Filosofia - Riassunto biografia/opere di alcuni autori PDF

Title Filosofia - Riassunto biografia/opere di alcuni autori
Course Filosofia del diritto
Institution Università degli Studi di Milano
Pages 26
File Size 295.5 KB
File Type PDF
Total Downloads 54
Total Views 147

Summary

Riassunto biografia/opere di alcuni autori...


Description

ROBERT NOZICK – LA CONCEZIONE RETRIBUTIVA DELLA PENA Nozick si chiede che senso abbia dire che “la punizione è meritata”, e se questa nozione di punizione meritata non sia un po’ primitiva, come se mascherasse una sorta di desiderio di vendetta. Egli collega la teoria della punizione con una necessaria teoria del risarcimento delle vittime, perché chi commette ingiustizia deve essere punito, e deve risarcire chi ha danneggiato. La punizione dipende dalla grandezza (che Nozick chiama “H”) dell’ingiustizia commessa, e dal grado di responsabilità (“r”) della persona; la sua grandezza è dunque uguale al prodotto r x H, tenuto conto che r (grado di responsabilità) va da 0 (nessuna responsabilità) a 1 (responsabilità piena, massima): per cui la punizione è H quando la responsabilità è piena, non vi è invece punizione se la responsabilità è 0 (cioè non c’è responsabilità). Tuttavia non tutti condividono tale teoria; Nozick procede allora ad una distinzione tra retribuzione e vendetta: 1. La retribuzione è inflitta sempre per un’ingiustizia, la vendetta non necessariamente 2. La retribuzione pone un limite (la gravità dell’ingiustizia) alla grandezza della punizione, mentre la vendetta, per sua natura, è priva di limiti 3. La vendetta è personale, invece l’agente della retribuzione può non avere nessun legame con l’ingiusto 4. La vendetta comporta un “piacere” per la sofferenza dell’altro, mentre la retribuzione no. Al massimo, comporta semplicemente il piacere di vedere fatta giustizia 5. La vendetta non è generale perché riguarda solo un atto specifico, e non tutti gli atti della medesima specie, come invece è la retribuzione, che impone la stessa punizione nei casi analoghi. L’unica cosa che retribuzione e vendetta hanno in comune è il fatto che una pena viene inflitta per una certa ragione, con il desiderio che l’altro sappia perché questo accade (anche se la struttura della retribuzione è molto più complessa ed articolata, in 9 condizioni, della vendetta [p.273]). Ad ogni modo, quando puniamo qualcuno vogliamo comunicargli un messaggio (la punizione retributiva è un messaggio comunicante), e più precisamente: “ecco quanto è ingiusto quello che hai fatto”. Ma se il nostro intento è solo quello della comunicazione, perché non ci limitiamo a questo, senza fare seguire l’applicazione della pena? Alcuni dicono che la punizione è necessaria, per DIMOSTRARE, e non solo DIRE, al colpevole che il suo atto era ingiusto; altri pensano che essa abbia una funzione “morale”, cioè migliorare moralmente il colpevole. Ma tutte queste tesi sono basate sulla SPERANZA CHE LA PERSONA PUNITA SI RENDA CONTO CHE L’ATTO COMPIUTO ERA INGIUSTO, nel momento in cui viene punita (CONCEZIONE TELEOLOGICA DELLA PENA, dal greco “telos” = fine, scopo). Secondo questa teoria, se ci troviamo di fronte ad un colpevole che ha un deficit mentale tale che gli impedisca di comprendere ciò, questo non potrebbe nemmeno essere punita; ma anche se fosse stato in grado di comprendere, avremmo noi evitato la pena ad un assassino come Hitler? Senza tenere conto del fatto che avere la consapevolezza di ciò che si è fatto potrebbe avere conseguenze disastrose sul colpevole, tali da portarlo anche al suicidio. Secondo Nozick, insomma, la teoria teleologica della pena è troppo ottimistica, e dunque non è sufficiente. Egli propone una teoria diversa, che definisce “retributiva”. La teoria diversa, proposta la Nozick, parte dal fatto che il colpevole (l’ingiusto) non è più connesso con i valori corretti, e che lo scopo della punizione è riconnetterlo a tali valori corretti. Questi sono privi di valore causale in sé, per cui è l’ingiusto che volontariamente sceglie di tenerli fuori dalla sua vita, e dunque sarà compito di un altro farceli entrare attraverso la punizione, che farà in modo che tali valori corretti abbiano una qualche realtà importante nella sua vita. Ecco perché secondo Nozick non ci possiamo limitare a “comunicare”

