La caduta dell\'uomo naturale. L\'indiano d\'America e le origini dell\'etnologia comparata PDF

Title La caduta dell\'uomo naturale. L\'indiano d\'America e le origini dell\'etnologia comparata
Author giulia pinna
Course Comunicazione visiva
Institution Università degli Studi di Torino
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Summary

Il volume di Pagden intende individuare le radici dell'etnologia comparata, cioè l'elaborazione di un nuovo approccio al "selvaggio" in termini di cultura e non di natura....


Description

La caduta dell’uomo naturale Il problema dell’identificazione Realtà e fantasia si mescolano: i viaggiatori del 500 andavano in America con un’idea ben precisa di ciò che vi si poteva trovare. Costoro si aspettavano di aver a che fare con selvaggi, giganti, Amazzoni e pigmei. Colombo che era salpato per l’Atlantico occidentale aveva attinto da entrambe le fonti senza alcuna evidente contraddizione. Di conseguenza la sua impressione del Nuovo Mondo fu un insieme di realtà e fantasia. Egli paragonò gli indiani agli africani e agli abitanti delle canarie; ma parlò anche delle Amazzoni e dei mangiatori di uomini caraibici al loro servizio. La compresenza di elementi reali e immaginari era dovuta alla convinzione che il nuovo fosse comunque descrivibile in modo soddisfacente tramite semplici e dirette analogie col vecchio: ma era una convinzione destinata a non reggere a lungo. I coloni, non disponendo di un efficace sistema di classificazione, dovettero ricorrere a questo. Senza il quale, ogni descrizione si sarebbe rilevata impossibile. L’osservatore europeo dunque, aveva manifestato la tendenza a descrivere gli elementi analoghi come identici. Secondo questa logica, i puma erano leoni, i giaguari erano tigri e così via. Questo tipo di percezione immediata si basava sull’assunto che implicava l’intercambiabilità dei tipi e la concordanza delle forme naturali. In questo modo, però, si finì con l’attribuire ad alcuni fenomeni qualità che non gli appartenevano. Si piegava la realtà alle categorie descrittive che già si disponevano. Quando divenne impossibile negare le differenze, l’osservatore, sconfortato, ebbe la tentazione di rinunziare all’impresa. In alcuni casi, ricorse al disegno, in altri alla campionatura e, in altri ancora alla creazione di musei. L’impresa divenne tanto più difficile e tanto più urgente quando dovette classificare gli uomini. Nel 500 vi era la convinzione che per quanto la natura umana potesse assumere forme differenti, doveva seguire gli stessi “schemi naturali” di comportamento. Gli europei, non riuscendo a classificare le forme comportamentali delle comunità indigene, etichettarono gran parte dei non europei e dei non cristiani come “barbari”. Concetto di barbaro: La funzione originaria del termine era quella di operare una distinzione tra i membri della società cui apparteneva l’osservatore e gli altri uomini. Barbaro era un termine molto generico perché veniva applicato a gruppi sociali molto diversi tra loro. Tuttavia, permetteva di raggrupparli sotto un'unica categoria perché rinveniva un elemento comune: lo status d’inferiorità. è chiara la connessione alla concezione greca ellenistica: barbaros, colui che è incapace di parlare il greco e di formare società civili. Un uomo era tale in quanto portatore di usi e costumi riconosciuti convenzionalmente e in quanto parte attiva della società. Chi non sviluppava queste qualità non poteva essere riconosciuto come uomo. I barbari per l’appunto venivano de-umanizzati. La differenza fra le parti veniva stabilita in termini psicologici e comportamentali. I greci erano civili

perché, attraverso l’uso della ragione, erano riusciti a domare la propria natura animale. I barbari invece, erano tali perché si erano mostrati incapaci di portare a termine questo processo di razionalizzazione. Il termine barbaro si diffuse successivamente all’interno del mondo cristiano, ma con alcune variazioni. Venne associato al termine pagano. Tuttavia i barbari non erano semplicemente uomini che non credevano in Cristo, ma erano uomini che, proprio per questo motivo, spesso non agivano secondo l’autentica ragione. A differenza dei cristiani infatti, potevano facilmente cadere in peccato per le condizioni di vita del loro ambiente sociale. Si riteneva che il barbaro, vivesse come i sylvestres homines, cioè gli uomini selvaggi della letteratura d’immaginazione, nascosti nelle foreste e sui passi montani, sempre pronti ad aggredire l’incauto viaggiatore. Rappresentavano per questo,

una

minaccia

costante

per

la

civiltà.

