Docsity riassunto le trasformazioni del lavoro PDF

Title Docsity riassunto le trasformazioni del lavoro
Course Sociologia delle organizzazioni
Institution Università degli Studi Roma Tre
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Le trasformazioni del lavoro 1. Il lavoro rubato dalla globalizzazione: lo spettro delle delocalizzazioni La crisi ha influito sulla già largamente diffusa opinione che la globalizzazione abbia contribuito e continui a contribuire a delocalizzare in maniera massiccia i posti di lavoro verso la Cina, l’India e i vari paesi emergenti, caratterizzati da più bassi costi del lavoro. Le ragioni del perché ciò non sia avvenuto, o sia avvenuto in maniera alquanto dilazionata e regolata, sono apparse evidenti. L’erosione del lavoro manifatturiero nei paesi industriali più avanzati è derivata prevalentemente dalla transizione strutturale delle loro economie verso i settori del terziario, avanzato e non. Il settore manifatturiero, innovato e trasformato per effetto di un accelerato sviluppo dell’economia della conoscenza, che ha accresciuto il contenuto immateriale degli stessi prodotti industriali maturi (automobile), sta offrendo tuttora un fondamentale vantaggio competitivo. I paesi emergenti vanno generalmente occupando parte di quello spazio manifatturiero di fatto abbandonato o in via di abbandono nei paesi di prima industrializzazione. Mentre le imprese che potrebbero teoricamente spostare i posti di lavoro dai paesi ad alto costo a quelli più convenienti, rischiano di non trovare le stesse infrastrutture economiche e sociali dei paesi di origine, come sembrano dimostrare alcuni fenomeni di rilocalizzazione o comunque di riposizionamento da parte delle stesse imprese che avevano intenzione di delocalizzare. Va sottolineato che i posti di lavoro persi nei settori manifatturieri sono stati ampiamente compensati dalla crescita dell’occupazione nei settori dei servizi, almeno fino a prima della crisi finanziaria del 2008. Secondo alcuni autori, il fatto che la maggior parte di tali servizi siano prodotti e consumati a livello locale rappresentano fattori oggettivi che renderanno sempre più contenuto il fenomeno delle delocalizzazioni e dei loro effetti negativi sull’occupazione. Ciò sarà sempre più vero per i paesi con elevate quote di addetti nei settori dei servizi (USA, UK, Olanda, Danimarca), mentre i paesi che mantengono tuttora livelli occupazionali più elevati nei settori manifatturieri (Germania, Francia, Giappone, Italia) potrebbero essere interessati da maggiori perdite di posti di lavoro, pur non necessariamente per effetto della globalizzazione. In generale, molti economisti, pur registrando la crescita del fenomeno delle delocalizzazioni per effetto della globalizzazione, non lo considerano una causa della perdita di posti di lavoro così rilevante come lo può essere invece l’innovazione tecnologica. Nel dicembre 2005, per porre freno a quella che sembrava essere una progressiva e inarrestabile erosione dei posti di lavoro a causa delle delocalizzazioni, il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la costituzione di un fondo di 500 milioni di euro annui da destinare ai lavoratori vittime di licenziamenti dovuti ai processi di offshoring (un posto di lavoro è offshoring quando viene spostato al di fuori del paese, anche se nell’ambito della stessa impresa). Scopo principale era di fatto quello di favorire il reinserimento professionale di coloro che potevano perdere il lavoro a causa della globalizzazione. Pur essendo stata scartata in un primo momento dagli stati membri, tale proposta venne ripresa ma in questo caso si tratta di un fondo differente da quelli già previsti, in quanto orientato a un aiuto di carattere individuale, del tutto mirato e limitato nel tempo. Esso è infatti finalizzato alla formazione e alla ricollocazione soprattutto dei lavoratori 1

