Riassunto completo del libro \"Manuale di valutazione neuropsicologica dell\'adulto\" PDF

Title Riassunto completo del libro \"Manuale di valutazione neuropsicologica dell\'adulto\"
Course Tecniche di valutazione neuropsicologica
Institution Università degli Studi di Palermo
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Riassunto completo del libro "Manuale di valutazione neuropsicologica dell'adulto"...


Description

Parte prima – Valutare secondo l’approccio neuropsicologico Capitolo 1 – Neuropsicologia e neuroscienze cognitive 1 – La neuropsicologia 

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Le lesioni focali del cervello prodotte da eventi vascolari, malattie tumorali, infettive o traumatiche, quando interessano aree relativamente circoscritte cortico-sottocorticali, possono produrre dei disturbi specifici delle funzioni nervose. o I disturbi dipendono dalle aree o dai circuiti interessati dal danno e riguardano sia aspetti sensomotori, che cognitivi.  Se la lesione colpisce le aree motorie primarie e gli assoni motori, la principale conseguenza osservabile sarà un disturbo di forza controlaterale all’emisfero danneggiato.  Se, invece, la lesione colpisce aree sensoriali primarie e delle vie sottocorticali, che trasmettono le informazioni dagli organi di senso verso le zone di elaborazione, verrà prodotto un deficit di sensibilità nella metà di corpo controlaterale all’emisfero e alle vie danneggiati.  Quando la lesione è localizzata al di fuori delle aree primarie, si osservano, a volte, importanti deficit cognitivi relativi all’analisi cognitiva dell’input o alla programmazione e selezione dei segnali di uscita che determinano il comportamento motorio finalizzato; oppure, ancora, possono coinvolgere funzioni come il linguaggio, la memoria, le emozioni, i processi decisionali o la strutturazione delle coscienze dominio-specifiche. La neuropsicologia è la disciplina che studia la relazione tra danni cerebrali e funzioni cognitive superiori. Da un punto di vista clinico, lo scopo della neuropsicologia è di descrivere e definire i disordini conseguenti alla lesione cerebrale e di indicare i percorsi diagnostici e i trattamenti terapeutici e riabilitativi. o Ovviamente sarebbe impossibile perseguire questo scopo se la neuropsicologia non si ponesse anche come disciplina sperimentale che, partendo dalla condizione patologica, trae inferenze sulla funzione normale nel tentativo di costruire dei modelli del funzionamento cognitivo che possano aiutare la comprensione e la gestione delle condizioni cliniche.  La logica della neuropsicologia sperimentale è che se la lesione di una particolare area cerebrale ha provocato un determinato deficit allora quella parte di cervello è coinvolta, sottende o è necessaria a sostenere la funzione normale. Come noto la neuropsicologia scientifica fa il suo esordio nella seconda metà dell’Ottocento quando le scoperte in neurologia e neurofisiologia identificarono, in precise regioni cerebrali, delle aree specializzate per il controllo delle funzioni sensomotorie, creando quindi le condizioni culturali per considerare plausibile l’ipotesi di una relazione causale tra una lesione cerebrale specifica e la funzione cognitiva alterata. o La relazione tra danni cerebrali e disturbi delle funzioni superiori cominciò a essere studiata in modo sistematico, soprattutto in ambito neurologico.  Le osservazioni che se ne trassero non ebbero solo un valore descrittivo, ma portarono alla formulazione di veri e propri modelli che, in forma di diagrammi, proponevano l’esistenza di centri di elaborazione nella sostanza grigia, e di vie di comunicazione tra i centri nella sostanza bianca. Il grande merito dei primi neuropsicologi (chiamati «diagrammisti») fu quello di intuire che i danni cerebrali possono aiutare a chiarire l’organizzazione del sistema cognitivo.