Sulla base di ciò, possiamo giungere alla conclusione che il termine barbaro dalla fine del 1100 fino all’inizio del 500, venne utilizzato con due significati principali: a scopo classificatorio, per indicare tutti i popoli non cristiani e, per estensione per indicare tutte le razze dal comportamento selvaggio o incivile, qualunque fosse stato il loro credo religioso. In entrambi i casi, era implicito che ogni creatura così definita fosse un essere umano imperfetto. Una volta recuperate svariate informazioni sugli indigeni, ci si interrogò sulla causa della loro arretratezza. Perché gli indiani si comportano in un modo così poco strutturato? Perché la società indiana non si è sviluppata come quella europea? Le risposte che inizialmente vennero offerte si basarono su fattori storici, ma risultarono inconcludenti, perché fu logico domandarsi, in un secondo momento, il perché fossero così poco progrediti? Si iniziò allora ad indagare sulle facoltà psichiche degli indigeni. Il difetto poteva essere ritrovato proprio nella loro mente, nel loro ingegno. E dunque il primo modello di psicologia cui si fece ricorso per spiegare le cause del comportamento indiano, fu la teoria di Aristotele sulla schiavitù naturale. La teoria della schiavitù naturale L’idea che gli indiani fossero schiavi per natura venne avanzata innanzitutto per sciogliere un dilemma politico: con quale diritto la corona di Castiglia aveva occupato territori che non poteva rivendicare in base ad alcun precedente storico e ne aveva asservito gli abitanti? Gli uomini chiamati a sciogliere questo dilemma erano per lo più assistenti delle facoltà di legge e di teologia. Per secoli infatti, in Spagna come nel resto d’Europa, gli studiosi venivano coinvolti nelle questioni morali e intellettuali come consiglieri privati della corona. Le consultazioni tra le università e la corona prendevano generalmente la forma di una junta, cioè di un dibattito aperto fra i rappresentanti delle 3 discipline che si proclamavano autorizzate a discutere di problemi morali –

