Divina Commedia-Inferno PDF

Title Divina Commedia-Inferno
Author Luca Dossi
Course Laurea in Lettere
Institution Università degli Studi di Verona
Pages 55
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Summary

Schema riassuntivo dell'inferno dantesco, Canto, Girone, Pena, Penitenti, Personaggi...


Description

CANTO VIII CERCHIO V: IRACONDI E ACCIDIOSI RIASSUNTO BREVE: Ancora nel V Cerchio; apparizione di Flegiàs, che traghetta Dante e Virgilio nella palude dello Stige. Incontro con Filippo Argenti. Arrivo alla città di Dite. I diavoli negano il passaggio ai due poeti.

Interpretazione complessiva Il Canto è suddiviso in tre momenti che corrispondono all'apparizione del demone Flegiàs, all'incontro con Filippo Argenti e all'arrivo alla città di Dite, aventi come filo conduttore l'ira e l'immagine del fuoco che al peccato degli iracondi rimanda. L'inizio si ricollega a quanto detto alla fine del Canto precedente, in cui dopo la prima descrizione della pena degli iracondi era stata mostrata la torre che qui, in maniera misteriosa, scambia strani segnali luminosi con un'altra posta più addentro nella palude e il cui significato non è reso esplicito dal poeta. Forse è un richiamo per Flegiàs, il traghettatore demoniaco che non tarda ad arrivare sulla sua barca e reagisce con rabbia alla notizia che non potrà trattenere Dante nello Stige, mentre non è molto chiaro se la sua funzione sia quella di traghettare solo le anime degli iracondi o di tutti i dannati destinati al Basso Inferno: anche in questo caso la demonizzazione del personaggio classico è alquanto deformante rispetto all'originale, anche se è chiaro che il suo nome è da collegare etimologicamente alla fiamma (come il Flegetonte, il fiume caldo di sangue) e va ricordato che Flegiàs nel mito classico aveva incendiato il tempio di Apollo a Delfi, adirato perché il dio aveva sedotto sua figlia. In ogni caso anch'egli, nonostante la stizza con cui accoglie la presenza all'Inferno del vivo Dante, è costretto dal volere divino a farlo salire sulla sua barca e a condurlo attraverso la palude, dove avverrà il tempestoso incontro con Filippo Argenti. Costui era un fiorentino di parte Nera avverso a Dante e probabilmente suo nemico personale, appartenente alla consorteria degli Adimari e citato da Boccaccio nella stessa novella (IX, 8) in cui compare Ciacco: anch'egli reagisce con stizza alla presenza di Dante, di cui si stupisce che possa viaggiare da vivo nell'Aldilà, e rifiuta di rivelare il proprio nome per orgoglio, salvo poi avventarsi furioso contro il poeta nel momento in cui lui lo riconosce e lo fa oggetto di parole ingiuriose di condanna. Il breve e serrato scambio di battute fra Dante e l'Argenti è simile a un «contrasto» o a una «tenzone» della poesia comico-realistica, il cui tono domina largamente l'intero episodio, e ci riconduce al clima di lotte intestine e rivalità tra consorterie di cui era preda Firenze all'inizio del Trecento e delle quali si è parlato anche nel Canto VI. Le parole di Virgilio che benedice la madre di Dante, dopo avere scacciato con decisione lo spirito, vogliono essere una sorta di approvazione dell'odio e dello sdegno del poeta, che erano rivolti verso tutta la casata degli Adimari (secondo alcune testimonianze, essa si sarebbe opposta al suo rientro in Firenze dopo l'esilio e ne avrebbe usurpato i beni); il poeta latino sottolinea che molti in vita si ritengono altezzosamente dei gran regi, mentre il loro destino ultraterreno è di essere attuffati nel fango dello Stige come porci in brago, quindi Dante mostra qui la verità della condizione nell'Oltretomba che ristabilisce la verità e assegna a ciascuno il posto che merita, per cui il poeta è destinato alla salvezza e l'Adimari a subire l'orribile pena degli iracondi (anche in altri casi la descrizione delle anime rivelerà un destino assai diverso da quello che si pensava comunemente fra vivi sulla Terra). L'episodio si conclude con gli altri dannati che fanno a pezzi l'Argenti, soddisfacendo il personale desiderio di rivalsa del poeta che lascia la descrizione del personaggio con profondo disdegno (più non ne narro), in quanto la sua attenzione è catturata da ben altro spettacolo che si offre ai suoi occhi. La terza parte del Canto è infatti occupata dalla descrizione della città di Dite, che si staglia con le sue mura e le torri rosse per il fuoco che divampa all'interno, simili alle moschee di una città islamica: anche la reazione dei diavoli al suo interno è di stizza e ira, di fronte al viaggiatore che osa avventurarsi da vivo nel regno dell'Oltretomba, ed essi si oppongono al passaggio dei due poeti non diversamente dalle altre figure diaboliche fin qui incontrate, minacciando addirittura di trattenere lì Virgilio e obbligare Dante a tornare da solo sui suoi passi (la reazione del poeta è di autentico

