Forme della citta sociologia dell urbanizzazione a cura di massimiliano guareschi e federico rahola PDF

Title Forme della citta sociologia dell urbanizzazione a cura di massimiliano guareschi e federico rahola
Author Giu Ferra
Course Sociologia
Institution Università degli Studi di Genova
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Forme della città, Sociologiadell'urbanizzazione, a cura diMassimiliano Guareschi eFederico RaholaSociologia Università degli Studi di Genova 11 pag.Document shared on docsityForme della cittàIntroduzioneLa forma della cittàNel 1973 Paolo Pasolini realizza un documentario di 15 minuti nel quale evid...


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Forme della città, Sociologia dell'urbanizzazione, a cura di Massimiliano Guareschi e Federico Rahola Sociologia Università degli Studi di Genova 11 pag.

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Forme della città Introduzione La forma della città Nel 1973 Paolo Pasolini realizza un documentario di 15 minuti nel quale evidenzia come, nel caso di Orte e sul lungomare di Sabaudia, avviene un “delitto”, vittima del quale è la “forma della città”. Dal film si evince che il 1973 è stato un anno decisivo nel quale avviene la distruzione della “forma della città”. Esplosioni A partire dal 1973, come testimoniano due casi (Pruitt-Igoe e Cochran Gardens) e il romanzo Gli inquilini, il crollo dei tenement diventa un vero e proprio fenomeno di quel periodo. Come le ha definite Lefebvre, queste “esplosioni” hanno provocato la morte della modernità architettonica e della “forma della città”. Ma a quale “forma della città” stiamo facendo riferimento? A quella della Parigi di Haussmann e della New York di Moses, sviluppata tra il 1852 e il 1973, che potremmo definire “città moderna”, originata da una crisi di sovra-accumulazione (dalla quale hanno origine i tenement) e morta a causa di una crisi di indebitamento. Da questo momento in poi si ricerca una forma della città autentica che ci porta alla rinascita di quartieri concepiti come “borghi” e all’imponente ritorno del centro. In questo caso è più opportuno parlare di “immagine della città”, ossia quella sorta di corporate identity di cui quasi ogni città è alla disperata ricerca per competere. Reti Possiamo interpretare questo periodo attraverso quattro trame differenti che riguardano la trasformazione della città: • la riaffermazione dei requisiti urbani di localizzazione centralizzata (tendenza centripeta); • “forma” tentacolare della città moderna (tendenza centrifuga); • addensamento per impatti che provoca l’esplosione delle metropoli del Sud globale nelle quali l’immagine prevalente è quella di ultramoderne torri in vetrocemento che sovrastano enormi distese di accampamenti fuori e dentro le mura; • manipolo di città dal “glorioso passato” industriale o portuale che si contraggono, tendono a svuotarsi, quasi a estinguersi. E’ possibile tenere insieme tutte queste trame? Rappresenta un tentativo il “modello” delle città globali che legge unitariamente l’evoluzione dello spazio urbano nel contesto allargato dei processi globali: “esiste una rete di città globali”. Si tratta di rileggere gli spazi urbani in quanto investiti da un piano di processi isomorfi, che alimentano e producono differenze, e di seguire queste linee o piani per rendere conto delle trasformazione e dei regimi di disuguaglianza che investono sia le città al loro interno sia, gerarchicamente, le città tra loro. Infatti il termine “rete” implica una gerarchia. Oggi le città si avvicinano, si assomigliano, tendono ad assumere un’immagine e una fisionomia di superficie comuni e contemporaneamente si allontanano, diversificandosi tra loro e al proprio interno. Dunque ci si allontana definitivamente dalla forma “regolare” e soprattutto regolata della città moderna. All’interno dei processi di ridefinizione spaziale e politica le città si riempiono di buchi, scarti, margini e, soprattutto, confini: luoghi di differenza nelle e tra le città in rete. E’ proprio da qui che bisogna partire se si vuole venire a capo dell’attuale “forma” della città. Il libro Nel libro, letti in termini di un continuo rescaling, i processi di urbanizzazione sono considerati alla luce di due differenti prospettive, una politico-istituzionale e l’altra morfologico-territoriale, sulla base delle frizioni e dei conflitti che tali processi riflettono e/o innescano. La prima parte del volume si concentra pertanto sul carattere politico-istituzionale dei processi di ristrutturazione che investono la “forma della città”. Nella seconda parte del volume l’accento cade essenzialmente sulle frizioni e i conflitti che accompagnano e scandiscono i processi di urbanizzazione: in sintesi, sui confini delle/nelle città. Lungo questo percorso di analisi il libro ci fornisce dei testi a testimonianza del fatto che, in conclusione, la qualità di quanto si indica come spazio urbano si giochi tutta e, in certo senso, precipiti interamente intono alla figura dei confini. L’ipotesi, tra le