teologia, diritto civile e canonico. La loro funzione si limitava a quella di legittimare e non di giudicare le decisioni della corona. Se una junta sfidava la volontà del re, veniva ignorata. Per qualche tempo le deliberazioni della junta avevano assecondato le imprese colonizzatrici del re, sino al 1511, anno in cui si registrò la più aperta e scandalosa condanna mai pronunciata pubblicamente in America dei colonizzatori e del loro comportamento: la domenica prima di natale, un domenicano, Antonio de Montesinos, tenne un sermone alla popolazione bianca di Hispaniola denunciando i loro maltrattamenti verso gli indiani e ammonendo i connazionali che se non avessero cambiato il sistema, non avrebbe mai trovato salvezza. È bene sottolineare che l’attacco di Montesinos non era diretto alla legittimità dell’occupazione spagnola in sé stessa, ma all’abuso di potere dei colonizzatori e alla crudele e orribile servitù. I connazionali di Montesinos si sentirono oltraggiati e lo accusarono di aver sfidato l’autorità regale. Indipendentemente dagli attacchi rivolti a Montesinos e dalle manipolazioni delle sue argomentazioni in modo da farle sembrare un attacco ai diritti politici della corona nelle Antille, lo scontro interno si mostrò utile per affrontare la questione sulla legittimità delle imprese colonizzatrici nelle indie. La corona possedeva davvero questo diritto? Le bolle papali concesse ai sovrani, erano sufficienti a giustificare le invasioni? Le bolle si fondavano sull’assunto che il papa avesse giurisdizione nelle terre dei pagani. I pagani però, si potevano suddividere in 3 categorie: quelli che vivevano fuori dalla chiesa, ma in territori che rientravano nel suo dominio; quelli che erano legittimi sudditi di un principe cristiano; quelli che rappresentavano i veri infedeli, in quanto vivevano in terre non soggette ad alcun poter cristiano e mai appartenute al mondo romano. Gli indiani rientravano in quest’ultima fascia, pertanto né l’imperatore né la chiesa potevano rivendicare alcuna giurisdizione temporale. Bisognava, arrivati a questo punto, ricorrere ad altre argomentazioni. John Mair offre una soluzione al problema. Mair riprende la filosofia aristotelica: il diritto di sovranità cristiana su certi pagani si poteva considerare fondato sulla natura del popolo conquistato anziché sui presunti diritti politi dei conquistatori. Gli abitanti delle Antille si comportavano come dei barbari, dei selvaggi, quindi chi li sottometteva aveva il diritto di governarli in quanto schiavi per natura. Secondo Mair, che riprende i testi di Aristotele, vi sono uomini liberi per natura ed altri schiavi per natura. Il mondo greco accettava due forme distinte di schiavitù, quella civile e quella naturale. La prima era un’istituzione sociale, senza una forza-lavoro dipendente non si sarebbero potute costruire le antiche città. Invece l’espressione schiavitù naturale non si riferiva a un’istituzione, ma a una particolare categoria di uomini. La teoria della schiavitù naturale in Aristotele, infatti, serviva a spiegare perché fosse moralmente giusto che una nazione asservisse i membri di un’altra. Lo schiavo civile era un uomo come un altro, ma, per ragioni indipendenti dalla sua natura, era stato privato della libertà civile. Gli schiavi civili erano coloro che avevano commesso qualche atto

illiberale punito con la schiavitù, oppure prigionieri, catturati in una giusta guerra. L’origine della schiavitù naturale, invece, non era da ricercarsi nell’azione di qualche agente puramente umano o nell’intervento divino, ma nella stessa psicologia dello schiavo e, in definitiva, nella costituzione dell’universo. Per Aristotele lo schiavo naturale era un uomo il cui intelletto, per qualche ragione, non era riuscito ad ottenere il dominio delle passioni. A tali individui, il filosofo negava ogni parte decisionale, ma concedeva in parte la facoltà di ragionare: una facoltà, tuttavia, sufficiente solo per apprendere, ma non per possedere l’autentica ragione. In virtù di ciò, nella gerarchia della natura si trovava all’estremità bestiale della scala umana. Egli differiva dalle bestie solo per la sua capacità di apprendere la ragione; e il suo ruolo all’interno della comunità poteva paragonarsi a quello di un animale domestico. Era condannato quindi, a una vita perpetua di schiavitù. La sua funzione non era altro che essere schiavo, senza un padrone, era soltanto un mezzo uomo. Attraverso il padrone era in grado di migliorare la propria condizione, poteva diventare più umano. È facile capire quanto la teoria di Aristotele fosse attraente per coloro che non riuscivano a inserire nella loro immagine del mondo certe formule culturali, come quelle amerindie, così diverse dalle proprie de scuotere radicalmente le presunte basi del comportamento umano. Gli indiani erano chiaramente barbari, e i barbari non sono mai mossi dalla ragione, ma soltanto dalla passione, per questo

devono

essere

sottomessi.

La teoria di Aristotele venne applicata in Spagna per la prima volta nel 1512. In quell’anno Ferdinando convocò una junta, durante la quale primeggiarono le posizioni di due pensatori, Mesa e Gregorio, i quali erano favorevoli alla sottomissione degli indiani, dal momento che erano indiscutibilmente barbari e corrispondevano pertanto, agli schiavi naturali descritti da Aristotele nella Politica. Successivamente venne affidato a Rubios il compito di elaborare una relazione più estesa sul tema in questione, la corona non era ancora del tutto sicura sul suo diritto di sovranità nelle indie. Rubios, seppur si impegnò nel mettere in luce le qualità degli indiani, come il loro essere pacifici e buoni, giunse comunque alla conclusione dei precedenti autori: la calma degli indiani era solo apparenza, in realtà celava i costumi di un popolo barbaro. Dagli schiavi naturali ai bambini di natura: nel 1520 l’idea che gli indiani fossero creature inferiori intrinsecamente sembrava offrire una soluzione al problema della loro natura, ma circa dieci anni dopo la situazione iniziò a cambiare. Man mano che aumentavano le informazioni, aumentava l’interesse pubblico per gli abitanti delle Indie, per la flora e la fauna di quelle terre. Il motivo principale dell’accresciuto interesse era evidente, le società amerindiane del Messico e del Perù, a differenza di quelle caraibiche, si rivelarono essere altamente sviluppate: organizzazione