al colpevole che il suo atto è ingiusto, e a ciò facciamo seguire la punizione. Nozick sicuramente riconosce un certo valore teleologico della punizione, che eventualmente può portare al miglioramento morale del colpevole; ma anche se ciò non avviene, comunque la punizione avrà degli effetti sulla sua vita (pensiamo al carcere). Dunque ci si potrebbe chiedere perché non si possono punire coloro che in determinate circostanze POTREBBERO COMMETTERE ATTI INGIUSTI e che magari per loro stessa ammissione hanno certi difetti di carattere. La spiegazione è che nessuno è autorizzato a dare dimostrazione delle verità morali a quelli che le ignorano, e comunque anche in presenza di un acclamato difetto di carattere non è detto che questo possa essere direttamente responsabile di eventuali atti ingiusti successivamente compiuti. Per punire, abbiamo bisogno di atti, già compiuti: CHI COMMETTE UN’INGIUSTIZIA OLTRAGGIA I VALORI CORRETTI E VA CONTRO DI ESSI, NON E’ COLLEGATO A QUESTI, MA LA PUNIZIONE OPERA QUESTA CONNESSIONE E RETTIFICA LO SQUILIBRIO. Nozick riprende una domanda iniziale, chiedendosi se deve essere punito qualcuno che successivamente al fatto impazzisca, o perda la memoria: è impossibile però connetterla con i valori corretti, perché non è in grado di capire. Oppure deve essere punito chi si è sinceramente pentito del proprio atto e lo ha concretamente dimostrato, con opere e fatti? Anche in questo caso secondo Nozick non c’è bisogno della punizione perché l’ingiusto è già “connesso” ai valori corretti e questi svolgono un ruolo importante nella sua vita; questo dimostra come esistano anche altri modi, oltre alla punizione, per riconnettere gli ingiusti ai valori corretti, per esempio l’ispirarsi a figure di saggi, che però sono rare, e questo in realtà fa sì che la punizione sia l’unica via agibile in “epoche moralmente povere” (cioè in tutte finora). Tuttavia bisogna sempre tenere presente quel parametro dell’ingiustizia che è la sua grandezza, per esempio non si potrebbe negare una punizione ad un Hitler redento dopo aver incontrato un saggio filosofo, perché non si avrebbe in caso contrario la risposta piena e necessaria alla grave ingiustizia commessa.