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righe, è che dalla costellazione di “vuoti” che si insinuano dietro l’immagine corporate della città sia possibile recuperare uno spazio praticato e vissuto da opporre alle dinamiche estrattive che definiscono l’urbanizzazione. Battleground A quale conflitti si fa riferimento? Battleground, oltre a indicare la proliferazione di conflitti politici e sociali che attraversano le città, diventa anche sinonimo di uno scontro tra diverse matrici e scale territoriali, di quell’esplosione di spazi preconizzata da Lefebvre. Il punto sta nel vedere come ogni città e ogni interstizio dentro a una città possa incendiarsi e diventare terreno di conflitto, battleground.

Forme/territori L’esplosione degli spazi La produzione di spazio ha fatto la sua irruzione insieme all’esplosione della forma storica della città a causa della crescita delle stesse forze produttive e alla centralità del sapere e della conoscenza nei processi produttivi. Esiste una specificità che definisce lo spazio in base ai diversi periodi, alle diverse società, ai diversi modi e rapporti di produzione. Quindi esiste anche uno spazio del capitalismo, quello di una società governata e dominata dal capitale. Lo spazio del capitale Capitalismo e neo- o tardo-capitalismo hanno prodotto uno spazio astratto che riflette su scala nazionale e internazionale il mondo economico e degli affari, come pure il potere del denaro e la politica dello stato. Lo spazio del capitale è utilizzato nella produzione di plusvalore e tutto ciò che ne fa parte diventa tanto forza produttiva quanto prodotto. In questo spazio astratto il tempo viene percepito come limitazione. Le diverse funzioni dello spazio del capitale Lo spazio è un mezzo di produzione: la rete di scambi e il flusso di materie prime e di energia che definiscono lo spazio sono anche determinati dallo spazio stesso, infatti la disposizione spaziale incrementa le forze produttive. Lo spazio viene considerato anche oggetto di consumo in quanto, nella produzione, lo spazio nel suo complesso viene consumato. Inoltre lo spazio è diventato uno strumento politico di primaria importanza per lo stato, che ne usufruisce per esercitare il controllo; si tratta quindi di uno spazio amministrativamente controllato e pure sorvegliato/ordinato in termini di polizia. Oggi più che mai assistiamo a un’irruzione della lotta di classe nella produzione di spazio. Solo il conflitto di classe può impedire che lo spazio astratto si estenda sull’intero pianeta cancellando ogni differenza spaziale. Così, nel modo di produzione contemporaneo, lo spazio sociale viene fatto rientrare tra le forze produttive e i mezzi di produzione, tra i rapporti sociali di produzione e soprattutto di riproduzione. Lo spazio capitalista è caratterizzato da contraddizioni, la principale delle quali consiste nella polverizzazione dello spazio prodotta dalla proprietà privata. Orientata verso il riproducibile, la produzione di spazio impone una logica di omogeneità e una strategia di ripetizione. Uno spazio di natura simile, controllato e orientato verso il riproducibile, finisce presto per scoprirsi circondato da non-riproducibile. Perciò si offre come contro-spazio. Questo spazio astratto, formalizzato e quantificato, nega ogni differenza che provenga dalla natura e dalla storia. A causa di tutte queste contraddizioni assistiamo all’esplosione degli spazi. Né il capitale né lo stato possono controllare lo spazio contraddittorio che hanno prodotto. Di questo fenomeno se ne fa esperienza a diversi livelli: • livello vissuto; • livello delle città; • livello regionale; • livello internazionale. In tutti i paesi industrializzati, esiste un movimento sociale decisamente radicato che nasce intorno alla questione lavorativa. I movimenti sociali contemporanei (movimenti dei consumatori) si