Sicuramente i modelli dei diagrammisti avevano importanti limitazioni, da un lato dovute al fatto di non avere delle solide teorie psicologiche di riferimento, dall’altro per la povertà di vincoli metodologici, e cioè per la mancanza di indicazioni condivise e concordate per la scelta dei pazienti da studiare e degli strumenti quantitativi da impiegare. Il metodo classico usato dai primi studi neuropsicologici, che consisteva nella valutazione di singoli casi clinici, venne affiancato, nella seconda metà del secolo scorso, da nuovi approcci metodologici. o Lo sviluppo delle conoscenze anatomiche da un lato e la necessità di applicare metodi quantitativi, che garantissero una maggiore oggettività delle osservazioni neurologiche e una minore discrezionalità nella scelta dei pazienti da studiare dall’altro, portarono alla decisione di valutare gruppi di pazienti selezionati sulla base di determinati criteri di inclusione, stabiliti a priori.  Tra i più diffusi criteri di scelta ricordiamo la selezione sulla base del sintomo di interesse in un certo contesto teorico o la selezione sulla base della localizzazione lesionale. o Gli studi sui gruppi di pazienti, accomunati da precisi requisiti stabiliti dal protocollo sperimentale, hanno avuto il grande merito di individuare e caratterizzare con maggiore oggettività e replicabilità le principali sindromi neuropsicologiche e le più frequenti associazioni anatomo-funzionali. Lo studio di singoli pazienti è, però, di fatto continuato, guidato, nel contesto sperimentale, dal modello della psicologia cognitiva e dall’approccio dei sistemi di elaborazione dell’informazione che, proponendo una struttura multicomponenziale del sistema cognitivo, fornivano una cornice teorica molto utile per spiegare le conseguenze comportamentali di lesioni focali del cervello. o Se un sistema è costituito da più sottosistemi, relativamente isolabili, allora una lesione può compromettere una funzione lasciando intatte o quasi intatte le altre. Spesso disordini simili possono essere osservati per danni a regioni cerebrali diverse: questo suggerisce che una data funzione non è localizzata in una singola area ma che la regione danneggiata, che pure serve una certa funzione, è parte di un circuito costituito da diversi centri cortico-sottocorticali, collegati tra loro da importanti fasci di sostanza bianca. o L’idea che una funzione sia distribuita nel cervello non significa che le aree cerebrali partecipano in modo uguale a quella funzione, ma che la funzione risultante dipende dalla cooperazione di parti del cervello specifiche, ma differenti. o







2 – Neuropsicologia e neuroscienza cognitive 





La neuropsicologia fa parte di un complesso di discipline spesso indicate con l’espressione «neuroscienza cognitiva», che mirano a capire come il cervello lavora, e come la sua struttura e il suo funzionamento influenzino il comportamento e diano origine alla mente. o La finalità della neuroscienza cognitiva nel suo complesso è, quindi, uguale a quella che si propone da sempre la neuropsicologia sperimentale, e cioè studiare e chiarire le basi neurali dei processi cognitivi. Con lo sviluppo delle tecniche d’indagine e con l’affermarsi di nuovi paradigmi sperimentali, le conoscenze relative al rapporto mente-cervello si arricchiscono di dati che vengono raccolti anche nei soggetti normali (basti pensare a come le funzioni cognitive vengono indagate e mappate attraverso lo studio in vivo della relazione tra compito cognitivo e attivazioni cerebrali). Allo stato attuale, l’indagine del rapporto mente-cervello si avvale della cooperazione di campi scientifici diversi, ma complementari che, sfruttando l’armamentario metodologico di diverse discipline, cercano di chiarire le basi neurali dei processi cognitivi.