anziani disponibili a rientrare nel mercato del lavoro, anche se con un salario inferiore. Il documento, nella parte di definizione quantitativa del fenomeno, prevede l’intervento solo quando le perdite dei posti di lavoro siano pari almeno a mille licenziamenti su un periodo di 4 mesi in un’impresa e presso i suoi fornitori o produttori, oppure su un periodo di 9 mesi in zone limitrofe. Sono emersi, per la prima volta, alcuni dati sui possibili effetti delle delocalizzazioni in termini di perdite dei posti di lavoro e, in tale occasione, la Commissione ha reso noto il numero dei lavoratori potenzialmente beneficiari di tale fondo, tra i 35 e i 50 mila all’anno. Il numero di beneficiari reali del fondo è stato però di gran lunga inferiore, come pure l’ammontare della spesa. Dal 2007 ai primi mesi del 2012, gli interventi di politica attiva hanno interessato circa 90 mila lavoratori licenziati per una spesa totale di 435 milioni di euro. Il fenomeno delle delocalizzazioni risulta relativamente più contenuto in Europa, almeno rispetto agli USA. Dall’analisi del periodo 2002-2006 si ricava che il picco dell’Unione europea è stato raggiunto nel 2002, seguito da un progressivo calo. Nello stesso periodo i paesi più colpiti sembrano essere stati UK e Germania, meno Francia, Spagna e Italia. Tra i differenti tipi di ristrutturazione, la metà ha riguardato i processi aziendali interni, seguiti da chiusure di imprese, mentre le delocalizzazioni non sono andate oltre il 10%. Queste ultime sono avvenute in misura maggiore nel periodo 2005-2006. Si tratta comunque di processi di delocalizzazione sia verso paesi dell’Unione che all’estero. A differenza delle multinazionali europee, quelle americane e giapponesi sembrano più propense a delocalizzare verso paesi con costi inferiori, contribuendo così alla perdita dei posti di lavoro soprattutto nel settore dei servizi, piuttosto che in quelli manifatturieri. Quali sono quindi le ragioni che spiegano gli effetti relativamente contenuti, almeno nell’Unione europea, delle perdite di posti di lavoro a causa delle delocalizzazioni? Un primo gruppo di spiegazioni potrebbe derivare dalla natura delle imprese: i dati ERM evidenziano infatti la maggior propensione delle aziende multinazionali a delocalizzare, per cui dove queste sono meno presenti (Italia) il fenomeno potrebbe essere meno accentuato di quanto lo sia in altri paesi (UK). Occorre probabilmente tenere conto anche di altri fattori rilevanti: da un lato, la capacità di risposta degli attori locali alle esigenze globali di ristrutturazione delle stesse imprese multinazionali; dall’altro, la già accentuata diffidenza a spostare unità produttive in paesi che non offrono infrastrutture adeguate. Oggi molti consulenti, quando le loro imprese clienti pensano di aprire un’unità produttiva in Cina, suggeriscono l’alternativa di restare nel paese di origine perché l’economia della globalizzazione sta cambiando rapidamente. Il vantaggio dei bassi salari sta tendendo infatti a ridursi. La crisi finanziaria iniziata nel 2008, e proseguita negli anni successivi, con centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in gran parte dei paesi OCSE, è probabilmente la principale responsabile della ricomparsa dello spettro delle delocalizzazioni. 2. Il lavoro rubato dalla globalizzazione: la necessaria temuta immigrazione straniera Il lavoro che manca perché sottratto dai lavoratori stranieri costituisce un altro diffuso stereotipo relativo agli effetti della globalizzazione. È pur vero che i migranti a livello globale sono cresciuti, si tratta però di una 2