HERBERT L.A. HART – NORME PRIMARIE E SECONDARIE L'opera più famosa di Hart è "Il concetto di diritto" nella quale egli, riprendendo una celebre espressione usata già da John Austin, afferma di aver finalmente trovato "la chiave della Jurisprudence, o filosofia del diritto": se per Austin questa era la concezione di "ordine coercitivo", cioè di un ordine rafforzato da minacce, per Hart invece essa è l'unione di due tipologie di norme, quelle PRIMARIE e quelle SECONDARIE. Le norme primarie (primary rules) sono quelle di Austin, nel senso che esse conferiscono obblighi e doveri agli individui, mentre le altre (secondary rules) hanno una funzione diversa perchè servono a dare agli individui i mezzi per realizzare i loro progetti nella cornice coercitiva del diritto. Hart dice che naturalmente è possibile immaginare una società priva di un potere legislativo costituito, di tribunali o funzionari di ogni genere: basti pensare alle comunità primitive, nelle quali l'unico strumento di controllo sociale è costituito dalla corrispondenza dei comportamenti dei membri della comunità. Oggi potremmo dire che questo è un ordinamento che si basa sulla "consuetudine", ma Hart preferisce non usare tale parola, che è indice di norme sostenute da una pressione sociale minore da parte del gruppo; Hart dice che tale ordinamento si basa su quelle norme che egli definisce "primarie", che impongono doveri agli individui, e che però tale ordinamento può sopravvivere solo se il gruppo sociale è coeso, legato da vincoli di parentela e di credenze, e stabile in un determinato territorio. Infatti un ordinamento più complesso non può basarsi solo su questo sistema di controllo sociale, visti i difetti che esso presenta: innanzitutto, non essendoci un sistema coerente di leggi, ma solo dei criteri singoli, in questo simili più che a norme alle regole di etichetta, se emerge un dubbio circa la corretta interpretazione di una norma, tale conflitto non può essere risolto perchè non vi è nessun testo legislativo o nessuna autorità cui fare riferimento che possa risolvere d'autorità la questione. Questo primo difetto viene indicato da Hart come "incertezza" delle norme primarie, ma ve ne sono altri: la "staticità" di questo diritto, che non conosce altro modo di cambiare se non con i processi spontanei e naturali della crescita, per cui un comportamento prima facoltativo diventa poi abituale e consueto e infine obbligatorio, e quello inverso della desuetudine: non vi sono sistemi per consentire un adeguamento del diritto alle continue mutevoli esigenze della società. L'ultimo difetto che Hart rileva è quello della "inefficacia" della pressione sociale che sostiene tali norme, a suo dire insufficiente perchè, una controversia sulla violazione o no di una certa norma, cosa che può accadere in qualsiasi ordinamento giuridico, anche semplice, in quest'ultimo tipo di ordinamento non avrà mai fine, perchè non vi è chi possa risolvere d'autorità tale questione in modo definitivo. A questo difetto se ne ricollega un altro, distinto però, che è quello della sanzione, che in questo tipo di ordinamento semplice non viene irrogata da un'autorità costituita a questo scopo ma viene affidata o al soggetto il cui interesse è leso o al gruppo sociale (vendetta). Il rimedio più semplice a questi difetti è introdurre altre norme oltre quelle primarie che impongono doveri, integrarle cioè con le cosiddette norme secondarie che sono completamente diverse: infatti sono due tipi di norme su due livelli diversi, visto che le norme primarie prescrivono cosa gli individui devono o non devono fare, mentre invece le norme secondarie hanno per oggetto le norme primarie stesse. Innanzitutto possiamo introdurre una norma secondaria per eliminare il difetto della "incertezza", mediante una norma "di riconoscimento", cioè una norma che indichi le qualità o i requisiti per cui un'altra norma, primaria, faccia o non faccia parte di quell'ordinamento giuridico. Negli ordinamenti giuridici antichi tale norma di riconoscimento era molto semplice, ed era semplicemente quella che rimandava ad un elenco o testo di leggi, scritto o inciso ed esposto in un monumento pubblico. Chiaramente tale passaggio è quello tra mondo pre-giuridico e mondo giuridico, ma la cosa fondamentale è che si stabilisce un criterio definitivo per individuare d'autorità le norme primarie di un ordinamento. Se poi gli ordinamenti sono più complessi, tali saranno anche le norme di riconoscimento,