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sviluppano su un livello mondiale e reclamano una riorganizzazione dello spazio. Essi dimostrando che lo spazio è un valore d’uso, ma ancora di più lo è il tempo, a cui è intimamente legato, poiché il tempo è la nostra vita, il nostro fondamentale valore d’uso. La produzione di uno spazio “socialista” implica la fine della proprietà privata e del dominio statale dello spazio, e ciò a sua volta implica il passaggio dal dominio alla (ri)appropriazione e il primato dell’uso sullo scambio. Possiamo definire lo spazio socialista lo spazio delle differenze, a differenza di quello capitalista che promuove l’omogeneità. Il ruolo dei movimenti sociali è decisivo perché permetterà al mondo di cambiare, in quanto l’azione diretta di queste parti finirà per definire i bisogni sociali, che quindi non saranno più determinati da “esperti”. La gestione dello spazio sociale in questo caso può essere solo democratica e solo dopo aver condotto all’esplosione dello spazio imposto. La ricostruzione dall’alto verso il basso di uno spazio sociale prima prodotto dall’alto verso il basso implica un’autogestione generale che si integri con quella delle unità di produzione. La produzione in una società socialista viene definita da Marx come produzione in funzione ai bisogni sociali, e questi bisogni riguardano per lo più lo spazio. In una società socialista ogni individuo ha diritto allo spazio, e quindi ha diritto alla vita urbana come centro della vita sociale e culturale. Rimettere il mondo “sui suoi piedi” (Marx) significa sovvertire gli spazi dominati, giocare l’appropriazione contro il dominio, la domanda contro il comando, l’uso contro lo scambio. L’autogestione si rivela così tanto il mezzo quanto il fine. Come immaginare la rivoluzione? Una ridefinizione dello spazio come funzione del valore d’uso.

Oltre l’urbano In un testo di Raymond Williams del 1973 si evidenza il fatto che l’affermazione perentoria dell’urbanesimo come forma di vita si rifletteva inesorabilmente in una stilizzazione della campagna quale scenario arcaico, paradiso perduto libero dalla corruzione tipica degli emergenti centri industriali e del commercio. Williams intendeva decostruire il mito nostalgico della campagna senza tuttavia mettere in discussione il confine assoluto che separa le due realtà. Quindi esiste qualcosa di reale che possa definirsi non-urbano? Cittadini nelle canne Una zona “rurale” nello stato di San Paulo testimonia la presenza di forme di migrazione del lavoro dalla città alla campagna. Si tratta di zone “rurali” nelle quali le pratiche di consumo hanno poco a che fare con l’ideale bucolico preso di mira da Williams; infatti appare difficile separarle da ciò che convenzionalmente definiamo urbano. Le dinamiche di spoliazione che caratterizzano il capitalismo estrattivo sembrerebbero riguardare in prevalenza ambienti non urbanizzati. Individui che possono provenire anche da estese conurbazioni metropolitane, da periferie remote o più accentrate favelas, si spostano per lavorare in “campagna”. Questo spostamento viene causato dal fatto che San Paulo e Belo Horizonte sono state tra le principali sedi dei mondiali di calcio e per questo investite da una serie di processi di trasformazione o “rigenerazione” degli spazi urbani. Questi ultimi hanno determinato una generale rivalutazione dei terreni urbani, espellendo direttamente o indirettamente un numero crescente di individui e famiglie. Sono proprio questi individui, vittime di questa usurpazione, che sono costretti poi a diventare cortatores. Allo stesso tempo però anche le città continuano a calamitare ingenti masse di persone, per lo più spossessate. Ciò testimonia che le dinamiche di urbanizzazione più complesse e generalizzate sono fondate su un specifico movente estrattivo che sembra stravolgere ogni qualsiasi possibile partizione tra rurale e urbano. Il problema resta ancorato a un confine, quello tra urbano e non, che continua a riprodursi meccanicamente quasi fosse scontato. Per questo bisogna partire dal presupposto che l’urbanizzazione del capitale non parli necessariamente di città né si costruisca sull’identificazione dell’urbano in quanto dimensione contrapposta a quanto urbano non è. Urban implosion Come sostiene Marco Polo nelle pagine di Città invisibili, si tende a credere che per descrivere il mondo sia sufficiente raccontare la città: in primo luogo per una questione di quantità (più della metà della popolazione mondiale abita e lavora in territori urbanizzati), ma anche e soprattutto per una questione di qualità (stile di vita). Tutto perciò si spiega in funzione della città e del processo di