cifra relativamente contenuta se raffrontata alla cifra dei migranti interni ai vari paesi che possono esercitare una maggiore competizione sui rispettivi mercati del lavoro. In America, pur tra polemiche e campagne per restringere gli ingressi, sono stati dimostrati i benefici sia economici che sociali del contributo degli immigrati stranieri nella nazione. Ciò non ha tuttavia impedito il riproporsi della questione del lavoro rubato dagli stranieri, per una serie di ragioni. Sono innanzitutto cambiati i soggetti di tale percezione: a volte sono gli stessi figli degli immigrati a manifestare gli atteggiamenti più aggressivi e intolleranti. Inoltre, tendono a cambiare identità e motivazioni delle nuove ondate di immigrazione. Sapere chi sono e perché si muovono i lavoratori stranieri sono elementi essenziali. La motivazione principale resta il lavoro. Anche chi aspira a una carriera o a un’attività imprenditoriale, irrealizzabile nel suo paese, è inizialmente disponibile ad accettare un lavoro qualsiasi. Perciò anche nella crisi, come in quella attuale, pur essendo i più colpiti, hanno superiori capacità reattive e di adattamento rispetto ai lavoratori locali. Si può osservare che solo un migrante su tre si muove da un paese in via di sviluppo a un paese sviluppato. Sono soprattutto i costi di emigrare che frenano il fenomeno o che comunque lo rendono più diffuso tra le aree confinanti o più vicine. Negli Stati Uniti gli ingressi netti dell’ultimo decennio sono stati circa 500 mila all’anno, contribuendo a far salire il numero di immigrati illegali occupati a 8,3 milioni. Più comparabili a quelli americani sono i flussi annui di immigrati nei paesi dell’unione europea e in particolare nei paesi mediterranei che non si traducono però in stock di lavoratori immigrati illegali, grazie alle più o meno frequenti sanatorie, con il risultato di contenere la cifra al di sotto del 10% della popolazione di origine straniera. La destinazione migratoria verso i paesi mediterranei, a partire dagli anni 90, costituisce una delle due principali novità del fenomeno per effetto della globalizzazione, poiché in passato questi paesi erano sempre stati luoghi di massiccia emigrazione. La seconda novità è rappresentata dal fatto che, a differenza delle precedenti ondate migratorie maschili, le ondate più recenti si caratterizzano per la presenza di donne in misura quasi uguale a quella degli uomini. Si tratta di un fenomeno ormai diffuso nella maggior parte dei paesi OCSE e che secondo alcuni può essere spiegato dalla segregazione occupazionale di genere, data la maggior domanda di impiego per le donne straniere. Ai vantaggi in termini di posti di lavoro disponibili, corrispondono gli svantaggi relativi a condizioni di lavoro meno favorevoli, paghe basse e lavoro dequalificato, ovvero alta vulnerabilità sociale. La crisi ha contribuito a dar fiato a una nuova ondata di richieste di controlli e restrizioni rispetto agli stranieri accusati di portar via il lavoro. Eppure, anche e soprattutto nel nostro paese, le ricerche empiriche e i dati danno ampio supporto alla tesi che gli stranieri non rubano lavoro agli italiani e che sarebbe impensabile limitare il flusso di nuovi arrivi. I dati ISTAT mostrano che gli stranieri presenti in Italia si sono più che triplicati nell’ultimo decennio. Questi dati segnalano anche che il lavoro immigrato straniero è cresciuto in Italia nonostante la crisi economica. Se gli occupati totali sono infatti diminuiti, tale diminuzione ha interessato soprattutto i lavoratori italiani, mentre i lavoratori stranieri sono cresciuti di quasi il 50%. Che tale crescita di lavoro straniero corrisponda essenzialmente a una domanda di lavoro profondamente in trasformazione nel nostro paese è dimostrato dalla sua distribuzione territoriale prevalentemente nelle aree 3