3 – Storia del rapporto tra neuropsicologia e neuroscienza cognitiva 











Thomas Willis fu il primo a cogliere il legame tra comportamento umano e strutture cerebrali. o Sembra che Willis abbia avuto questa intuizione seguendo i pazienti nel loro percorso di malattia e, nel caso di morte, facendone le autopsie. o Si rese, così, conto che vi era una relazione tra quelli che ora chiameremmo deficit comportamentali e i danni cerebrali da lui osservati sul tavolo anatomico. Più di un secolo dopo le intuizioni di Willis, Franz Joseph Gall, un medico anatomista austriaco, ipotizzò non solo che determinate aree del cervello ospitassero specifiche capacità cognitive, ma addirittura che l’estensione delle aree cerebrali sarebbe modulata dall’uso che un soggetto fa di una specifica capacità. o Più si utilizza una certa area per compiere un dato compito cognitivo più quell’area s’ingrandisce. o Da qui l’idea che perfino il cranio possa subire modifiche legate all’attitudine sviluppata e, quindi, la possibilità di cogliere determinati aspetti della cognizione e del carattere attraverso l’osservazione delle caratteristiche macroscopiche della forma dell’osso (questa posizione teorica venne chiamata frenologia). Le idee di Gall vennero messe in crisi dal fisiologo francese Marie-Jean-Pierre Flourens a cui era stato chiesto, dall’Accademia delle scienze di Parigi, di verificare sperimentalmente le ipotesi di Gall. o Nonostante Flourens avesse trovato, lavorando sugli animali (soprattutto piccioni), delle effettive corrispondenze tra lesioni di specifiche aree cerebrali e deficit di funzioni sensomotorie, non osservò la stessa relazione per funzioni cerebrali più «cognitive». o La sua conclusione fu che queste funzioni fossero distribuite nelle diverse aree cerebrali e che tutto il cervello partecipasse alla loro realizzazione. Pochi anni dopo le conclusioni di Flourens, il neurologo inglese John Hughlings Jackson si rese conto che, durante certe crisi epilettiche, i pazienti mostravano la produzione di movimenti in sequenza, come se la loro attivazione corrispondesse alla presenza di mappe muscolari precise e anatomicamente e funzionalmente localizzate e distinte. o Da qui la proposta che ci fosse, almeno nella corteccia motoria, una rappresentazione «topografica» della periferia muscolare. o Jackson osservò anche che i disturbi visuopercettivi sono più frequenti per lesioni dell’emisfero destro. I suoi studi sembravano, quindi, favorire l’ipotesi localizzazionista. o Jackson, però, fece notare come, in quasi tutti i pazienti, fosse possibile documentare delle capacità residue relative al dominio cognitivo danneggiato e, quindi, la sua idea fu che diverse regioni cerebrali contribuiscono alla stessa funzione cognitiva e conseguentemente allo stesso comportamento. Nel 1861 Broca descrisse i risultati dell’autopsia di un paziente che, dopo l’evento patologico, pur mantenendo una buona comprensione, non pronunciava più nessuna parola se non il termine “Tan”. o Il paziente aveva una lesione da sifilide al piede della terza circonvoluzione frontale di sinistra, che da allora, com’è noto, si chiamò area di Broca (identificata poi da Brodmann come area 44). o Da Broca in poi vennero proposti modelli molto dettagliati delle sottocomponenti linguistiche che non solo si ponevano il compito di spiegare i deficit osservati fino a quel momento, ma anche di prevedere disturbi non ancora osservati, ma ipotizzabili alla luce del modello proposto. o Con le osservazioni di Broca si è soliti datare la nascita della neuropsicologia scientifica. Fondamentale per la neuroscienza cognitiva fu anche il contributo di studiosi (fisiologi e anatomisti) che specificarono struttura e organizzazione funzionale del sistema nervoso.

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Basti pensare a Brodmann che, studiando le caratteristiche microscopiche della corteccia cerebrale, la divise in 52 aree diverse, a cui ci si riferisce ancora oggi chiamandole aree di Brodmann. Camillo Golgi (grazie all’invenzione di un metodo di colorazione istologica che permetteva la visualizzazione della struttura di base del sistema nervoso, il neurone) e Santiago Ramón y Cajal (che per primo identificò la natura unitaria del neurone, scoprendo così che il sistema nervoso è costituito da cellule singole che comunicano tra loro, stabilendo che la trasmissione elettrica dell’informazione nervosa è possibile in una sola direzione) condivisero il premio Nobel per la medicina nel 1906. Infine, un altro premio Nobel per la medicina (1932, condiviso con Edgar Douglas Adrian), Charles Sherrington, contribuì in modo fondamentale alle conoscenze sulla trasmissione nervosa e coniò il termine sinapsi per descrivere la giunzione tra due neuroni.