terrore, tanto che giunge a proporre al maestro di porre fine anzitempo al viaggio). Tale timore è in parte giustificato, poiché in questo caso non basterà l'intervento di Virgilio come allegoria della ragione umana (che infatti deve tornare indietro scornato dopo che i demoni gli hanno letteralmente chiuso la porta in faccia), ma si renderà necessario l'arrivo di un messo celeste che avrà la funzione di eliminare l'ostacolo e rimproverare aspramente i diavoli della loro sterile opposizione, cosa che verrà narrata nel Canto successivo. L'episodio presenta analogie col Canto XXI, in cui Virgilio lascerà Dante nascosto dietro una roccia per andare a parlamentare coi Malebranche e ottenere l'aiuto necessario a passare nella Bolgia seguente, poiché neppure in quel caso i demoni daranno corso alla sua richiesta e, anzi, se ne faranno beffe ingannandolo e attirando lui e il discepolo in un tranello; qui l'immagine del poeta latino che deve desistere per il rifiuto dei diavoli che gli hanno negate le dolenti case è molto umana e realistica, proprio come lo sarà quella del Canto XXIII quando frate Catalano (uno degli ipocriti della VI Bolgia) svelerà a Virgilio le bugie dei Malebranche. L'episodio del messo, che si concluderà all'inizio del Canto successivo, rimanda poi alla discesa infernale di un altrettanto importante personaggio, ovvero Cristo trionfante che il giorno della sua resurrezione abbatté la porta dell'Inferno per trarre fuori dal Limbo le anime dei patriarchi biblici: si delinea nelle parole di Virgilio il preannuncio di uno scontro bene-male che avrà il suo scioglimento dopo la fine di questo Canto, mentre il senso allegorico è probabilmente che per superare l'ostacolo del peccato sulla via della salvezza la ragione non sempre è sufficiente, ma è necessaria l'assistenza e il soccorso della grazia (già rappresentata da Beatricescesa nel Limbo per invitare Virgilio a salvare Dante dalle tre fiere). Note e passi controversi Non è molto chiaro quale sia la funzione delle due torri che si scambiano segnali luminosi all'inizio del Canto, salvo ipotizzare che ciò serva a richiamare Flegiàs con la sua barca. Ben poco si sa poi di questo personaggio e del suo ruolo, che potrebbe essere quello di traghettatore degli iracondi nello Stige, o degli eresiarchi nella città di Dite, o di tutte le anime destinate al basso Inferno.Al v. 21 loto vuol dire «fango» e indica la palude Stigia. Il v. 27, che indica che la barca di Flegiàs affonda solo quando vi sale Dante in possesso del suo corpo fisico, è eco di Aen., VI, 413-414. Il breve scambio di battute fra Dante e l'Argenti (vv. 33-39) rimanda alla tradizione della poesia comica e sembra quasi una «tenzone»: il dannato dice a Dante che arriva anzitempo all'Inferno, predicendone cioè la dannazione, ma Dante ribatte che se viene non è certo per rimanere come tocca invece a lui. Il poeta chiede poi il nome del dannato, irriconoscibile perché brutto, sporco di fango, e alla risposta ambigua dell'Adimari (Vedi che son un che piango) ribatte che è giusto che rimanga nel pianto e nel lutto, essendo uno spirito maledetto. Uno scambio assai simile, anche se condotto su un piano stilistico più alto, avverrà nel Canto X con Farinata. Al v. 65 duolo indica probabilmente il coro di lamenti dolorosi che proviene dalla città di Dite. Le torri e gli spalti della città demoniaca di Dite sono paragonati alle meschite (v. 70), le moschee di una città islamica (ciò per l'evidente condanna della fede musulmana da parte del Cristianesimo nel Medioevo). La descrizione fa uso dell'allitterazione insistita della f, di foco uscite..., fossero, il foco etterno... l'affoca, l'alte fosse, che ferro fosse. L'alte fosse (v. 76) sono probabilmente i fossati che circondano la città, come quelli che cingevano le cittadelle medievali (il termine è in rima equivoca col verbo fosse al v. 78). Al v. 96 ritornarci significa «tornare sulla Terra» (-ci è avverbio di luogo, «qui»). La speranza di Virgilio di ridurre i diavoli a più miti consigli viene disattesa (vv. 112-120) e la reazione della guida di Dante sarà di grande disappunto, come avverrà nell'episodio dei Malebranche (Canti XXI, XXII e XXIII). I vv. 125-126 alludono alla discesa di Cristo risorto all'Inferno, per trarre dal Limbo le anime dei patriarchi biblici: la porta citata da Virgilio è quella dell'Inferno (III, 1 ss.), che nell'occasione fu abbattuta da Cristo e si trova ancora sanza serrame, senza i battenti che la chiudevano. Il v. 130 allude al messo celeste, già in procinto di scendere all'Inferno per ridurre all'obbedienza i demoni di Dite