più ricche. L’aumento del lavoro straniero, anche in tempo di crisi, e il contemporaneo calo degli occupati italiani, per effetto della stessa crisi, possono aver indotto ad un collegamento tra le due tendenze che di fatto non esiste, poiché la prima ha riguardato soprattutto le qualifiche low skilled, a differenza di quanto avvenuto con la seconda. La realtà mostra infatti un’offerta di lavoro straniero prevalentemente concentrata nelle qualifiche manuali, generalmente sostitutiva e non competitiva rispetto a quella italiana, carente proprio in tali qualifiche. Le ricerche tendono inoltre ad evidenziare che al Centro-nord il numero di operai pensionati è superiore al numero di giovani disposti a sostituirli, per cui senza i lavoratori stranieri lo sviluppo italiano sarebbe stato e sarebbe tutt’oggi ancora più a rischio. Senza contare che in Italia le leggi di regolarizzazione hanno consentito finora di fruire dei contributi sociali degli stranieri, indispensabili per sostenere il nostro sistema di welfare. Secondo l’economista Borjas, le conseguenze dell’immigrazione clandestina di lavoro possono essere negative da un lato per la concorrenza esercitata sulle paghe nazionali dei lavoratori low skilled e dall’altro lato per il carico fiscale, ovvero per le minori tasse pagate rispetto ai benefici pubblici ricevuti. Tale carico fiscale sarebbe però più pesante per gli stati ad elevato tasso di immigrazione, ricadendo sui servizi sanitari e di istruzione erogati a livello locale. Questa sarebbe stata una delle ragioni principali alla base della posizione fortemente contraria del partito repubblicano rispetto alle proposte del congresso americano per regolarizzare l’immigrazione clandestina. Il governo americano ha a disposizione tre tipi di strategie o strumenti per regolare l’immigrazione: controlli ai confini che limitano le opportunità di ingresso; controlli ex post all’interno del paese; leggi e politiche di riforma per dare uno status ai milioni di immigrati clandestini. Il primo tipo è stato predominante nel periodo che ha preceduto la crisi e ha espresso di fatto una scelta politica di crescita dell’immigrazione clandestina, che rispondeva ai bisogni del mercato del lavoro in modo più efficace rispetto a quella legale. Tale politica tendeva a incentivare comportamenti meno propensi al crimine e più al conformismo da parte dei lavoratori stranieri clandestini, rispetto alla popolazione americana della stessa età e del medesimo livello di istruzione, per il timore di esporsi e di rischiare il rimpatrio. Con l’inizio della crisi, anche il tipo di strumento per regolare l’immigrazione tende ad essere il secondo. L’occupazione americana registra un vero e proprio crollo, principalmente nei settori manifatturieri e dei servizi meno innovativi e low skilled, e il dibattito sulla competizione dei lavoratori stranieri tende a infiammarsi insieme alla rapida crescita dei raid nei luoghi di lavoro per individuare, arrestare o rimpatriare i clandestini. Il dibattito sul terzo tipo di strumenti continua invece a non produrre risultati significativi. Anche nel caso dell’immigrazione, come in quello delle delocalizzazioni, la percezione degli effetti sul lavoro nei diversi paesi è stata quindi ampiamente condizionata dalla crisi e dalle relative conseguenze negative sull’occupazione, in particolare low skilled, determinando posizioni più intolleranti, richieste di misure sempre più restrittive e minor considerazione del reale impatto del fenomeno sull’economia nelle rispettive aree di accoglienza, oltre che in quelle di provenienza. Anche tra gli economisti che più hanno sottolineato i possibili effetti di svantaggio per i paesi di accoglienza, le analisi hanno pure evidenziato i

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molteplici e superiori vantaggi rispetto alla semplicistica visione dei posti di lavoro rubati, quali ad esempio il surplus originato dalla immigrazione clandestina in termini di crescita del PIL.

