11. Il giudicato. a) Limiti oggettivi (7p) PDF

Title 11. Il giudicato. a) Limiti oggettivi (7p)
Course Diritto processuale civile
Institution Università degli Studi di Perugia
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Giudicato. Vol 1 Luiso ...


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LA COSA GIUDICATA: I limiti oggettivi La cosa giudicata (o giudicato) fa parte del secondo gruppo di presupposti processuali, quelli attinenti all'oggetto della controversia. I tre argomenti che riguardano il giudicato sono: i limiti oggettivi (= cosa statuisce la sentenza); i limiti soggetti (= nei confronti di chi) ed i limiti temporali (=fino a quando). Noi parliamo di “effetti della cosa giudicata o del giudicato”, ma sarebbe più corretto parlare di “effetti della sentenza passata in giudicato”, perché il giudicato non è un ulteriore effetto che si aggiunge a quelli della sentenza, ma è una qualità che consiste nella stabilità di tali effetti. Il provvedimento giurisdizionale produce gli effetti x, y e z, i quali diventano stabili nel momento in cui la pronuncia passa in giudicato, perché da quel momento non sono più utilizzabili i mezzi di impugnazione ordinari; non potendo rimuovere la fonte degli effetti (se non con le impugnazioni straordinarie), è chiaro che gli effetti acquistano stabilità. L'art. 324 c.p.c. dà la definizione della cosa giudicata formale: “ Si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui a numeri 4 e 5 dell'articolo 395 “ I mezzi di impugnazione indicati nell'art. 324 vengono anche definiti mezzi di impugnazione ordinari, perché l'impossibilità di una loro utilizzazione determina il passaggio in giudicato della sentenza. Contrapposti a questi vi sono i mezzi di impugnazione straordinari, i quali sono suscettibili di essere utilizzati anche contro sentenze passate in giudicato formale, e sono: la revocazione per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 c.p.c. e l'opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.). E' possibile individuare i mezzi di impugnazione ordinari come quelli spendibili contro i vizi palesi della sentenza, ed i mezzi di impugnazione straordinari come quelli spendibili contro i vizi occulti. Da qui l'essenziale conseguenza che il termine per proporre il mezzo di impugnazione ordinario ha un dies a quo certo (la pubblicazione della sentenza), mentre quello per proporre il mezzo di impugnazione straordinario ha un dies a quo incerto (la scoperta del vizio), e non si può sapere né se e né quando tale vizio sarà scoperto. Pertanto, possiamo concludere nel senso che si dice passata in giudicato la sentenza che, non essendo più sottoponibile ai mezzi di impugnazione ordinari, ha una certa stabilità. L'esperienza dimostra che i mezzi di impugnazione straordinari raramente sono utilizzabili, e quindi la sentenza passata in giudicato formale è, nella stragrande maggioranza dei casi, effettivamente stabile. Qual è il contenuto della pronuncia? La sentenza può essere alternativamente di rito o di merito. Nel primo caso essa ha ad oggetto il processo, ed afferma o nega la possibilità di pronunciare nel merito a causa della esistenza/inesistenza di un presupposto processuale. La sentenza di rito, per definizione, non produce effetti sul terreno del diritto sostanziale, in quanto enuncia