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urbanizzazione. Quest’ultimo rappresenta un rumore essenzialmente di scavo, estrattivo. Oggi però la dimensione urbana sembra essersi dilatata a tal punto da smarrire una propria unità, l’urbano si rivela un significante vuoto, qualcosa che proietta nelle piantagioni di canna e si riempie di buchi e “natura” al suo interno. Empty grounds. I vuoti urbani e l’immobiliare Oggi il fenomeno della ruralizzazione degli spazi urbano è piuttosto noto. Attenzione però, perché si tratta solo di una parte della storia, l’altra ci racconta di una campagna sempre più urbanizzata. L’esito complessivo sarebbe ricondurci all’idea molto in voga di una “città diffusa”. Detroit è forse l’esempio più eclatante di un altro fenomeno, altrettanto evidente e strettamente intrecciato: lo shrinking, ossia il drastico svuotamento e la progressiva riduzione delle città in termini sia demografici che di estensione. L’attuale svuotamento dei centri ha un segno nuovo, e non appare più motivato né compensato, non genera necessariamente rassegnazione, e il declino si trasforma anche in opportunità di produrre nuove forme di vita e di spazio. Si potrebbe dire che è una storia di un tipo particolare di città americana, quella fordista. Una tendenza decisamente opposta caratterizza invece le città dei servizi e dei distretti finanziari, i centri metropolitani: qui si trova la densità che da sempre è attributo essenziale dell’urbano. Ma è proprio in questa dimensione schizofrenica, in un mondo sempre più urbanizzato e pieno di città che muoiono, che nasce, cresce e infine esplode tutto. L’immobiliare diventa lo straordinario vettore di creazione di valore degli ultimi 20 anni. Ciò che continuiamo a chiamare città appare soprattutto come un mosaico irregolare che eccede ogni presupposto unitario e ogni nesso di prossimità e di distanza. Si tratta di un processo che viene definito splintering, ossia l’intreccio di connessione/disconnessione che scompone e ridisegna la morfologia delle città. In questa prospettiva allargata e frammentata la città non esaurisce nel luogo fisico in cui è confinata. Quindi come definire sostantivamente l’urbano senza opporlo al rurale e al non-urbano? Esiste un altro tipo di opposizione con il quale è necessario fare i conti per venire a capo dell’attuale dissoluzione dell’urbano all’interno dei processi di urbanizzazione: quella tra stato e città. La relazione tra città e stato tende ad assumere le forme di uno scontro, nei termini di un concatenamento e un avvicendamento fondati su tratti isomorfi. Questioni di scale Oggi lo stato appare sempre più come un contenitore “fuori misura” rispetto a una serie di processi e fenomeni che lo attraversano. L’urbano infatti sembra eccedere l’ordine nazionale e statale, mettendolo inesorabilmente in crisi, e il suo spazio diventa il precipitato materiale dell’intreccio inestricabile tra dentro e fuori che caratterizza la nuova geografia dei mercati. Interpretare però l’urbano in questi termini significa alludere a un qualcosa di talmente esteso e vago da correre il rischio di non dire più nulla. Bisogna interrogarsi sulla logica in base a cui tali opposizioni (urbanonon urbano, città-stato) si costruiscono. Sembra essere soprattutto una questione di scale: la nascita della città quanto quella dello stato possono essere lette come l’imposizione di una generale ridefinizione di scale su ordini antecedenti, e sono per questo considerate entrambe come spinte globalizzanti. Cosa avviene oggi, dal momento che lo stato si rivela sempre più un contenitore “fuori misura”? Nell’impossibilità di ricondurre l’urbano a una scala definita, occorre invece prendere atto della particolare opacità che lo caratterizza, e quindi della necessità di guardare a processi in cui scalarità diverse si sovrappongono e/o ridefiniscono al di là di opposizioni convenzionali tra urbano e non o tra città e stato. Per questo è importante definire cosa si intende per scala. Quando parliamo di scala generalmente ci riferiamo a una convenzione, di un concetto astratto che impone un ordine o più materialmente una striatura a dinamiche spaziali altrimenti non rappresentabili. Si parte dal presupposto che la consapevolezza della progressiva e crescente sovrapposizione di indizi e scale comporti l’impossibilità di riportare qualsiasi fenomeno e processo a una singola unità scalare. Inoltre risulta limitante leggere questi stessi fenomeni e processi nei termini di “multiscalare”, come risultante dell’intrico a somma multipla di scalarità diverse, tutte però assunte come entità autoevidenti e in qualche modo date. Crediamo dunque che il rescaling sia un modo, verosimilmente il migliore, per definire la portata economica, politica e territoriale dei processi di urbanizzazione. Parlare di urbanizzazione significa pertanto opporre la concretezza dei processi di rescaling all’astrazione della nozione scala.