che per esempio avranno determinati requisiti di generalità. Analogamente per eliminare il difetto "staticità" del diritto composto di sole norme primarie, Hart dice che si può introdurre un altro tipo di norma secondaria, la norma di "mutamento", che conferisce ad un soggetto o più soggetti il potere di eliminare leggi vecchie ed introdurre nuove norme. Solo così si possono comprendere i concetti di abrogazione ed emanazione delle leggi. Anche qui potranno esserci norme di mutamento più o meno complesse, da quella più semplice a quella che prevede anche determinati procedimenti da seguire o maggiori poteri conferiti. C'è uno stretto legame tra norma di mutamento e norma di riconoscimento, perchè se un ordinamento ha la prima, la norma di riconoscimento necessariamente dovrà comprendere un qualche riferimento alla fonte di produzione legislativa, e se il sistema ha una sola fonte normativa che è la legge, allora solo le leggi saranno le norme riconosciute da quell'ordinamento. In ultima analisi possiamo introdurre una norma secondaria, la norma "di giudizio" per ovviare al terzo difetto, l'inefficienza della pressione sociale che sostiene tali norme primarie. Questa norma andrà a conferire a determinati organi o soggetti (tribunali e giudici) il potere di decidere d'autorità sulla violazione o meno di una norma primaria in una data circostanza, e dunque ad introdurre concetti nuovi, quelli di giudizio, giudice, giurisdizione e tribunale per esempio. Una conseguenza sarà anche il fatto che l'applicazione della sanzione spetterà non al soggetto leso o al gruppo sociale, ma unicamente al giudice che affiderà tale compito a specifici funzionari. C'è un legame stretto anche tra norma di giudizio e norma di riconoscimento perchè ovviamente il giudice può pronunciarsi sulla violazione o meno delle norme primarie solo se queste sono identificate dalla norma di riconoscimento. Hart si sofferma in particolare sulla norma di riconoscimento per evidenziare il concetto di validità giuridica, chiedendosi per esempio come si può affermare che un dato regolamento è valido; lo si può dire se il regolamento è stato emanato in conformità con il decreto legislativo del ministro competente, e dunque a sua volta conforme alla legge del Parlamento, la cui volontà è legge. Arrivati alla legge del Parlamento non c'è nessun'altra norma che dica che la legge del Parlamento è valida e dunque ci si deve necessariamente arrestare: Hart si chiede se questa norma è dunque usata come norma di riconoscimento. In effetti è così, perchè dire che un regolamento è conforme alla legge è un'affermazione giuridica interna, mentre dire che la legge del Parlamento è una norma di riconoscimento è un'asserzione fattuale esterna che potrebbe essere fatta da chiunque: dunque la sua validità non può essere discussa o accertata, ma è semplicemente accettata come adatta per il suo scopo (non assunta o postulata, perchè vorrebbe dire che noi consideriamo qualcosa come valido ma non possiamo mai accertarlo, per esempio non potremo mai dimostrare che la sbarra di metallo a Parigi è lunga effettivamente un metro).

GIUSEPPE CAPOGRASSI – OBBEDIENZA E COSCIENZA

Lo spunto per questa riflessione di Capograssi è una sentenza del Tribunale Militare di Torino (1949), che affermava che in ossequio ai principi del diritto positivo non possono essere assunti come scusanti motivi personali dettati dalla coscienza, in contrasto con il dovere di obbligatorietà del servizio militare e con l'obbedienza che si deve alla disciplina militare. Perciò si rende colpevole di disobbedienza il soldato che si rifiuti di obbedire agli ordini impartiti dai superiori perchè ripugnano alla sua coscienza. La sentenza pare essere estremamente chiara, per cui non sembra necessaria alcuna glossa: Capograssi sottolinea che "obbedire" significa essenzialmente "eseguire un precetto", e che in realtà la nostra vita sociale è fatta di tantissimi atti correlati di obbedienza, che costituiscono quello che è il nostro stesso ordinamento giuridico, come ordinamento fatto di atti di obbedienza. Capograssi dice che si obbedisce per diverse ragioni, e che in ogni atto di disobbedienza ci sono sempre due aspetti: da una parte, le motivazioni contingenti legate alla particolare psicologia del momento (si può obbedire per paura, per interesse, per conformismo, per automatismo e così via); c'è poi un altro aspetto, cioè quello per cui in ogni atto di obbedienza interviene la nostra coscienza: cioè si obbedisce, al di là delle motivazioni psicologiche, per l'intima convinzione che è giusto e necessario adeguare il proprio comportamento alle norme dell'ordinamento giuridico, che regolano la stessa vita sociale del soggetto. Dunque ogni atto di disobbedienza è un atto arbitrario, episodico e contraddittorio con se stesso e con lo stesso comportamento che la coscienza comunque accompagna; tuttavia, ci sono degli altri atti di disobbedienza che non sono puramente arbitrari, ma che sono dovuti ad un conflitto interno alla stessa coscienza: cioè quando si disobbedisce ad una norma non per arbitrio, ma per obbedire ad un altro principio, norma o esigenza. Se il contrasto tra le due è lieve, allora rimane latente nella coscienza dell'individuo, ma a volte può degenerare, e la coscienza ha un'entità quasi dilaniata tra due esigenze opposte, perchè obbedire ad una implica necessariamente disobbedire all'altra. Per esempio, una tale crisi di coscienza può essere determinata dall'apparire di leggi ingiuste (le leggi naziste di cui parla Radbruch), che negano ogni principio di dignità ed uguaglianza: e allora si disobbedisce a queste, per obbedire a quei principi; o ancora, delle leggi possono negare l'esistenza di valori religiosi: se però ci si crede, si disobbedirà alle leggi anche in questo caso. Capograssi nota poi che vi sono anche delle altre disobbedienze, estremamente radicali, che sono proprie di quegli uomini la cui coscienza si distacca completamente dal sentire comune: le eresie, che egli definisce "tolstoiane", perchè a suo avviso la vita dello scrittore russo Tolstoj ne è un perfetto emblema. Si tratta di casi non di disobbedienza arbitraria e dunque in sè contraddittoria, nè di disobbedienza in nome di un più alto imperativo, ma di vero e proprio rifiuto della società tutta: se si vuole essere davvero dei veri cristiani, non si deve essere nè soldati nè funzionari nè elettori nè eletti: è il crollo dell'intero mondo sociale. A proposito dell'obbedienza, Capograssi dice che le scuole solevano distinguere tra due tipi di obbedienza, una formale, cioè con la convinzione di obbedire, oltre l'atto, e una materiale, a prescindere invece da tale convinzione. Ci si può chiedere che tipo di obbedienza richieda l'ordinamento giuridico: questo vuole semplicemente che i soggetti obbediscono, e non si cura delle loro motivazioni: dunque una obbedienza materiale. Sul piano storico, Capograssi rileva che la storia stessa è fatta di contrasti tra coscienze oggettive, consolidate nell’ordinamento positivo, e coscienze che vanno maturando una loro oggettività e che tentano di soppiantare le prime. Dunque l’ordinamento positivo è relativamente solido, e al riparo da questo variare di valori: è una sorta di “assicurazione” contro le variazioni dei valori della storia, che ha il suo strumento di sicurezza proprio nei tribunali. Ma il vero paradosso, secondo Capograssi, è che l’ordinamento, richiedendo soltanto l’azione, lascia libero corso alla coscienza, non la disturba. La singola coscienza può maturare nel suo intimo segreto le critiche, riflettere, senza che l’ordinamento esiga alcunché. Questa verità si sa da sempre, ma secondo Capograssi è stata l’esperienza degli stati totalitari a farla comprendere in concreto. Infatti uno dei tratti singolari di uno stato totalitario è che non si accontenta dell’atto di obbedienza, ma richiede l’adesione intera della coscienza, cioè che la