CANTO IX CERCHIO V: CITTA’ DI DITE FONDATORI DI ERESIE E LORO SEGUACI Dubbi di Dante e spiegazioni di Virgilio. Apparizione delle tre Furie, che invocano Medusa. Arrivo del messo celeste, che piega le resistenze dei demoni e permette il passaggio dei due poeti. Ingresso nella città di Dite (VI Cerchio). Pena degli eresiarchi. È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

Interpretazione complessiva Il Canto è la necessaria conclusione di quello precedente, che si era chiuso nell'attesa dell'arrivo del messo celeste preannunciato da Virgilio per rassicurare Dante e destinato a vincere l'opposizione dei diavoli della città di Dite, decisi a non permettere l'ingresso di Dante ancor vivo nella città del foco. La stessa atmosfera di attesa e inquietudine apre il Canto IX, che mostra da un lato i dubbi di Virgilio (la guida si sforza di non inquietare Dante, anche se le sue parole lasciano trasparire dubbi) e dall'altro i timori del discepolo, che addirittura chiede al maestro se lui conosce la strada che conduce al Basso Inferno, mettendo implicitamente in forse la sua autorità finora indiscussa. Virgilio spiega che poco dopo la sua morte la maga tèssala Eritone lo aveva evocato per far ritornare sulla Terra un morto, quindi egli conosce perfettamente la strada che conduce al fondo dell'Inferno, anche se è assai raro che un'anima compia tale percorso partendo dal Limbo (Dante si ispira sicuramente a un episodio del Bellum civile di Lucano, VI, 508 ss., in cui si dice che Eritone aveva resuscitato un defunto per rivelare a Pompeo l'esito della battaglia di Farsàlo; non sappiamo a quale altro caso riguardante Virgilio faccia riferimento qui Dante). Va comunque detto che la conoscenza dei luoghi infernali da parte di Virgilio è limitata dal fatto che la sua prima discesa avvenne prima della venuta di Cristo, per cui egli ignora ad esempio che alcuni ponti rocciosi delle Malebolge sono crollati per il terremoto seguito alla morte di Gesù e ciò causerà l'inganno che sarà perpetrato ai suoi danni dai Malebranche; del tutto inesperto sarà invece del Purgatorio, dove sarà addirittura costretto a chiedere più volte ai penitenti qual è la via più rapida per l'ascesa. L'atmosfera arcana e di sortilegio prosegue con l'apparizione improvvisa delle tre Furie, che distolgono Dante dal discorso di Virgilio e attirano la sua attenzione: le creature demoniache si affacciano dagli spalti di Dite e minacciano Dante evocando Medusa, la terribile Gorgone che ha il potere di pietrificare chi la guarda in volto. La minaccia è reale e spinge Virgilio a chiudere gli occhi al discepolo, altrimenti nulla sarebbe di tornar mai suso (il maestro non si accontenta che Dante si copra gli occhi, ma mette le sue mani su quelle del poeta per evitare ogni rischio). Le Furie e Medusa sono la consueta demonizzazione di divinità classiche del mondo infero, che anche in questo caso si oppongono vanamente al prosieguo del cammino di Dante, anche se la Gorgone non viene mostrata direttamente ma solo evocata dalle minacciose parole delle tre Erinni, che citano la discesa all'Averno di Teseo e si rammaricano di non averne respinto l'assalto: l'eroe classico è da accostare ad Ercole, citato più avanti nel discorso del messo celeste, e forse entrambi rimandano alla figura di questo inviato che ridurrà al silenzio i demoni, secondo lo schema dell'eroe che sconfigge il mostro e che è comune tanto alla mitologia quanto al racconto biblico (si pensi, ad esempio, a David e Golia). La parte centrale del Canto è poi occupata proprio dall'arrivo del messo celeste, preceduto dall'ammonimento di Dante ai lettori che dovranno, se hanno gli 'ntelletti sani, osservare bene la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani. Non sarà l'ultima volta che il poeta rivolgerà simili richiami al suo pubblico, né è molto chiaro a cosa intenda riferirsi in questo caso: tralasciando le ipotesi più fantasiose, è probabile che Dante inviti i lettori a cogliere il senso della «sacra rappresentazione» che ha per protagonista il messo, ovvero la necessità dell'aiuto e del soccorso della Grazia divina per superare gli ostacoli del peccato, senza la quale la sola ragione è di per sé insufficiente. L'aiuto di Dio è necessario perché Dante vinca i suoi dubbi e la sua viltà, come già era accaduto nella selva per mezzo di Virgilio, e superi l'opposizione dei demoni che è del resto vana in quanto il suo viaggio non è folle ma voluto dal Cielo, come il messo non manca di ricordare ai diavoli nei suoi rimproveri. Quasi impossibile, poi, identificare con certezza il messo, che molti commentatori hanno indicato in un angelo (uno degli arcangeli, Gabriele o Michele?), altri in un personaggio pagano (Mercurio?), altri ancora in un contemporaneo di Dante. Quel che è certo è che il suo compito è vincere la ribellione dei demoni al volere divino, come Michele che sconfisse Lucifero o come vari eroi mitologici che uccisero creature mostruose; il messo ricorda l'episodio di Ercole che per entrare agli Inferi aveva trascinato fuori Cerbero con una catena, mentre Medusa, evocata dalle Furie, era stata uccisa da Perseo

