di Duchamp: l’irrilevanza della fase manuale, l’esaltazione dell’oggettività tecnologica, la credibilità attestativa dell’immagine.

Un ultimo importante contributo alla definizione del fotografico in Duchamp viene da “Allevamento di polvere”, un lavoro del 1920, firmato a due mani da Man Ray. L’immagine era stata scattata da quest’ultimo al Grande Vetro ripetutamente accantonato in studio nella sua lunga esecuzione e qui ricopertosi di abbondante polvere. L’operazione ha le caratteristiche del vero e proprio ready-made perché Duchamp si appropria di un’immagine autonomamente prodotta da Man Ray e la trasforma in un’altra cosa, attribuendole appunto il titolo di “ Allevamento di Polvere”. Infine va notato come questa possibilità di fermare e dare sostanza al tempo abbia qualcosa di simile a quanto può svolgere la fotografia nei confronti del gesto e dell’azione, non solo fissare ma addirittura mostrare, sottrarre all’evanescenza e alla dispersione.

Picabia Diversamente da Duchamp, Picabia avrebbe potuto sviluppare una certa pratica di tecnica fotografica dato che il nonno era un fotografo di buon livello e amico di Nadar, ma egli decise di tenersi lontano da un mezzo e una certa cultura fotografica del tempo e si dedicò alla pittura. Decise di utilizzare pittoricamente la mano secondo i moduli secchi, diretti e impersonali della macchina. La prima opera chiaramente orientata in questa direzione fu “La fille nèe sans mère” pubblicata nel 1915 su “Camera Work”. I lavori di Picabia, per quanto sostanzialmente pittorici, richiamano lo spirito del processo fotografico essendo costruito sugli stessi parametri di meccanicità, oggettività e antimanualità. Ci sono anche lavori in cui Picabia ha fatto ricordo diretto al mezzo fotografico. Notata la somiglianza tra una foto del pugile Carpentier e lo stesso Duchamp, Picabia pubblicò su “391” rivista da lui fondata nel 1917, la foto con didascalia : “Ritratto di Rrose Selàvy di Francis Picabia”. Un ready-made fotografico aiutato dalla scrittura, o meglio, un ready-ready-ready… Più stimolante è il suo lavoro dal titolo “ La veuve joyeuse” del 1921, opera che sembra un perfetto anticipo di certe indagini sull’incrocio di linguaggi sviluppate solo negli anni sessanta-settanta dal concettuale americano Joseph Kosuth. Il lavoro pone a confronto, accostandoli, un ritratto fotografico dello stesso Picabia, colto sorridente al volante di un’automobile e un disegno di taglio fumettistico riproducente la stessa foto. Sotto ciascuna delle due immagini compaiono le didascalie-nominazioni, rispettivamente “fotografia” e “disegno”, tracciate a mano con caratteri a stampatello. Fotografia e disegno si fronteggiano e si oppongono per logica di funzionamento.

Man Ray Man Ray fu un fotografo nel senso pieno del termine, tanto da lavorare professionalmente per la pubblicità, la moda e la ritrattistica. E’ una figura che risulta sospesa tra Dadaismo e Surrealismo anche se la maggior parte della sua produzione fotografica si colloca cronologicamente in area surrealista. Il giovane Man Ray infatti si era comunque formato nel clima del Dada newyorkese, sotto l’ala dei più maturi Duchamp e Picabia. La contraddizione e l’ambiguità hanno contraddistinto tutto il percorso artistico di Man Ray il quale dichiarava una totale indifferenza nei confronti delle varie tecniche artistiche: pittura, aereografo, ready-made, fotografia erano per lui mezzi assolutamente interscambiabili, senza alcun privilegio o preferenza, perché comunque il senso profondo dell’opera restava legato all’idea e non alla tecnicità dei mezzi che l’avevano generata. In Man Ray sembra però ripresentarsi un dilemma: la fotografia è solo lo sviluppo tecnologicamente aggiornato della pittura, dunque riconducibile alla logica artistica dda questa rappresentata, oppure apre spazi di identità completamente nuovi e alternativi rispetto al quadro? Le numerose risposte di Man Ray non hanno mai chiarito definitivamente la questione.  “Nonostante i suoi aspetti meccanici, la fotografia mi aveva sempre affascinato in quanto modo di dipingere con la luce e le sostanze chimiche” M.R. -> pensando all’esperienza di Duchamp e Picabia il “nonostante” suona veramente male dato che per i due la meccanicità della fotografia era un pregio, anzi IL pregio, e non certo un ostacolo al suo utilizzo estetico. Ambigua è anche l’idea di una pittura nuova e accattivante perché fatta con obiettivo, luce e sostanze chimiche, anziché con pennello e colori. Nel credo duchampiano la pittura andava superata e non semplicemente riformata, perché le logiche, evidentemente, non si cambiano con una semplice sostituzione degli strumenti.  “La sua duttilità (della macchina fotografica) equivale a quella del pennello, esattamente. La fotografia sta alla pittura come l’automobile sta al cavallo” Man Ray sottolinea quindi un miglioramento, un’accelleramento ma non certo un cambiamento Nonostante la vicinanza con Duchamp Man Ray non sarebbe in grado di cogliere tutte le novità operative connesse all’uso dello strumento fotografico, tanto da collocarsi nella posizione intermedia di chi non riesce a svincolarsi del tutto dalla sudditanza al sistema pittorico. Ma allora i rayographs da che parte stanno? Da quella di una logica artistica completamente nuova oppure da quella di una pittoricità riveduta e corretta? Fu proprio MaN Ray ad indicare una parentela di queste opere con la pittura: “In pittura non si usano più i proprio occhi perciò voilà, ho soppresso anche l’occhio della mia macchina fotografica, il suo obiettivo.” Quindi se da un lato, valorizzando il principio di un’automatica casualità, i rayographs possono essere considerati una sorta di anticipazione del “programma