coscienza cessi di essere se stessa per diventare coscienza dello stato. Di qui gli aspetti negativi dei totalitarismi: il fanatismo che è proprio di una coscienza che ha perso il suo oggetto naturale per accoglierne uno che le è imposto. E infatti il delitto politico era gravissimo negli stati di questo tipo, perché consiste nella non adesione della coscienza al regime. Capograssi allora riflette sui cosiddetti obiettori di coscienza. Dinanzi al tribunale, la loro disobbedienza è pura e semplice disobbedienza arbitraria. Pagare le tasse e le imposte, che rendono possibile una guerra, e rifiutare il servizio militare è solo una contraddizione della stessa coscienza. O meglio: in questi casi non è in gioco la coscienza, ma uno stato emozionale di preferenza o di ripugnanza. Secondo Capograssi, il primo dovere è sicuramente di farsi una coscienza retta e onesta, e non confonderla con tali stati emozionali. La coscienza è consapevolezza concreta della vita, e dunque in relazione al problema della guerra, il suo dovere è quello di non estraniarsi dalle lotte storiche, ma di difendere nelle lotte storiche la giustizia, come insegnato dalla tradizione cristiana o anche da Pascal.

EUGEN EHRLICH – LA SOCIOLOGIA DEL DIRITTO

Ehrlich si chiede se esiste un diritto unico, o se invece esistono solo diritti diversi per ciascuno stato o popolo. La maggioranza dei giuristi propende per la seconda ipotesi. Essi hanno sempre sentito parlare di diritto romano, inglese, francese, italiano e ormai nessuno crede più al diritto naturale come un diritto comune che sia sopra a tutte queste diversità. Ehrlich dice però di Limmaginare di fare un viaggio in un paese sconosciuto, di cui non conosciamo nulla. Ciononostante, noi saremmo sicuri di trovare anche in questo sconosciuto luogo una famiglia, dei negozi, una moneta: tutto ciò, so...


Similar Free PDFs