Riassunto Spazi Migranti di A. Senatore PDF

Title Riassunto Spazi Migranti di A. Senatore
Author Nicola Chiacchio
Course Topografie dello spazio sociale
Institution Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
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Summary

Spazi migranti. della Piana del Sele di Alfredo Senatore Riassunto Nel libro si nota come la e il territorio non siano soltanto spazi classificabili dal punto di vista territoriale o geografico ma il risultato di relazioni e di poteri sociali. In alcuni spazi o luoghi si installa la figura del migra...


Description

Spazi migranti. Un'etnografia della Piana del Sele di Alfredo Senatore - Riassunto Nel libro si nota come la città e il territorio non siano soltanto spazi classificabili dal punto di vista territoriale o geografico ma il risultato di relazioni e di poteri sociali. In alcuni spazi o luoghi si installa la figura del migrante che si sente ed è considerato sempre fuori luogo. Da un lato perché si ritrova a vivere in un territorio che non concepisce e che non sente come casa (parola che utilizza sempre e soltanto per definire il paese di appartenenza) e dall’altro perché è escluso dal Paese cosiddetto di accoglienza. Il migrante si installa dunque nelle “ zone migranti”, luoghi che sono in relazione con tutti gli altri ma allo stesso tempo ne sono distaccati. Il luogo preso in esame nel libro è: la Piana del Sele. Una delle parole chiavi nell’esistenza del migrante è il lavoro. Poiché anche la privazione di lavoro è una forma di razzismo. Fin dal primo istante lo scopo del migrante è sopravvivere e per farlo necessita di un lavoro che possa assicurargli rinascita e indipendenza. La maggior parte dei migranti spesso arrivano in Italia con prospettive lavorative alte che vengono smorzate sul nascere appena mettono piede sul territorio. Il viaggio che i migranti devono compiere per approdare in Italia non è semplice, spesso sono costretti a superare il deserto, ad arrivare in un paese sconosciuto e poi a imbarcarsi su gommoni o imbarcazioni pronti a sfidare il mare. Si arriva in Italia dal Mar Mediterraneo ma il viaggio è molto pericoloso. Inizialmente è nata l’operazione Mare Nostrum per fronteggiare l’incremento del flusso migratorio e delle morti in mare. Mare Nostrum faceva partire preventivamente alla richiesta di soccorso le navi militari. Una volta recuperati i migranti si passava all’identificazione direttamente a bordo. I problemi di Mare Nostrum però erano duplici. Era un’operazione molto dispendiosa e cara e soprattutto pareva incentivare l’arrivo di migranti. Resta comunque l’operazione che ha salvato più vite nel mare, circa 150.000. Si afferma dunque Triton, un’operazione che aveva solo il compito di sorvegliare le frontiere, si restringe l’area di intervento e si rafforza il confine europeo. Si tratta però di un programma che non salva vite ma soccorre solo le imbarcazioni vicine alla costa. Dopo l’ennesimo naufragio, l’Europa aumenta i fondi destinati a Triton ma non l’impostazione e così i soldi spesi sono uguali a quelli di Mare Nostrum ma gli effetti no. L’Europa infine dà vita ad un altro programma, Operazione Sophia, con lo scopo di individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni sospette, ma tra i compiti non compare la salvaguardia delle vite in mare. Infine c’è Mare Sicuro che non si occupa di salvataggio in mare, bensì di pattugliare e controllare le acque internazionali. Arrivati in Italia, i migranti, solitamente, e nel migliore dei casi, vivono tre diverse fasi:



primo soccorso e primissima accoglienza: si svolge nei centri istituiti nei principali luoghi di sbarchi;



prima accoglienza: si svolge nei centri collettivi già esistenti;



seconda accoglienza: si svolge in strutture SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo o rifugiati).

Ovviamente nei centri di accoglienza la situazione non sempre è idilliaca. Tra i vari problemi riscontrati abbiamo: sovraffollamento, scarse condizioni igieniche, divieto di contatti con l’esterno e assenza di informazioni sul proprio status giuridico, sulla durata e ragioni del trattenimento. Tutti elementi che hanno decretato la violazione del diritto di non subire trattamenti inumani e degradanti. Tra le varie soluzioni di accoglienza ricordiamo l’ex canapificio di Caserta. Qui Imma, la coordinatrice, ha spiegato che il CSA si occupa prevalentemente dell’accoglienza di utenti maschi, essi sono accolti in appartamenti (11). Gli appartamenti non sono tutti nello stesso palazzo poiché “un palazzo di immigrati non è ben visto”. Gli appartamenti però sono ubicati nel centro della città di Caserta in modo da favorire l’integrazione. Una volta al mese hanno un budget di spesa per il vestiario e il sostentamento. Hanno l’assistenza sanitaria, l’assistenza legale e corsi di italiano. L’apprendimento della lingua risulta un passaggio fondamentale per ogni migrante poiché, la lingua, è il primo confine (non-fisico) che divide l’immigrato dall’autoctono. Inoltre i migranti devono occuparsi dell’appartamento e partecipare attivamente alle attività politiche e sociali del centro. Se da un lato c’è la difficoltà dei migranti di vivere serenamente e in maniera dignitosa in un nuovo Paese, dall’altro ci sono le difficoltà amministrative e non solo, dei centri di accoglienza. Spesso infatti i Comuni non sono in grado di fornire servizi per i cittadini quindi ancor meno per i migranti. Quindi paradossalmente al Sud c’è un maggior dinamismo del volontariato ma al nord i servizi funzionano meglio. I più fortunati spesso diventano operatori o mediatori dei centri che prima li hanno accolti. La scelta della localizzazione del centro assume grande importanza nei processi di accoglienza. I centri di periferia risultano privi di un adeguato sistema di trasporto e l’immigrato si sente progressivamente escluso dalla società. Spesso il migrante diventa vero e proprio simbolo di “ degrado urbano” contestualizzato in aree che devono essere rivalutate o bonificate, insomma, quasi depurate dalla figura stessa del migrante. Ritorniamo dunque nella Piana del Sele. Molti immigrati appena arrivano si ritrovano ad essere braccianti. Non sono rare le storie di chi si è improvvisato bracciante in Italia pur avendo alle spalle altre competenze lavorative. Il lavoro del bracciante però è un lavoro di fatica, privazione e scarsa retribuzione. Insomma, quel lavoro che gli immigrati “stanno rubando”, come si sente spesso dire, innanzitutto non è un lavoro e in più è un qualcosa in cui nessun italiano ha voglia di fare.