regole di comportamento appunto processuali e non sostanziali (il giudice che si dichiara incompetente, non statuisce niente in ordine al diritto oggetto della domanda; il giudice qualificandosi incompetente dichiara, appunto, di non avere il potere di emettere una sentenza di merito). Il giudicato formale (che si forma nel momento in cui un provvedimento non è più soggetto alle impugnazioni ordinarie) riguarda tutte le pronunce; il giudicato sostanziale consiste, invece, negli effetti delle pronunce di merito, cioè delle sentenze che pronunciano sulla situazione sostanziale dedotta in giudizio. E' necessario, poi, distinguere fra giudicato esterno e interno: si definisce interno, il giudicato formatosi nello stesso processo; esterno quello formatosi in un processo diverso. Questa distinzione può essere rilevante in due direzioni: in primo luogo in ordine al potere di rilevazione del giudicato stesso. Per lungo tempo la giurisprudenza ha affermato che solo il giudicato interno poteva essere rilevato ex officio; al contrario il giudicato esterno aveva il regime dell'eccezione rilevabile solo dalla parte. La Cassazione ha mutato parere ed ha ritenuto rilevabile d'ufficio anche il giudicato esterno. La rilevanza di tale distinzione, riguarda solo quella parte della dottrina che ritiene proponibile solo dalla parte l'eccezione di giudicato esterno. In secondo luogo, la distinzione riguarda l'efficacia della sentenza al di fuori del processo in cui è stata emessa. L'opinione dominante è nel senso che la sentenza di rito (ad eccezione della sentenza sulla competenza e sulla giurisdizione pronunciata dalla Corte di Cassazione) non abbia effetti al di fuori del processo in cui si è formata: pertanto la sentenza di rito passata in giudicato formale, non ha neppure effetti nel successivo processo, instaurato fra le stesse parti in ordine allo stesso oggetto, qualora all'interno di questo secondo processo dovesse sorgere la stessa questione di rito (opinione, che Luiso ritiene non del tutto convincente). Cos'è l'oggetto del giudicato sostanziale, cioè della statuizione che proviene da una pronuncia di merito passata in giudicato? E' opinione condivisa, ritenere che il punto di riferimento del giudicato è la situazione sostanziale per la quale è stata richiesta la tutela giurisdizionale; la giurisdizione parte dal diritto sostanziale per tornare sul diritto sostanziale. Gli effetti delle pronunce giurisdizionali devono per definizione avere influenza sul piano del diritto sostanziale, perché altrimenti verrebbe meno la funzione stessa della giurisdizione. Con riferimento alla tutela dichiarativa, la cui funzione è quella di determinare in modo vincolante le regole di condotta che due o più soggetti possono e devono tenere con riferimento ad una situazione sostanziale protetta, divine semplice concludere che il giudicato (sostanziale) consiste appunto nella determinazione autoritativa (perché proviene da un organo pubblico) e perciò vincolante di tali regole di condotta. L'oggetto del giudicato (sostanziale) consiste nella statuizione autoritativa circa il modo di dover essere della realtà sostanziale; ciò consente di individuare una correlazione fra oggetto della domanda e oggetto della pronuncia. Tra questi due elementi vi è una normale correlazione: è la domanda che introduce nel meccanismo processuale una porzione di realtà sostanziale; dopodiché la pronuncia statuisce sul modo di dover essere della realtà sostanziale introdotta in giudizio. Per cui oggetto della domanda, oggetto del processo e oggetto della

decisione sono tre nozioni che tendenzialmente coincidono: ciò che la domanda individua diviene oggetto del processo, ciò che è oggetto del processo diviene oggetto della decisione e quindi del giudicato. Può accadere, però, che vi sia una non coincidenza fra l'oggetto della domanda e l'oggetto della decisione. Tale non coincidenza può essere fisiologica ed avviene, dunque, secundum ius: cioè non dipendente da errori del giudice, propria delle ipotesi in cui vi è una pluralità di domande fra loro alternative o condizionate. In questi casi se il giudice non esamina una domanda, lo fa in maniera fisiologica senza violare le norme processuali. Ben può essere quindi, che le domande proposte siano più di quelle decise, e quindi ci sia uno scarto fisiologico fra oggetto del processo e oggetto della decisione.

Es. : Tizio chiede, nei confronti di Caio, in via principale l'annullamento del contratto ed in via subordinata l'adempimento. Se il giudice accogli la domanda principale, assorbe la subordinata. Oggetto del processo sono due domande (annullamento e adempimento); oggetto della sentenza una sola delle due (annullamento).