3. Il lavoro che resta: tra ristrutturazioni e innovazione Le trasformazioni del lavoro stanno avvenendo in gran parte per effetto dei processi di ristrutturazione che interessano sempre più imprese, settori, territori, quando non interi paesi e organizzazioni ma che possono avere impatti diversi a seconda dei diversi modelli di governance. Da almeno 3 decenni si registrano cambiamenti radicali rispetto alle strategie e strutture aziendali tipiche della produzione di massa, dapprima nel segno della produzione giapponese della produzione snella, quindi con crescenti e irreversibili processi di disintegrazione verticale, nuove forme di collaborazioni, diffusi meccanismi sociali di lernign by monitoring, che hanno portato all’affermarsi di modelli non standard di impresa, contrapposti al tradizionale modello fordista. Da ciò deriva il moltiplicarsi e la combinazione di sempre più estesi fenomeni di outsourcing e offshoring, che sono originati da strategie manageriali in continuo mutamento e adattamento alla realtà dei diversi paesi, e che producono una frammentazione globale delle attività, di produzione e dei servizi. I casi di governance di maggior successo sono stati quelli in cui si sono sviluppati processi di anticipazione strategica delle ristrutturazioni, in grado cioè di gestire in anticipo gli effetti delle trasformazioni del lavoro, in quanto hanno potuto avvalersi di tempo e spazio per intervenire su struttura e qualità del lavoro in risposta alle pressioni dei mercati globali, all’innovazione tecnologica, all’evoluzione del capitale umano, mantenendo un accettabile equilibrio tra obiettivi economici e sociali. Che i sistemi istituzionali che caratterizzano i contesti in cui operano le imprese abbiano contribuito in maniera rilevante a definire i risultati dei processi di ristrutturazione lo dimostra innanzitutto il fatto che nelle multinazionali americane e anglosassoni l’headquarter ha lasciato sempre tempi e spazi di manovra molti stretti agli attori locali e ha preso spesso decisioni unilaterali sulla eventuale chiusura di proprie unità nei vari paesi. Diversamente, le imprese europee sono state più condizionate dal modello del dialogo sociale che obbliga a un percorso di maggior coinvolgimento degli attori istituzionali e sociali nei processi di ristrutturazione. Proprio gli strumenti e le procedure relativi alla gestione dei processi di ristrutturazione delle imprese hanno costituito un ambito innovativo e dinamico del dialogo sociale europee molto prima della crisi del 2008. Gli effetti positivi sulla crisi si sono particolarmente manifestati in alcuni paesi (Austria, Francia, Germania, Olanda) che hanno saputo meglio di altri implementare misure quali flessibilità e riduzione dell’orario di lavoro o sospensione temporanee del lavoro al fine di limitare il ricorso ai licenziamenti. Il ruolo del coinvolgimento delle parti sociali è ampiamente riconosciuto per una serie di ragioni: innanzitutto, nelle politiche di sviluppo professionale e di miglior incontro tra domanda e offerta, le parti sociali detengono maggiore conoscenza e esperienza pratica delle professionalità più richieste e dei gap da 5

ridurre; secondariamente, le misure di riforma possono essere impopolari e richiedere sacrifici che le stesse parti sociali possono meglio facilitare con il loro coinvolgimento e supporto. Appare evidente che il modello di dialogo sociale europeo tende a definire capitalismo di maggiore coesione sociale rispetto a quello americano, ovvero con un approccio più istituzionale ai fenomeni economici e alle loro conseguenze. La storia più recente, relativa ai processi di ristrutturazione economica, è stata infatti oggetto di molteplici ed estese forme di regolazione sociale nell’Unione europea. Tale storia si è caratterizzata fino alla fine degli anni 70 per la governance di significativi processi di deindustrializzazione che sono stati molto selettivi. Hanno riguardato infatti alcuni specifici settori (tessile, acciaio, carbone, costruzioni navali) e successivamente alcune aree, quali quelle di più antica industrializzazione, senza toccare altre dove l’occupazione cresceva, come ad esempio i distretti industriali italiani. La politica sociale europea è intevenuta in questi casi per ridurre i costi sociali, mettendo a disposizione i fondi strutturali per il riaggiustamento industriale e gli ammortizzatori sociali. L’ultima ondata di deindustrializzazione, e quindi di ristrutturazioni profonde per evitare la chiusura delle imprese, è avvenuta negli anni 90 e ha riguardato le aziende statali dei paesi del socialismo reale dell’Europa orientale, non più in grado di stare sui mercati e ancor meno di competere con quelle del capitalismo occidentale. Nella fase attuale, la diversa natura dell’impresa tende ad imporre modalità differenti anche dei processi di ristrutturazione. Alla deindustrializzazione dei sistemi locali di produzione si accompagna infatti la necessità per le imprese di affermarsi nei mercati globali e, soprattutto per le imprese dei tradizionali distretti industriali, di entrare nelle reti lunghe della fornitura e di sviluppare le componenti high tech. Se da un lato l’impresa globale tende ad assumere un ruolo chiave rispetto ai giochi locali, questi sono sempre più incentivati alla produzione di beni collettivi di vantaggio competitivo. È stato quindi proprio grazie a questi proce...


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