4 – I metodi in neuropsicologia e neuroscienza cognitiva 





La neuroscienza cognitiva ha come sua parte integrante per lo studio del rapporto mente-cervello l’approccio clinico che, partendo dai dati patologici, trae inferenze sulla funzione normale. o Queste inferenze sono legittime se ci si riferisce a un corpus di assunzioni relative alla struttura e alle caratteristiche funzionali del tessuto nervoso che gli studi classici della neuropsicologia hanno parzialmente verificato. o È importante quindi che, quando si analizzano i dati ottenuti dallo studio di pazienti, si tengano presenti sia le assunzioni che i limiti intrinseci ad alcuni di essi per arrivare a conclusioni plausibili. Grazie agli studi funzionali, sappiamo che ci possono essere, lontano dalla zona del danno, delle diminuzioni di funzionamento del tessuto senza che vi sia stato un danno diretto (diaschisi). o L’interpretazione dei risultati dipenderà, quindi, dal sapere, con studi ad hoc, quanto l’ipofunzionalità conseguente al danno strutturale sia o no implicata nel sintomo osservato. Vale la pena ricordare che l’assunzione principale della neuropsicologia di matrice cognitiva classica è che il sistema abbia delle caratteristiche modulari, e cioè che ci siano aree discrete del cervello che in modo quasi esclusivo rappresentano le basi neurali di una specifica e limitata funzione cognitiva. o Questo ha portato all’affermarsi del metodo delle dissociazioni per trarre inferenze sulla funzione normale. o Poiché per l’assunzione della modularità le capacità cognitive sarebbero rappresentate nel cervello in modo discreto, una lesione focale del cervello dovrebbe danneggiare una sottocomponente del sistema, lasciando intatte le altre, e producendo quindi delle dissociazioni tra prestazioni che dipendono da diversi sistemi anatomo-funzionali.  In particolare, se due compiti (A e B) dipendono da due sottocomponenti distinte, una lesione cerebrale in un paziente (o in un gruppo di pazienti) potrebbe danneggiare le prestazioni legate a una delle due sottocomponenti (deficit nel compito A) lasciando intatte le prestazioni legate al funzionamento dell’altra (capacità preservate nel compito B; dissociazione semplice).  Un quadro di questo tipo suggerisce che il compito A e il compito B dipendono da sottosistemi anatomo-funzionali separati.  Per affermare con certezza la relativa indipendenza dei due sistemi è necessario osservare la dissociazione opposta, e cioè un paziente (o un gruppo di pazienti) che presenti risultati deficitari nel compito B e risultati nella norma nel compito A.  Ovviamente la possibilità di dichiarare che un paziente o un gruppo di pazienti ottiene, nei compiti proposti dallo studio, dei risultati «nella norma» implica la definizione di ciò che può essere considerato, in un determinato contesto, «normale». o Di qui la necessità di raccogliere dati in gruppi di controllo neurologicamente intatti per stabilire le soglie di normalità.