La non coincidenza può essere anche patologica ed essere contra ius; in questo caso lo scarto fra oggetto del processo e oggetto della sentenza può dipendere anche da errori del giudice, che possono verificarsi sia nel senso che il giudice non decide di domande che doveva decidere (quindi l'oggetto del processo è più ampio dell'oggetto della decisione = infrapetizione), sia nel senso che il giudice decide di domande che non sono state proposte (quindi l'oggetto della decisione è più ampio dell'oggetto del processo = ultrapetizione). In queste ipotesi ciò che rileva ai fini del giudicato è il quid decisum (l'oggetto della sentenza) e non il quid disputatum (l'oggetto della domanda), in quanto il giudicato si forma sulla decisione; il giudicato si forma sulla pronuncia del giudice e non sulla richiesta della parte. Generalmente fra i due elementi c'è coincidenza, ma ove non vi fosse, occorre far riferimento a ciò che ha deciso il giudice e non a ciò che hanno domandato le parti. I limiti oggettivi - soggettivi e temporali della cosa giudicata, vanno sempre esaminati presupponendo che ci sia una sentenza passata in giudicato e che in un secondo processo ci si chieda se tale sentenza abbia efficacia oppure no (si deve stabilire se e in che limiti la prima sentenza è preclusiva). Possiamo constatare che le relazioni astrattamente ipotizzabili fra l'oggetto della prima decisione (cioè quella passata in giudicato e della cui efficacia si discute nel secondo processo) e l'oggetto del secondo processo sono tre: relazione di - identità; - dipendenza; - pregiudizialità. L' IDENTITA' si verifica quando l'oggetto del secondo processo coincide con l'oggetto della decisione passata in giudicata; se l'oggetto della prima sentenza è X, è X anche l'oggetto del secondo processo. Perché si abbia un rapporto di identità è necessario che, attraverso i criteri di identificazione del diritto, si concluda che la situazione sostanziale oggetto della prima sentenza coincide con la situazione sostanziale oggetto del secondo processo. Ciò è necessario, ma non è sufficiente: devono coincidere anche altri due profili rilevanti per l'identificazione dell'oggetto del

processo: la lesione del diritto ed il tipo di tutela richiesta.

Es. : Tizio agisce in rivendicazione nei confronti di Caio, facendo valere il suo diritto di proprietà sul bene x; allega quale lesione, la lesione del diritto di proprietà e richiede quale tutela, la condanna di Caio alla consegna del bene. Se successivamente Tizio chiede che Caio rispetti la distanza legale dal confine rispetto allo stesso bene x, è evidente che la tutela richiesta ha oggetto lo stesso diritto di proprietà; ma la lesione è diversa (violazione della distanza legale) e così pure la tutela richiesta (condanna al ripristino della distanza legale).

Se nel secondo processo si chiede la determinazione delle stesse regole di condotta già determinata nel primo processo, si ha identità; se, al contrario, le regole di condotta che si chiede di determinare sono diverse, l'identità non sussiste. Rapporto di PREGIUDIZIALITA' E DIPENDENZA, per spiegare tale relazione bisogna partire dalla constatazione che la norma, di solito, quando prevede il verificarsi di un effetto giuridico, descrive una fattispecie alla cui presenza l'effetto si verifica. Schematizzando tale situazione, possiamo dire che al verificarsi dei fatti A, B e C la norma prevede l'effetto giuridico X : A + B + C = X L'ordinamento, però, non necessariamente individua come elementi della fattispecie dei meri fatti storici, può anche prevedere che uno o più elementi della fattispecie siano costituiti dall'esistenza, inesistenza o modo di essere di un altro effetto giuridico. Ad es. l'obbligazione alimentare sorge in presenza della fattispecie: - D (= stato di bisogno incolpevole dell'alimentando; mero fatto); - E ( = alimentatore deve essere un soggetto benestante; mero fatto); - X ( = rapporto di parentela fra i due soggetti; situazione giuridica). Potremmo quindi schematizzare: X + D + E = Y e che X = A + B + C ; dove X è nel secondo caso un effetto giuridico autonomo e nel secondo un fatto costitutivo di un diverso effetto giuridico (Y). Lo schema appena descritto è molto comune all'interno del sistema, ed integra il rapporto di pregiudizialità - dipendenza, perché l'effetto Y è dipendente dall'effetto X. Se non si verifica l'effetto X, non si integra la fattispecie dell'effetto Y, che quindi non esiste. A sua volta, l'effetto X è pregiudiziale all'effetto Y. Perché X esista basta che esistano A, B e C e non c'è necessità che esiste anche Y (in quanto non è un elemento della fattispecie costitutiva di X); invece perché esista Y è necessario che esista anche X, in quanto elemento della fattispecie costitutiva di Y. A sua volta la sola esistenza di X non è sufficiente a produrre l'effetto giuridico dipendente Y, poiché è necessario che sussistano anche gli altri elementi della fattispecie costitutiva D e E. Si ha PREGIUDIZIALITA' quando l'oggetto della sentenza è la situazione pregiudiziale e l'oggetto del secondo processo è la situazione dipendente: cioè quando la sentenza passata in giudicato ha deciso X e l'oggetto del secondo processo è Y. Si ha DIPENDENZA quando l'oggetto della sentenza è la situazione dipendente Y e l'oggetto del secondo processo è la situazione pregiudiziale X. Per esaminare il rapporto di pregiudizialità - dipendenza è necessario