politica, suddivisioni in classi, economia di mercato, guerre organizzate, forma di religione strutturata e rituale. Di fronte a queste informazioni crebbe l’indignazione da parte dei missionari e di molti uomini di cultura. Intorno al 1535 nasce un nuovo movimento nel campo della teologia, della logica e del diritto, i cui promotori furono indicati in seguito come la scuola di Salamanca. Le loro idee ebbero le più grandi ripercussioni nel pensiero teologico dell’Europa cattolica. La scuola possedeva un unico maestro, Francisco de Vitoria, il quale fu mosso, nel corso della sua carriera universitaria, dall’urgente bisogno di allargare i confini dell’indagine teologica per conferire maggiore importanza alla filosofia morale e affrontare di conseguenza, quei problemi morali che si mostravano essere più attinenti alla vita quotidiana degli uomini. Obiettivo principale: esegesi della legge di natura. La legge di natura non era un corpo codificato di precetti, ma un sistema etico. Nella sua forma più elementare consisteva in un certo numero di idee semplici e chiare, costituenti i prima praecepta impressi da Dio alla creazione per mettere l’uomo in grado di raggiungere il suo fine in quanto uomo. Era dunque, uno strumento conoscitivo che permetteva all’uomo di fargli conoscere e interpretare il mondo così come è. Tramite un processo simile a quello dei sillogismi aristotelici, i prima praecepta si traducevano in precetti secondari costituenti i codici comportamentali degli uomini. (Dal generale si passava al particolare). Il metodo usato per scoprire i principi primi si basava in prima istanza sul consenso: se io e tutti i miei concittadini ci sentiamo portati a comportarci in un certo modo, tale comportamento è naturale, e ogni forma di comportamento contrario è innaturale. In questo modo si costruisce un sistema sociale, culturale che non lascia spazio allo scetticismo o a forme di relativismo. L’impianto conoscitivo, altamente strutturato, deve dimostrarsi integro e coerente. Un’idea contraria o differente, rispetto al sistema, può comportare la sua stessa caduta. Ovviamente potevano presentarsi delle varietà di costumi all’interno del sistema, ma tutti i costumi dovevano rientrare in certi limiti ben definiti. Seguendo questa logica: se gli Amerindiani erano uomini allo stesso titolo degli europei, il loro comportamento sregolato non era affatto una semplice variante locale di uno schema ben noto, ma era un comportamento del tutto innaturale. E l’uomo che agiva contro natura non poteva pretendere di essere considerato come umano. Reletio de Indis di Vitoria: quale era, se mai esisteva, il giusto titolo alla conquista dell’America? Si era così tanto sentito parlare dei numerosi massacri nelle Indie, che ci si domandò se tutto ciò era stato fatto con giustizia. Secondo Vitoria, dato che le imprese colonizzatrici venivano legittimate sulla base della natura degli indiani, la questione doveva essere affrontata non più dai giuristi ma