È importante ricordare che prima di essere un Paese che accoglie immigrati, l’Italia è stata un Paese che ha visto andar via molti emigrati italiani. Tant’è che l’impiego di lavoratori stranieri nelle campagne del Mezzogiorno è un fenomeno iniziato negli anni ’70 in Sicilia con gli immigrati tunisini, poi africani e infine dell’Europa orientale. La loro presenza ha permesso di sopperire alla minore propensione degli italiani a svolgere mansioni faticose a basso salario. Nella Piana del Sele due momenti sono stati fondamentali: 

Lo sgombero del ghetto di San Nicola Varco;



La costruzione Cilento Outlet Village.

Cos’è San Nicola Varco? Innanzitutto negli anni ’80 furono spesi circa trenta miliardi per costruire un mercato ortofrutticolo, un progetto mai terminato. Quel poco che era stato costruito è stato saccheggiato e abbandonato fino a quando i migranti non l’hanno occupato. San Nicola Varco è diventato dunque un vero e proprio ghetto. Un ghetto che se da un lato proteggeva dalla polizia e dal pericolo dell’espulsione, dall’altro isolava e limitava i migranti tenuti lontano dalla gente “perbene”, dalla città vista come spazio di condivisione e socialità. Il migrante costretto a vivere nel ghetto ovviamente vive in condizioni pessime ma spesso questo suo malessere non può essere condiviso con nessuno, neppure con i propri familiari. Un intervistato racconta che non si ha il coraggio di dire la verità ai parenti, si finge una serenità che non esiste e dunque, piuttosto che fingere, si smette di andare nel proprio Paese. Dopo aver vissuto nel ghetto il migrante tende a voler cancellare l’esperienza concepita come mortificazione del sé. Nel ghetto però, iniziano ad affermarsi forme di autoproduzione per il sostentamento del campo proprio per riappropiarsi del sé e autorganizzarsi. Nasce un forno per il pane, una moschea, una sorta di ambulatorio e un punto per l’organizzazione di assemblee. L’unica concessione avuta dal comune è l’ acqua potabile con una fontanella (o meglio un tubo di acqua che esce dal terreno). Il sindaco subì molte proteste da parte della popolazione che non riteneva giusto regalare l’acqua agli immigrati. Ecco un’altra sottile forma di razzismo dove il diritto all’esistenza non viene concepito come tale, piuttosto come una concessione dei ricchi bianchi agli immigrati. Si arriva allo sgombero di San Nicola Varco che si concretizza come una sorta di spettacolo il cui messaggio era: lo Stato è in grado di controllare i propri confini, i migranti etc… La motivazione ufficiale dello sgombero sono state: le problematiche igienico-sanitarie. Ma il progetto che avrebbe dovuto sostituire il ghetto non era rivolto ai migranti che da un giorno all’altro si trovarono senza un tetto (seppur sudicio) sulla testa ma la costruzione di un Outlet-Store. Lo sgombero è stato vissuto, però dagli italiani come un momento di riappropriazione di uno spazio illegalmente occupato.

Nasce così nel 2012, il Cilento Outlet Village. Un posto in cui il consumatore deve sentirsi doppiamente gratificato poiché spende bene in un ambiente architettonico bello (altra importanza del luogo non solo come spazio geografico). La creazione del centro commerciale è solo uno dei diversi punti contenuti nel Piano urbanistico di Eboli per affrontare la crisi. Ma l’Outlet non ha gli effetti sperati, e non solo dimostra di essere stato uno spreco di soldi ma ha deluso anche le aspettative di giovani lavoratori, oltre ad aver allontanato ancora una volta i migranti. Altre due parole chiave per il migrante sono: documenti (ovvero il permesso di soggiorno che diventa il sogno irraggiungibile e anche strumento di ricatto) e casa (nella semplice accezione di luogo in cui abitare). Le motivazioni che spingono i migranti a voler abitare nella Piana del Sele sono varie. Prima fra tutte la vicinanza al posto di lavoro (i campi). Con il tempo è diminuita la diffidenza dei proprietari nei confronti di inquilini stranieri. L’immigrato, infatti, a parità di condizioni economiche incontra molte difficoltà nel trovare una casa, rispetto ad un autoctono. Questa diffidenza però svanisce in cambio di canoni più alti o pagamenti non tracciabili. Il migrante per far fronte alle spese cade nel subaffitto e dunque nel sovraffollamento. La coabitazione forzata non permette lo sviluppo di intimità o dell’espressione del sé in quanto si vive continuamente in uno stato di tensione. I migranti dunque, non solo garantiscono manodopera a basso prezzo ma anche il fitto di luoghi inabitabili a prezzi molto più al di sopra del mercato: 400 euro per un monolocale in una frazione senza autobus e servizi. I migranti non sono riusciti ad organizzarsi tra di loro creando un gruppo unito a causa della frammentazione delle varie etnie, del ricatto padronale e delle intimidazioni della polizia....


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