preliminarmente stabilire come mai la sentenza, che ha ad oggetto la situazione pregiudiziale o quella dipendente, possa produrre effetti in un processo, del quale oggetto è rispettivamente la situazione dipendente o quella pregiudiziale. Nel caso di pregiudizialità, oggetto della prima sentenza è X ed oggetto del secondo processo è Y. Nel secondo processo il giudice per decidere di Y, deve portare la sua attenzione sulla fattispecie dello stesso, e fra gli elementi della fattispecie c'è anche X, che è stato a sua volta oggetto di una precedente decisione. La domanda che si pone è la seguente: il giudice del secondo processo può liberamente decidere del modo di essere di X, oppure è vincolato a quanto statuito nella prima sentenza? L'effetto della prima sentenza si estende verso il basso, cioè in direzione della situazione dipendente?

Es. : obbligazione alimentare (Y) =

(A) il debitore deve essere un soggetto benestante + (B) stato di bisogno incolpevole dell'alimentato + (X) rapporto di parentela tra debitore e creditore. A+B +X =Y RAPPORTO DI PREGIUDIZIALITA' Mentre A e B sono meri fatti storici, rilevanti solo come elementi della fattispecie Y; X è invece uno status di parentela, una situazione sostanziale che è possibile sia stata oggetto di una precedente sentenza passata in giudicato. Quando si discute degli alimenti, quindi, si deve necessariamente accertare se attore e convenuto siano padre e figlia, e su tale punto esiste una sentenza passata in giudicato. Il giudice deve prendere per buono quanto statuito in quella sentenza, o deve autonomamente istruire la questione, ed autonomamente deciderla?

La soluzione pacifica si trova nell'art. 2909 c.c. : l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto. Quando si è definito con sentenza passata in giudicato il modo di essere del diritto pregiudiziale e nel secondo processo si discute della situazione dipendente, le parti e il giudice del secondo processo sono vincolati a ciò che è stato deciso sulla situazione pregiudiziale.

Es. : per accertare se esiste il diritto agli alimenti, il giudice darà di A e di B la configurazione che risulterà dall'istruttoria della causa, mentre di X non potrà dare altra configurazione che quella che scaturisce dalla precedente sentenza passata in giudicato.

Nell'ipotesi di dipendenza, per decidere di Y (oggetto della prima sentenza), il giudice ha portato la sua attenzione sulla fattispecie del diritto, in cui, quale elemento della fattispecie costitutiva, c'è X. Quando nel secondo processo si deve decidere di X, è vincolante quanto su tale diritto è detto nella prima sentenza, oppure il secondo giudice può liberamente decidere? L'effetto della prima sentenza si estende verso l'alto, cioè in direzione della situazione pregiudiziale? Oggetto della prima decisione è il diritto dipendente: per accertare l'obbligo alimentare, il giudice deve convincersi che esiste un rapporto di parentela. Si tratta di stabilire se ciò che il primo giudice ha detto della situazione pregiudiziale forma giudicato; se, cioè, all'interno del secondo processo che ha per oggetto la situazione pregiudiziale, la configurazione di questa è bloccata dalla precedente sentenza o è liberamente discutibile. Una volta che il primo giudice, che si è occupato del rapporto alimentare, ha detto