dai teologi. Solo i teologi erano in grado di fornire delle valide argomentazioni sulla natura degli indiani, in quanto erano loro che si occupavano delle sostanze del mondo e non degli accidenti. Le società amerindiane, come è stato scritto precedentemente, presentavano delle caratteristiche assai simili a quelle europee, caratteristiche che erano proprie di una società civile. Pertanto gli indiani non potevano più essere considerati come barbari nel senso aristotelico della parola e quindi non potevano essere privati dei propri diritti e possessi col pretesto che la loro cultura era il prodotto di uomini incapaci di scelte razionali. Tuttavia, la semplice presenza di alcune forme sociali non diceva nulla sulla qualità delle medesime. Gli indiani per essere davvero civili, non dovevano soltanto condurre una vita ordinata nella città, ma dovevano anche vivere secondo leggi e costumi conformi alla legge di natura. Secondo Vitoria, gli indiani presentavano leggi inadeguate, forme culturali come il cannibalismo e i sacrifici umani ne offrivano una prova evidente. In generale, gli europei erano ossessionati da questa questione. Pensavano che gli indiani fossero caratterizzati da una brama insaziabile di carne umana. Quest’idea, si ricercava in numerose culture, sicché possiamo presumere che fosse il prodotto di deduzioni anziché di testimonianze dirette. Ancora

una

volta

il

confine

fra

realtà

e

fantasia

si

sfuma.

Vitoria discutendo il cannibalismo, si interrogò non tanto sulla ragione per cui gli indiani mangiassero i propri simili, ma per quale ragione questa pratica potesse essere considerata contro natura. La prima condizione per dichiarare il cannibalismo contro natura veniva soddisfatta facendo appello al consenso. Se tutti gli uomini hanno ritenuto turpe quest’usanza, vuol dire che lo è per natura. Ma quest’argomento da solo non era sufficiente, non rispondeva al quesito principale: perché tante razze umane non si erano attenute ai precetti della legge naturale? Per Vitoria il cannibalismo significava soprattutto l’incapacità di capire quale cibo è adatto e quale no. I cannibali non erano solo colpevoli di evidenti atti antisociali ma, nel mangiare i loro simili, commettevano un elementare errore di categoria. Si dimostravano totalmente incapaci di interpretare correttamente il mondo naturale. Le norme alimentari, come quelle sessuali, erano un indice preciso del potere razionale

dell’uomo

e

della

sua

capacità

di

comportarsi

da

uomo.

Il sacrificio umano presentava problemi d’interpretazione analoghi a quelli del cannibalismo. Gli atti del sacrificare e di mangiare gli uomini si consideravano strettamente associati, ma l’interpretazione del primo veniva complicata, anziché risolta, dal riferimento alla gerarchia naturale. Infatti era ovvio che si dovesse sacrificare a Dio ciò che si riteneva più importante, ossia la vita umana. Cristo dopotutto, aveva sacrificato sé stesso alla croce. Secondo Vitoria, bisogna fare una scelta all’interno della scala dell’essere, l’uomo non era adatto al sacrificio, l’animale sì, Dio non avrebbe mai voluto la distruzione delle proprie creature.

I crimini come il sacrificio umano e il cannibalismo indicavano con chiarezza che, per alcuni aspetti importanti, la mente degli indiani era assai difettosa. Ne era un’ulteriore prova la loro cultura che, secondo Vitoria, mancava di tutte le arti e le lettere (era la prova che gli indiani vivessero solo per vivere, erano incapaci di crearsi un altro mondo), sia liberali che meccaniche (mancava il ferro), di un accurato sistema di agricoltura (monocultura) e di molte altre cose utili per l’esistenza umana. Il De Indis di Vitoria fornì due immagini apparentemente contradditorie della mente indiana. Da un lato, gli indiani avanzati conducevano chiaramente un’esistenza da esseri razionali. D’altra parte, quegli stessi popoli, palesemente capaci di sotto molti aspetti d’interpretare la legge di natura secondo le intenzioni di Dio, erano quelli che la violavano più sfacciatamente. Se erano irrazionali o dementi, come spiegarsi le loro città, l’amministrazione civile e religiosa? Per Vitoria la risposta a queste domande andava ancora una volta cercata nella struttura formale dell’universo. Come qualunque altra materia, l’uomo conteneva in sé potenzialità e attualità. Sulla base di ciò, il fatto che gli indiani non avessero ancora acquisito certe conoscenze, non significava che fossero irrazionali, ma che la loro razionalità era ancora in potenza. La teoria dello schiavo...


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