con l'aiuto di Minerva. La città di Dite rappresenta inoltre il confine tra l'Alto e il Basso Inferno dove sono puniti i peccati più gravi (quelli di violenza e frode), per cui il passaggio di Dante riveste probabilmente una particolare delicatezza che rende necessario un intervento superiore, il cui significato preciso probabilmente ci sfugge; quel che è certo è che dopo l'intervento del messo le porte della città infernale si aprono e l'ingresso dei due poeti può avvenire senz'alcuna guerra, mentre ogni presenza demoniaca all'interno scompare e Dante sarà libero di visitare il VI Cerchio in cui sono puniti gli eresiarchi e tutti i loro seguaci. Gli eretici sono costretti a giacere in tombe infuocate con i coperchi sollevati, contrappasso che sarà spiegato nel Canto seguente dicendo che fra essi ci sono gli epicurei, che avevano proclamato la mortalità dell'anima; particolarmente interessato a questa categoria di dannati si mostra subito Dante, soprattutto perché sa (o intuisce) che fra loro si trova il concittadino Farinata Degli Uberti, la cui perdizione gli è stata preannunciata da Ciacco, e forse per l'interesse ai temi filosofici manifestato negli anni del suo «traviamento» e che aveva trovato espressione nel Convivio. Virgilio gli spiega che in ogni tomba sono costretti i seguaci di una stessa setta eretica, tormentati in misura maggiore o minore dal fuoco a seconda della gravità del peccato commesso: anche questo Canto si chiude prima che l'episodio abbia termine e rimanda l'attenzione a quello successivo, in cui avverrà l'incontro con Farinata che, forse, il lettore del poema si attendeva di trovare qui non meno di quanto se lo aspettasse Dante personaggio.