che attore e convenuto sono padre e figlia, nel secondo processo, che ha ad oggetto l'esistenza del rapporto di filiazione, si può discutere liberamente del modo di essere di tale rapporto oppure no? Dall'art. 34 c.p.c. si ricava che la decisione della questione pregiudiziale ha efficacia di giudicato solo se nel precedente processo vi è stata esplicita domanda di una delle parti, oppure la legge prevede (ma sono ipotesi rarissime) che delle questioni pregiudiziali si debba decidere con efficacia di giudicato. Se è mancata la domanda di parte o non sussiste la previsione di legge, ciò che il giudice del primo processo ha detto circa il modo di essere della situazione pregiudiziale non costituisce una decisione con efficacia di giudicato, ma una mera cognizione incidenter tantum (cioè finalizzata esclusivamente alla decisione del diritto dipendente oggetto del processo). Quindi: nelle ipotesi di pregiudizialità, dall'art. 2909 c.c. si ricava che la sentenza sul diritto pregiudiziale si espande verso il diritto dipendente; nelle ipotesi di dipendenza, dall'art. 34 c.p.c. si ricava che la sentenza sul diritto dipendente non si espande verso il diritto pregiudiziale; su quest'ultimo si forma il giudicato solo se c'è domanda. (quando la situazione pregiudiziale è fatta oggetto di domanda, vi è un processo cumulato, che ha due oggetti: la situazione pregiudiziale e quella dipendente.) Nel caso di dipendenza, la soluzione che si fonda sull'art. 34 c.p.c., è praticamente indiscussa con riferimento alle ipotesi in cui un diritto entra a comporre la fattispecie di un altro diritto (c.d. pregiudizialità in senso tecnico; proprio perché ad essere pregiudiziale è un diritto vero e proprio). Il problema di pone in riferimento alla pregiudizialità c.d. logica, cioè a quelle ipotesi in cui viene dedotto in giudizio uno degli effetti di un rapporto giuridico: la disciplina ex art. 34 c.p.c. trova applicazione anche in questo caso? Il giudice che deve decidere sull'esistenza o inesistenza di un diritto (es. Tizio chiede a Caio il pagamento della tredicesima), deve necessariamente prendere posizione anche in riferimento all'esistenza o qualificazione del rapporto giuridico a cui quell'effetto si riallaccia (nell'esempio: al rapporto di lavoro subordinato). Se la sentenza che ha ad oggetto la decisione del giudice circa l'esistenza/inesistenza del diritto passa in giudicato, e in seguito Caio chiede a Tizio il risarcimento dei danni per violazione dell'obbligo di fedeltà; il giudice del secondo processo è vincolato alla qualificazione che, nel primo processo, è stata fatta del tipo di rapporto che intercorre tra le parti? Al problema sono state date due soluzioni diverse: - per taluni vale lo stesso criterio che si applica per la pregiudizialità in senso tecnico (art. 34 c.p.c.), per cui il giudicato sull'esistenza e qualificazione del rapporto si forma solo se c'è domanda di parte. - Altri, invece, rilevano che la pregiudizialità in senso logico si innesta su un modo di essere delle realtà sostanziale diverso da quello della pregiudizialità in senso tecnico: nel rapporto diritto pregiudiziale/diritto dipendente (pregiudizialità tecnica), è un diritto che attribuisce un bene della vita; il rapporto giuridico da cui questo diritto

scaturisce, non è di per sé una situazione sostanziale attributiva di alcuni beni della vita. Nel rapporto di pregiudizialità logica, viene invece dedotto in giudizio uno degli effetti del rapporto giuridico e si ha quindi riguardo alla relazione che intercorre tra il singolo effetto e il rapporto giuridico; l'utilità non nasce dal rapporto in sé, ma dai singoli effetti del rapporto. Da ciò deriva che nessun elemento si può trarre dall'art. 3...


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