I gruppi di controllo non sono solo costituiti da soggetti che non hanno lesioni cerebrali documentabili, ma anche da gruppi di pazienti che, pur avendo una lesione cerebrale, non hanno il deficit cognitivo. o Solo così è, infatti, possibile affermare che il deficit osservato è specificamente legato a una determinata lesione e non genericamente ascrivibile alla presenza di un danno cerebrale. La neuropsicologia si è avvalsa, e si avvale tuttora, anche dello studio di gruppi di pazienti che vengono selezionati, a prescindere dal metodo delle doppie dissociazioni, seguendo due approcci principali, la cui scelta dipende soprattutto dalla domanda di ricerca che lo studioso si pone. o Il primo approccio è la selezione del campione sulla base del danno anatomico.  Questo implica che saranno ammessi alla ricerca tutti i pazienti che condividono le caratteristiche lesionali, a prescindere dai sintomi cognitivi e/o dai deficit sensomotori che presentano.  La selezione sulla base del danno può rispondere alla domanda generica sulle funzioni dell’area danneggiata e ci permette di trarre delle correlazioni anatomocliniche qualora, tutte le volte che quell’area è danneggiata, si osservi un certo comportamento.  Uno dei limiti dell’approccio della selezione del campione in base alla localizzazione del danno è che, a volte, è possibile osservare lo stesso comportamento, o un comportamento funzionalmente analogo, anche quando un’altra area è danneggiata.  Questo indicherebbe che la lesione di quell’area è sufficiente per produrre una determinata anomalia comportamentale (perché tutte le volte che c’è osserviamo un determinato deficit), ma non necessaria (perché il deficit si osserva anche per danni ad altre strutture cerebrali). o Il secondo approccio nello studio di gruppi di pazienti prevede la selezione del campione sulla base del sintomo che si sviluppa dopo la lesione cerebrale.  Conseguentemente, prescindendo dalla sede lesionale, saranno inclusi nella ricerca tutti i pazienti che presenteranno un ben preciso deficit cognitivo-comportamentale.  Questo approccio è particolarmente utile se si vogliono studiare le caratteristiche cognitive intrinseche del deficit, la sua conformazione e le eventuali compromissioni co-occorrenti.  Ovviamente verrà anche studiato il corrispettivo anatomico del deficit cognitivo ma non si potranno trarre delle correlazioni anatomo-cliniche definitive poiché i cosiddetti casi negativi non vengono inclusi nel campione oggetto di studio.  I casi negativi sono quelli che non presentano il sintomo studiato (pertanto sfuggono all’osservazione), ma nei quali la lesione corrisponde in tutto o in parte alle lesioni riscontrate quando il deficit è presente.  In questi casi si può dire che la lesione è necessaria (ce l’hanno tutti i casi positivi), ma non è sufficiente (ci può essere in assenza del sintomo studiato) a produrre il difetto comportamentale oggetto di studio. È fondamentale che le conclusioni che si traggono con il metodo clinico siano verificate dagli studi che vengono attuati in altri campi della neuroscienza cognitiva. Nessuna correlazione anatomo-clinica sarebbe stata possibile in vivo se non ci fossero state le tecniche di neuroimmagine strutturale, come la tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica (RM). o Queste indagini permettono, soprattutto con le macchine di ultima generazione, una precisa e netta definizione delle caratteristiche e dei confini topografici delle lesioni cerebrali. o L’introduzione delle neuroimmagini funzionali, come tomografia a emissione di positroni (PET, Positron Emission Tomography) e risonanza magnetica funzionale (fMRI, functional Magnetic Resonance Imaging), ha contribuito, nei casi clinici, a identificare aree che, anche o



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se non direttamente danneggiate dalla lesione strutturale, sono comunque poco funzionanti o silenti in seguito alla lesione. o Nei soggetti normali le neuroimmagini funzionali, basandosi sul principio di attivazione cerebrale (l’area che è coinvolta nel compito richiesto, attivandosi funzionalmente, determina cambiamenti neurometabolici che possono essere rilevati dalle diverse tecniche in modi diversi, applicando analisi statistiche specifiche), hanno permesso di studiare la relazione anatomo-funzionale nei cervelli normali. o Altri importanti contributi derivano ora dagli studi di stimolazione cerebrale: la stimolazione magnetica transcranica (TMS, Transcranial Magnetic Stimulation) e la stimolazione transcranica a corrente diretta (t-DCS, transcranial-Direct Current Stimulation), che consentono, se pur con diverse risoluzioni spaziali e temporali, di attivare/deattivare sistemi neuronali specifici, e di vederne le conseguenze sia comportamentali (induzione o inibizioni di un determinato comportamento) che fisiologiche (attivazione o modulazione di risposte neuronali periferiche rilevabili con la registrazione di potenziali evocati ed elettromiografie). Sia nella neuropsicologia sperimentale, che nella neuropsicologia clinica, l’aspetto cruciale per la valutazione del paziente è la scelta del compito o del test da proporre di volta in volta. o Nei contesti sperimentali, l...


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