Note e passi controversi Al v. 7 punga è metatesi per pugna, per ragioni di rima. Al v. 11, invece, dienne è forma rara per mi diede. I vv. 17-18 indicano il Limbo (primo grado), dove le anime hanno come unica pena la speranza cionca («monca», «troncata»). La regina de l'etterno pianto (v. 44) è Proserpina, la sposa mitologica di Plutone e regina degli Inferi, di cui le Furie sono dette meschine, serve (è parola di origine araba, da miskin, povero). Il suono assordante che precede l'arrivo del messo (v. 64 ss.) è tratto prob. da un passo biblico, Act. Ap., II, 2 (et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis, «all'improvviso scese dal cielo un suono come di vento che soffia impetuoso»), così come l'immagine del vento che abbatte gli alberida Ezech., I, 4 (et ecce ventus turbinis veniebat ab aquilone, «ed ecco un vento tempestoso avanzare da settentrione»). La similitudine dei dannati che fuggono come rane di fronte alla biscia proviene invece da Ovidio, Met., VI, 370-381. La verghetta che il messo ha in mano (v. 89) potrebbe essere lo scettro brandito da molti angeli nell'iconografia medievale, ma anche il caduceo di Mercurio. Dante descrive le tombe di Dite con due similitudini, paragonandole al cimitero Des Alyscamps di Arles, sul Rodano, e alla necropoli di Pola, sul golfo del Quarnaro. Al v. 133 li alti spaldi sono gli spalti della città di Dite.

CANTO X CERCHIO V: CITTA’ DI DITE ERETICI E LORO SEGUACI Ancora nella città di Dite, pena degli eresiarchi. Incontro con Farinata Degli Uberti, discorso politico su Firenze. Apparizione di Cavalcante dei Cavalcanti. Profezia di Farinata sull'esilio di Dante. Virgilio conforta Dante promettendogli le spiegazioni di Beatrice. I due poeti arrivano in prossimità del VII Cerchio. È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300. Interpretazione complessiva Il protagonista assoluto del Canto è Farinata Degli Uberti, il capo di parte ghibellina vissuto a Firenze nel primo Duecento e appartenente a una delle famiglie più nobili e potenti della città. Dante, che già sa quali dannati siano puniti nel VI Cerchio, è ansioso di verificare se Farinata si trovi effettivamente lì (nel Canto VI Ciacco aveva già preannuciato a Dante la dannazione sua e di altri fiorentini illustri); Virgilio intuisce il desiderio inespresso di Dante e sarà lui stesso a spingerlo con le mani animose e pronte verso la tomba del dannato, raccomandandogli di parlare in modo misurato e dignitoso.

Il colloquio con Farinata avrà argomento prevalentemente politico, relativo alle divisioni interne di Firenze che era patria di entrambi (del resto il dannato riconosce Dante come suo concittadino dalla loquela e lo invita a dialogare con lui per via del suo parlare onesto, cioè dignitoso). Farinata campeggia sulla scena come un gigante, mostrando un fiero disprezzo per tutto l'Inferno, anche se, come spesso accade per i dannati, egli nell'episodio mostra di non comprendere affatto le ragioni della sua perdizione e appare tenacemente legato alle questioni di parte politica, che non hanno più alcun significato nella dimensione ultraterrena. Infatti chiede a Dante chi siano i suoi antenati, per capire a quale fazione appartenga, e quando il poeta si manifesta come Guelfo il dannato gli ricorda subito di essere stato un Ghibellino e di aver sconfitto i Guelfi per ben due volte, nel 1248 e nel 1260, nella celebre battaglia di Montaperti. Dante si sente punto sul vivo e ribatte prontamente che i Guelfi seppero tornare a Firenze in entrambi i casi, ovvero nel 1250 e soprattutto nel 1266, dopo Benevento. La risposta piccata di Dante è degna di un «contrasto» o di uno scambio polemico di accuse: dopo la parentesi di Cavalcante, infatti, sarà ancora Farinata a rispondere «per le rime» col profetizzare a Dante che di lì a quattro anni, nel 1304, la sconfitta nella battaglia della Lastra impedirà agli esuli fiorentini di rientrare in città, profetizzandogli così indirettamente l'esilio per colpirlo sul piano personale. A Farinata sta a cuore unicamente la dimensione politica ed è evidente in lui il rimpianto per il dolce mondo e la sua città, specie quando chiede a Dante il motivo di tanto accanimento di Firenze contro i membri della sua famiglia. La risposta di Dante fa riferimento al disastro di Montaperti, ovvero la sconfitta guelfa che fu sempre ricordata come un bagno di sangue ('l grande scempio / che fece l'Arbia ...


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