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Un approccio non urbano all’urbano Parlare di urbanizzazione in termini di rescaling richiede un approccio “non-urbano all’urbano”, impone quindi di “uscire” dall’urbano. Può essere utile partire da due specifiche “figure”: enclavi produttive, ossia zone economiche speciali di produzione per l’esportazione; corridoi infrastrutturali per le merci, le strutture e le infrastrutture che immediatamente appaiono lontane dalla dimensione urbana. La presenza di enclavi produttive e corridoi per le merci determina sempre una radicale ridefinizione territoriale di rescaling e, quindi, di urbanizzazione. Si tratta in ogni caso di flussi decisamente concreti che comportano lo spostamento per lo più forzato di quote significative di popolazione e la rilocazione di interi distretti urbani (“Cittadini sul filo”). Rescaling, dal punto di vista politico, implica il gioco di scomposizione e ricomposizione di segmenti di sovranità e funzioni di governo al di là di ogni contenitore unitario e delimitato, sia esso la città o lo stato. Riguardo alle politiche di resclaling politico ed economico ci sembra necessario porre in rilievo due caratteri essenziali: la frammentazione, lo splintering come immediato effetto geografico, economico e politico dei processi di urbanizzazione; e quindi la particolare frizione che accompagna una tale frammentazione, come attrito tra ciò che ancora è riconducibile a un ordine scalare e quanto invece ne eccede (“Lo spazio del Lar”). Questo per dire che l’urbanizzazione non è un processo pacifico, le dinamiche di rescaling che impone indicano semmai una riconfigurazione più estesa del conflitto. Extraction, at large L’ultima questione riguarda la matrice di tali processi, l’intreccio che dall’urbano va verso il nonurbano e viceversa, finendo per offuscare entrambi le polarità. Concentrarsi su questo intreccio ha voluto dire analizzare sia gli effetti di rescaling sia quelli più immediati di splintering territoriale. Ne è emerso uno scenario indubbiamente frammentato, che si rivela però violentemente unificato se letto attraverso la lente di un’articolata e diffusa dinamica estrattiva, di un extraction at large. Estrarre, da questo punto di vista, significa contemporaneamente espropriare e sfruttare. Questa macchina estrat...


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