surrealista nel momento stesso in cui stava nascendo”, dato che si presentano come esercizio formale da valutare per la composizione, per i motivi grafici e per la combinazione di bianchi e neri. Man Ray però esprime più volte la consapevolezza di come il senso della fotografia non possa essere ristretto all’opera materialmente intesa, ma vada invece recuperato, almeno come genesi, su un piano più generale, anteriore al fare, sul piano del comportamento assunto da chi sceglie di relazionarsi al mondo attraverso la meditazione della fotografia. Quando afferma “Fotografo per mantenere il contatto con gli altri” sta tracciando un’identità non più riconducibile a quella della pittura, ma anzi diametralmente opposta ad essa. La fotografia è tecnicamente mondana. La traccia necessita della matrice. Non la si può concepire fuori da una relazione. La pittura, al contrario, può essere praticata in assenza e non richiede di essere per forza in faccia al soggetto. Un esempio ce lo fornisce Man Ray quando stila una classifica a punti che accompagna i suoi ritratti, ad amici artisti, per esprimere simpatia o meno. Tutto nasceva dall’esigenza di segnalare un’affinità emotiva tra fotografo e fotografato. In questo modo la fotografia richiama un’idea di arte non più limitata all’opera bensì allargata all’intera azione. Man Ray ha tentato di elaborare un’identità della fotografia autonoma e differenziata rispetto al quadro e lo si vede dalle immagini dedicate ai suoi ready-made. Questi sono stati trascurati dalla critica che si è limitata a vedere in questi lavori solo un buon lavoro di riproduzione, con un uso servile e non autonomo della fotografia. Questo però non è del tutto vero e lo si comprende già dal titolo che l’artista ha dato a questa raccolta “Oggetti d’affezione”. A emergere è la voglia di indicare una relazione particolare tra soggetto e oggetto all’interno della pratica fotografica, e poco importa se al posto delle persone ci sono degli oggetti. Questi ready-made sono oggetti mentali prima ancora che fisici, dunque bisognosi di concretizzare la dimensione concettuale del loro esistere, sono oggetti mentali che il gesto fotografico sostiene e aiuta a vivere.

Il fotomontaggio Un incrocio originale tra Dadaismo e Fotografia è quello che si sviluppa intorno alla pratica del fotomontaggio. Indicato già nel 1869 da Henry Peach Robinson come una delle modalità per avvicinare il lavoro del fotografo a quello del pittore, il fotomontaggio tenta di sanare quanto emerso dalla famosa arringa di Baudelaire, il fotomontaggio infatti dava l’occasione di esibire quella maestria che si riteneva indispensabile per essere considerati artisti. In fotomontaggio trova piena e diffusa applicazione attorno al 1920 negli ambienti del Dada berlinese. I riferimenti culturali del suo sviluppo sono tutti di area europea e vanno

dalle “parole in libertà” dei futuristi ai primi collages cubisti, fino agli assemblages di Schwitters. Il fotomontaggio si mostra assai vicino alla cosiddetta “ala moderata” del Dadaismo, quella rappresentata da Kurt Schwitters le cui ricerche, pur superando la tradizionale identità pittorica, non giungono però mai a quella purezza di gesto del ready-made. Il fotomontaggio oscilla tra il rifiuto dei canoni estetici tradizionali e il suadente richiamo esercitato dal collaudato sistema pittorico. Nel fotomontaggio lo spazio di rappresentazione è disarticolato e questo si poneva in contraddizione con la prospettiva rinascimentale (quadro), ma ciò non basta a collocarlo fuori dalla pittura dato che molti artisti, iniziatori del ciclo contemporaneo, avevano esplicitamente rinunciato a quel sistema di organizzazione spaziale pur rimanendo nella logica della tela. Lo stesso vale per le tecniche e i materiali: il fotomontaggio si affida a forbici, colla e immagini sottratte da varie fonti. La sua genesi potrebbe quindi essere definita simil readymade? Il materiale “già fatto” viene poi rimontato su una superficie bidimensionale, in modo bizzarro e stravagante fin che si vuole, ma alla lunga con attenzione a un principio compositivo di matrice simbolico-rappresentativa. L’ambiguità del fotomontaggio...


Similar Free PDFs